“Tuttavia.eu”
23.4.2014
O cristianesimo o anarchia?
Qual
è la differenza fra essere moderati,
equilibrati ed essere grigi, incerti?
Non è facile stabilirlo. Uno dei criteri è che il grigio
oscillante non ha ancora preso – e
probabilmente non prenderà mai – una posizione, mentre il moderato consapevole è uno che, avendo conosciuto gli estremi e
avendoli soppesati, ha scelto di superarli inverandone gli aspetti positivi e
lasciando scivolar via gli eccessi. Il primo inclina al compromesso, il secondo tende alla mediazione. Proviamo a mettere a fuoco l’egoismo individualistico
contemporaneo: molti lo praticano, lo pratichiamo, ma talora ce ne vergogniamo
e talaltra ce ne vantiamo. Nel dubbio, spesso lo camuffiamo ipocritamente o,
almeno, lo temperiamo con qualche gesto di altruismo generoso. Questa
tiepidezza, che in un testo del I secolo d. C. intitolato “Rivelazione” viene
definita “vomitevole”, ci rende poco interessanti agli occhi altrui e – quel
che è più grave ancora – un po’ noiosi persino a noi stessi.
La filosofia, fra molti difetti e qualche pregio, può liberarci da
questa assai poco aurea mediocrità:
può rappresentarci il massimo e il minimo, il positivo puro e il negativo
estremo, in modo da scuoterci dall’ovvio. In modo da metterci in grado o di
spostarci decisamente su uno dei due versanti o di restare dove siamo, al
centro delle opposte tensioni, ma per scelta. E dunque con dignità. Che cosa
sarebbe un’esistenza decisamente concentrata sul proprio Io, senza concessioni
illusorie e pietistiche a istanze esterne o addirittura superiori (come la
volontà di Dio, le leggi dello Stato, l’interesse della società, il bene comune
dell’umanità, il progetto del Partito…)? Un taciturno e riservato insegnante
tedesco ha dato la sua articolata e argomentata risposta nel 1845 scrivendo L’Unico e la sua proprietà. Il libro
ebbe una certa fortuna nell’immediato, ma presto finì - insieme al suo autore, deceduto non ancora cinquantenne
nel 1856 – nel dimenticatoio. Alcuni decenni dopo, un giovane poeta inglese
scoprì per caso il volume nella biblioteca del British Museum di Londra, ne rimase folgorato e dedicò molta parte
delle sue energie intellettuali a conoscere, e a far conoscere, la figura e
l’opera del pensatore tedesco dimenticato. Così nel 1898 John Henry Mackay
pubblica il suo Max Stirner. Vita e opere
che avrà due successive edizioni nel 1910 e nel 1914: un testo non molto
più fortunato del capolavoro del suo protagonista e che sarebbe rimasto ignoto
al pubblico italiano se in questi mesi non fosse stato tradotto ed edito
(Bibliosofica, Roma 2013, pp. 227, euro 13,00) per precisa volontà di Giovanni
Feliciani. La farraginosità,
tipicamente teutonica, dell’originale non è stata certo limata nella versione
italiana per cui diversi passaggi si
devono rileggere due volte, talora poi per arrivare alla conclusione che
l’autore - se fosse stato
meno analitico e puntiglioso – se li sarebbe potuto risparmiare a vantaggio di
tutti: comunque la presenza di altre pagine più fruibili e più interessanti
giustifica, nel complesso, la lettura del volume.
Da questa lettura si ricava, ad
abundantiam, la risposta alla domanda che ci siamo appena posti: cosa
sarebbe un’esistenza, rigorosamente e coerentemente, individualistica? “Niente
di più e niente di meno della spiegazione di sovranità dell’individuo, la sua
unicità e il fatto che sia incomparabile, questo è ciò che Stirner annuncia.
[…] Ci ha fatto pensare di nuovo ai nostri veri interessi, ai nostri
particolari interessi profani, personali, propri e ci ha mostrato come proprio
la loro osservanza ci ridarà la gioia di vivere che sembriamo aver perso e non
gli interessi idealistici, sacri, degli altri e il fatto di sacrificarci
nell’interesse di tutti. Mentre analizza lo Stato dei politici, la società dei
socialisti, l’umanità degli umani [o degli umanisti ?] e ce li sottopone come
barriere della nostra proprietà, dà il colpo di grazia all’autorità – ha rotto
con la volontà dominante della maggioranza, della comunità e anche con i
privilegi e, al posto del borghese, del lavoratore, dell’uomo fa il suo
ingresso l’Io, al posto dello sterminatore spirituale il creatore in persona”
(p. 157).
Mackay, scrivendo a cavallo fra il XIX e il XX secolo, è talmente
entusiasta da preconizzare per Max Stirner una fortuna che in quel lasso di
tempo risultava impronosticabile: “Comincia con lui una nuova epoca nella vita
del genere umano: l’epoca della libertà! Non abbiamo per essa ancora trovato un
nome migliore di quello di anarchia: l’ordine condizionato dall’interesse
reciproco, invece della mancanza di ordine del potere esistita fino ad oggi; la
sovranità esclusiva dell’individuo sulla sua personalità, invece della sua
sottomissione; la responsabilità personale per le sue azioni, invece della sua
subordinazione – la sua unicità! […] Questo cambiamento nelle condizioni di
vita sarà tanto enorme, e relativamente altrettanto veloce, quanto sicuro e non
cruento, che il suo libro immortale eguaglierà soltanto quello della Bibbia in quanto a importanza. Così come questo libro ‘sacro’ sta all’inizio
del calendario cristiano e avrà i suoi effetti devastanti per due millenni
quasi fino all’ultimo angolo della Terra abitata dagli uomini, questo egoista
cosciente di sé e non sacro, sta all’ingresso della nuova era, all’insegna
della quale viviamo, per esercitare un’influenza, altrettanto benefica, quanto
è stata deleteria quella del ‘libro dei libri’ ” (p. 180).
La previsione del biografo di Stirner pone almeno due questioni a chi la
legge dopo un secolo intero. La prima è se tale previsione si sia avverata. A
me la risposta non sembra facile.
Se pensiamo all’anarchia come progetto politico che coniuga
inseparabilmente i tre princìpi della Rivoluzione francese (libertà,
uguaglianza e fraternità) mi pare che non si sia realizzata. Eppure Stirner
sembra suggerire, o per lo meno non escludere abbastanza chiaramente,
un’interpretazione riduttiva dell’anarchia come egocentrismo, come
individualismo esasperato: in questo senso la storia del berlusconismo in
Italia, ma tante altre vicende analoghe nel pianeta, sembrano attestare la
vittoria netta del particolare sull’universale, del proprio sul comune.
Insomma: se, e in quanto, teorico dell’anarco-capitalismo, Stirner ha davvero
vinto molto più di quanto l’ignoranza diffusa sulla sua opera lasci supporre.
Una seconda questione suggerita dalla
previsione di MacKay sulla fortuna delle idee stirneriane è più sottile ancora.
L’alternativa, infatti, sembra configurarsi come anarchia (senza solidarietà
com-passionevole, attiva, intenzionale) o cristianesimo: la battaglia dell’Unico “non era contro le forme esteriori della Weltanschauung cristiana, contro la
Chiesa di oggi marcia e in rovina, bensì contro quello spirito che edifica
roccaforti sempre nuove con sempre nuove forme, quello spirito del Cristianesimo
che giace come un velo oscuro sul passato” (p. 179). A me questa impostazione
risulta illusoriamente comoda sia
per gli anarchici alla Stirner (ai quali basterebbe il declino definitivo del
cristianesimo per cantare vittoria) sia per i cristiani (ai quali basterebbe il
declino definitivo dell’anarchia per cantare vittoria). La vita e l’opera di
giganti come Lev Tolstoj, che hanno incarnato vangelo e anarchia in senso
pieno, dovrebbe metterci in allerta su aut-aut
troppo schematici. Dal mio punto di vista l’alternativa è un’altra: o il
soggettivismo antropocentrico moderno inaugurato da Cartesio (l’unico
fondamento è il pensiero dell’ego mentre pensa) o qualsiasi altra prospettiva
realistica, ontocentrica (che riconosca la relatività irriducibile del soggetto
umano rispetto alla Natura dei Greci o al Dio dei monoteismi o allo Spirito
degli hegeliani o all’Essere degli heideggeriani o al Cosmo degli ecologisti…).
Infatti la rilevanza teoretica di Stirner (non so quanto consapevole da parte
sua) è di essere il punto di arrivo insuperabile del “principio di immanenza” moderno (come individuato,
criticamente, da Cornelio Fabro e da altri): dopo di lui - la cui “causa è fondata sul nulla!” –
si può solo praticare l’individualismo amorale, asociale e areligioso, non
esasperarlo. Ma, se fallisse perché proprio la sua attuazione in pratica ne
rivelasse l’insostenibilità teoretica, ciò non significherebbe automaticamente
la vittoria (o la rinascita) del cristianesimo. Potrebbe infatti capitare che,
studiando con libertà le fonti bibliche, si scoprisse che il cristianesimo non
è il fondamento originario e originale di tutti i valori morali ma il
catalizzatore di valori morali elaborati da saggezze ad esso precedenti e via
via contemporanee (egiziana, ebraica, greca, romana…); che esso dunque può
accettare di diventare, pariteticamente, il tassello di un mosaico sapienziale
più vasto, planetario (rinunziando a primogeniture e a monopoli storicamente e
filologicamente infondati). Ebbene, in questa evenienza, l’alternativa radicale
all’ unicismo orgogliosamente nichilistico di Stirner
potrebbe configurarsi in modalità inedite che, pur inglobando anche elementi
della tradizione cristiana, siano incentrate in un saldo rispetto della Physis (intesa in maniera più o meno ampia, più o meno laica, più o
meno sacrale) e impreziosite da valori coltivate da altre tradizioni sia occidentali (illuminismo, socialismo,
ambientalismo…) sia orientali (induismo e buddhismo in primis).
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
1 commento:
Nel considerare la ricorrente espressione di Gesù di Nazareth
«ma io vi dico»
troviamo una sovranità personale dialettica, relata invece che autistica.
Tutto sommato un antesignano dell’inedita modalità alla quale, caro Augusto, inviti.
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