“Phronesis” (19 – 20)
Aprile 2014
SOFIA E PSICHE
Sin
dalle prime teorizzazioni, la Philosophische
Praxis ha dovuto investire energie per marcare la differenza fra sé e le
psicoterapie. Certi modi per formulare tale differenza sono stati così drastici
da risultare persino equivoci: quando Achenbach, ad esempio, scrive che
"la consulenza filosofica non è una psicoterapia alternativa, ma un'alternativa
alle psicoterapie" ( ) può suggerire l'idea –
errata - che i filosofi auspichino l’eclissi degli psicoterapeuti, laddove, più
semplicemente e più saggiamente, intende avvertire che non si vive di soli “paradigmi terapeutici” . Se, in
qualche caso, si è esagerato nel marcare la differenza (anzi, preciserebbero i
logici, la diversità: perché la differenza si dà all'interno dello stesso
genere, la diversità fra generi), ciò è servito comunque per bilanciare altri
casi nei quali il consulente filosofico ha civettato con il pubblico in modo da
indurlo, sia pur vagamente, a supporre che egli potesse non soltanto
affiancarsi allo psicologo, ma addirittura spodestarlo (per esempio
somministrando Platone al posto del Prozac). La nostra associazione
professionale è stata in prima linea (anche a costo di dolorose scissioni al
proprio interno e di durevoli tensioni con associazioni analoghe all’esterno)
nella difesa dell’identità filosofica: per questo si può permettere, adesso,
senza rischiare fraintedimenti di segno opposto, di farsi pioniera di una nuova
alleanza con il mondo variegato degli psico-cultori.
Dopo la
fase delle oscillazioni spericolate è arrivato il momento della integrazione
serena fra discipline epistemologicamente distinte ma non radicalmente estranee
né, ancor meno, incompatibili. Il volume Sofia
e psiche, qui in esame, segna - per l'Italia e non solo - una tappa
cruciale di questo passaggio dalla polemica
(sia nella forma "Non abbiamo nulla in comune" sia nella forma
"Io sono più efficace di te") alla cooperazione ("Proprio perché siamo diversi possiamo
scambiarci ipotesi di lavoro e acquisizioni contenutistiche"): perché,
data la complessità inesauribile dell’essere umano, non provare a ri-accostarsi
reciprocamente per capirlo un po' meglio e, possibilmente, dargli sinergicamente
una mano nel cammino dell'emancipazione? D’altra parte, si tratta di un
ri-avvicinamento fra rami dello stesso albero (o, per meglio dire, dell’albero
al ramo che da esso si era gradualmente diramato).
Pollastri e la memoria della differenza
Già queste innocenti
righe introduttive potrebbero scontrarsi con alcuni passaggi cruciali del primo
contributo (Un estraneo in famiglia.
Sulla relazione tra consulenza filosofica e psicoanalisi) in cui Neri
Pollastri si attribuisce il ruolo di sentinella epistemologica, riprendendo e
sistematizzando i diversi scritti in cui (con chiarezza magistrale talora
addirittura tranciante) ha delineato la differenza fra i due approcci. Infatti
mi è scappata la parola emancipazione
per indicare un possibile obiettivo comune fra CF e psicoanalisi: ma “il
benessere, la salute, la felicità, la crescita, l’autonomia, il cambiamento”
non sono solo “conseguenze collaterali e non fini in sé” della CF? Dunque non
anche l’emancipazione? Forse è questione di vocaboli, ma preferirei – anziché
contrapporre questi obiettivi alla “ricerca della ‘verità’ nella comprensione
del mondo” – assumerli a patto di qualificarli immediatamente. Mi spiego
(spero) meglio: la CF non mira al “benessere” o alla “felicità”, alla
“autonomia” o alla “emancipazione” tout
court (o, per lo meno, nelle accezioni correnti di questi termini); ma mira
a quel “benessere”, a quella “felicità”, a quella “autonomia”, a quella “emancipazione” che la filosofia
può donare e che solo essa dona.
Che poi sono quelle condizioni esistenziali (diversamente interpretate
da ciascun filosofo) che, comunque, si configurano come effetto e conseguenza
della (almeno parziale) acquisizione di “verità”. Se questo modo di esprimersi
non fosse accettabile, potrei tentare una formulazione per me equivalente ma
forse più digeribile: la CF non mira alla “felicità” o al “benessere” prima, o a prescindere, dalla ‘verità’, ma solo dopo e come risvolto
della verità. Detto altrimenti: quale filosofo sarebbe disposto a negare che le
sue prospettive filosofiche (anche le più nichilistiche) gli stanno conferendo
una “felicità” e una “autonomia” che in nessun altro modo avrebbe
raggiunto e che sono strettamente
intrecciate col suo filosofare?
Oppure (interrogando me stesso): perché mi interessa cercare la verità
se non in quanto può farmi “fiorire” (M. Nussbaum) come essere umano? Allora,
anzicché dire ad un mio consultante che i miei colleghi psicoterapeuti lo
potrebbero aiutare a liberarsi ed io invece
a capire sé stesso e il mondo, penso che non tradirei la filosofia se mi
esprimessi diversamente: “Psicoterapeuti e filosofi consulenti vorremmo
metterci a disposizione del tuo processo di auto-liberazione; essi rispetto ai
tuoi condizionamenti psichici (soprattutto inconsci), io rispetto agli errori e
dalle illusioni (di cui si ha, o
si può avere senza sondaggi speleologici, consapevolezza)”. Salvare la
teoreticità dello scambio fra consulente e consultante è indispensabile; ma
altrettanto salvarne la dimensione pratica (nel doppio senso di esistenziale e
politica). Altrimenti, per evitare una degenerazione utilitaristica della CF,
si rischia di ipotizzare uno scambio fra cervelli in relazione telepatica, non
fra corpi pensanti.
I distinguo (motivati) alla
tesi di Pollastri
Sin dal secondo contributo,
a firma di Maria Luisa Martini (Pratica
filosofica e pratica psicoanalitica. Un approccio ermeneutico), il resto
del volume è costellato da considerazioni – implicitamente o esplicitamente – critiche rispetto all’impianto di Pollastri (e di Achenbach). Critiche, ovviamente, nell’unico senso
accettabile in filosofia: come proposte di cernita che, accogliendo il valido
di una tesi, la inverano in una prospettiva più ampia (e/o più convincente).
Così, almeno, mi pare di poter intendere l’invito dell’autrice a non “ridurre
la portata delle questioni realmente presenti quando ci si interroga sulla
eredità freudiana” (muovendo “obiezioni di principio” ad “alcuni concetti
portanti della teoria psicanalitica”, soprattutto alle “modalità della pratica
clinica, dall’impostazione del setting,
al tipo di relazione che viene instaurata tra terapeuta e paziente, alla
centralità attribuita al processo di trasnfert”),
rischiando di “ignorare l’impatto e la diffusione capillare della psicoanalisi,
che ha permeato profondamente, in ogni aspetto della vita quotidiana, le forme
in cui l’uomo contemporaneo pensa e rappresenta se stesso”. Oppure anche il
passaggio in cui si rivendica, anche alla pratica psicanalitica, sia pure in
una forma “ibrida e ambigua”, un riferimento alla “verità”: intesa certo in
maniera analoga rispetto alla nozione filosofica (essa è “attestata
dall’efficacia della relazione terapeutica, dall’attenuazione dei sintomi, da
condizioni di vita più accettabili”: qui è il contenimento del dolore, insomma,
a fungere da “parametro di una verità ritrovata, di un senso di vita
ricostruito”, ma non molto distante da quella “accezione del termine ‘verità’
che si va definendo nelle pratiche filosofiche” per la quale “il criterio di
verificazione è rappresentato dalla vita stessa del soggetto, che testimonia
con il suo concreto esistere la verità di ciò che le sue parole si limitano a
enunciare. La verità di ciò che dico a te tu la vedi in me, nel mio essere e
nel mio agire, nella relazione che dimostro di saper instaurare con me stesso e
con gli altri nella vita quotidiana. I parametri logici o epistemologici
vengono sostituiti da parametri esistenziali, da una verità incarnata dal
singolo e dalla comunità filosofica”.
Contaminazioni feconde
Si può riflettere sui rapporti generali
fra CF e “mondo psy” solo sino a un certo punto: oltre il quale bisogna planare
su casi concreti, nomi e cognomi in dettaglio. E’ quanto fanno, con ammirevole
dovizia di rimandi testuali ed esercizi di esegesi, tutti gli altri contributi
del volume (tranne l’ultimo per le ragioni che esporrò a conclusione della
recensione). Vediamo, sia pur rapidamente, con quali impostazioni
psicoterapeutiche (e, in particolare, psicoanalitiche) avvengono i confronti
critici (quasi sempre attestanti la possibile fecondità di contaminazioni,
nella consapevolezza dell’irriducibile identità originaria, fra i diversi
approcci).
Di estremo interesse il terzo articolo (Jung precursore della consulenza filosofica? Visioni del mondo a
confronto) in cui Moreno Montanari, sulla scia di uno studio di Romano
Mádera, mostra quanto Jung sia stato consapevolmente debitore verso la
tradizione filosofica e quante indicazioni provenienti da essa - dopo di lui,
proprio grazie alla sua mediazione – i consulenti filosofici possano
riscoprire dall’angolazione
delle valenze esistenziale e politica. Tra le molte possibili, una sola
illuminante citazione tratta da Questioni
fondamentali di psicoterapia di Jung:
[Esistono] non pochi pazienti che, pur non essendo affetti da una nevrosi
clinicamente classificabili, consultano il terapeuta a causa di
conflitti
psichici e altre difficotà della
vita, sottoponendogli problemi la cui
soluzione
implica la discussione di principi ultimi. Spesso queste
persone sanno
benissimo, mentre il nevrotico lo sa raramente, o non
sa mai, che i
loro conflitti riguardano il problema fondamentale del
loro
atteggiamento e che questo atteggiamento e che questo
atteggiamento
dipende da determinati principi o idee generali,
insomma da
certe convinzioni religiose, etiche o filosofiche. Grazie
a questi casi la psicoterapia si estende
molto al di là dei limiti della
medicina
somatica e della psichiatria, sconfinando in ambiti
un tempo
riservati a sacerdoti e filosofi. Nella misura in cui
questi
ultimi non operano più o in cui viene negata loro dal pubblico
la
facoltà di operare, si vede quale lacuna lo psicoterapeuta sia
talvolta
chiamato a colmare e fino a che punto la cura d’anime
e la
filosofia si siano allontanate
dalla realtà della vita. Al pastore
si
rinfaccia che si sa già quanto stava per dire; al filosofo che le sue
parole
non hanno alcuna utilità pratica. La cosa curiosa è che
entrambi (a parte eccezioni
rarissime) professano una decisa
avversione per la psicologia.
Con dovizia di riferimenti puntuali, il quarto e il
quinto contributo – entrambi a firma di Giorgio Giacometti, che è anche
curatore dell’intero volume – costituiscono ammirevoli esemplificazioni di quanto possa essere
istruttivo mettere a confronto la CF con le lezioni dei grandi maestri della
psicoanalisi. In Un’ermeneutica per la
pratica filosofica. Un confronto con Ludwig Binswanger si sottolinea la
rilevanza della fatica (comune a filosofi consulenti e psicoterapeuti) di
decifrare il discorso dell’altro, prendendolo sul serio, senza ridurlo a
sintomo di qualcos’altro di nascosto. In maniera ancora più impegnativa, ne Il discorso dell’Altro. Consulenza
filosofica e psicoanalisi lacaniana, il confronto si attua con un mostro
sacro della cultura del Novecento che è riuscito - presentandosi apparentemente come discepolo di Freud – a
ribaltare molti elementi della piscoanalisi tradizionale, fondando un tipo di
relazione interpersonale che non rientra in nessuna delle categorie precedenti.
Dei mille spunti offerti, ne colgo solo uno in continuità con il dibattito a
cui ho fatto cenno in apertura di questa recensione (sui fini essenziali e
costitutivi della CF): l’autore del saggio trova una convergenza nel fatto che,
proprio come nella relazione analitica secondo Lacan, anche la pratica
filosofica “o è trasformativa di chi la compie , o non è
affatto” (anche se, ovviamente, si sta ipotizzando non una trasformazione quale che sia e come che sia, bensì dovuta alla
“verità” che emerge nel dialogo).
Non poteva mancare, ovviamente, il
confronto con Maslow e la Psicologia Umanistica (May, Rogers, Frankl): se ne
assume l’onere, con la consueta competenza, Stefano Zampieri nel suo Una certa somiglianza di famiglia.
Consulenza filosofica e psicologia umanistica. L’autore lavora di bisturi
perché proprio le impressionanti somiglianze (qui illustrate senza remore, anzi
con soddisfazione) esigono un’attenzione particolarmente accurata
nell’evidenziare le differenze, sintetizzabili in una formula (che viene
ampiamente argomentata): “il filosofico della consulenza non è soltanto un
atteggiamento, è piuttosto un ben preciso campo d’azione all’interno del quale
i suoi discorsi, cioè quanto si realizza nel colloquio, acquistano un
significato”. Anche a proposito di questo contributo, rinunzio alla messe di
spunti e di indicazioni interessanti, tranne che a un passaggio (sempre sul
tema degli scopi intrinseci della CF): “Né il filosofo consulente né il
terapeuta emettono diagnosi, né l’uno né l’altro puntano a una salute intesa
magari come ‘normalità’, ma in entrambi i casi di realizza un processo di trasformazione. Rogers lo interpreta
come terapia, il filosofo consulente no”. Aggiungo solo una riserva: non mi
pare che si possa accusare Victor Frankl di incoerenza fra l’impostazione
nietzsciana della sua “volontà di significato” e la prospettazione di un Dio
come valore di riferimento assoluto per la ragione, radicale, che non vi è in
lui nessuna impostazione nietizsciana. A mio sommesso avviso, infatti, “volontà
di significato” è una formula
intenzionalmente ricalcata sulla nietschiana “volontà di affermazione” di Adler
per esprimere un capovolgimento di prospettiva.
Anche Cati Maurizi Enrici, nella sua Breve
nota su terapia della Gestalt e tradizione filosofica, si imbatte nella
domanda ricorrente in questa raccolta di saggi: “La pratica filosofica può ‘accontentarsi’ di promuovere una più
esaustiva e migliore comprensione di sé e del mondo, considerando la trasformazione
personale come un possibile, forse auspicabile, ma non necessario, effetto
secondario, lasciando così all’arte e alla religione la possibilità di
‘ispirare’ un radicale cambiamento?”.
Ed anche qui, mi pare, la risposta non coincida con la severa secchezza
di Pollastri. Anzi, con una preziosa suggestione, non si esclude che la valenza
trasformativa della parola in consulenza
possa essere intensificata da un supplemento poetico.
Nell’avviare il Dialogo tra
consulenza filosofica e medicina psicosomatica Paola Santagostino, a
proposito di quest’ultima,
distingue opportunamente “le due anime con cui è nata agli inizi del
Novecento, che si incontrano e spesso si scontrano vivacemente: l’anima medica e l’anima umanistica”. Ovviamente è con il secondo filone (qui
rappresentato da Medard Boss) che è più agevole svolgere il confronto, che
l’autrice delinea in entrambe le direzioni: quale attenzione fiosofica da parte
dei medici e quale attenzione alla corporeità (e alle patologie) da parte dei
filosofi.
L’ultimo contributo firmato da un consulente filosofico è di Paolo
Cervari che, in Strategie indecidibili.
Ambigui incroci tra psicologia strategica e consulenza filosofica,
prendendo spunto da esperienze professionali autobiografiche, traccia un
confronto fra CF e la proposta scientifica e terapeutica di Giorgio Nardone
(allievo di Paul Watzlawick). Dopo
aver a lungo evidenziato i segmenti di contatto, l’autore propone,
dialetticamente, una sorta di schema in cui puntualmente si contrappongono i
due approcci (almeno intendendo la CF secondo la lezione di Achenbach e di
Pollastri). Ma è uno schema che Cervari redige per poterlo problematizzare,
destrutturare e ricostruire. Della
sua problematizzazione cito soltanto
il passaggio che si riferisce, ancora una volta, all’interrogativo sul
fine specifico della CF : “Certamente il terapeuta o il consulente strategico
vogliono cambiare. Anzi è la loro missione. Molto discutibile mi pare invece
che non lo voglia fare il consulente filosofico. Al di là del possibile ricorso
a tutte quelle filosofie che hanno sempre voluto trasformare il mondo (ammesso che ve ne siano che non lo vogliano
fare…), se è vero che il consulente filosofico non vuole cambiare, che fa allora? Fare significa cambiare, a mio parere. E anche parlare significa fare…”.
Il volume è arricchito, assai
efficacemente, da un articolo di un docente di psicologia dell’università di
Torino. Con grande libertà di linguaggio e sincerità di accenti, in Psicologi o badanti? Sulla necessità di una
formazione storico-filosofica degli psicologi, Giorgio Blandino –
rivolgendosi in primis ai ai suoi
colleghi e agli aspiranti colleghi -
chiude per così dire il cerchio: dopo l’invito di tanti filosofi a farsi
attenti alle psicoterapie, uno psicologo invita a farsi attenti alla filosofia.
Nei percorsi formativi, infatti, è stato ormai cancellato qualsiasi riferimento
alla storia della filosofia e ai metodi filosofici: perché, stupirsi, dunque,
che gli piscologi rischino di ridursi a “badanti della psiche”, a “dentisti
della mente”? E che sempre più pazienti, delusi dalle psicoterapie, bussino
alla porta degli studi di filosofi consulenza filosofica? Forse – con la crisi
economica che imperversa in questa fase – questa constatazione di Blandino
andrebbe corretta: la gente, infatti, si allontana sì da molti studi di
psicoterapia, ma per restare a casa.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com