La comprensione della poliedricità del fenomeno mafioso e la condotta che
ne consegue rappresentano insieme l’atto intimidatorio più efficace contro la
criminalità organizzata. Don Pino ha incarnato questo potente binomio, tanto
da assurgere a emblema della lotta per la liberazione dalla sudditanza
malavitosa ma, questo stesso fatto, rischia di pietrificare la portata
rivoluzionaria della sua condotta in un’immagine sfocata, adatta ad essere
rispolverata una volta l’anno per le celebrazioni di rito per poi venir prontamente
riposta con cura in un angolino dell’immaginario collettivo.
Beato fra i mafiosi. Don Puglisi:
storia, metodo, teologia (Di Girolamo, pp.200, € 15,00),
scritto da Augusto Cavadi, Francesco Palazzo e Rosaria Cascio, si prefigge
l’ambizioso compito di restituire corpo e volto alla figura del prete
palermitano, riconsegnando alla sua concreta azione quel tratto vivido e
indispensabile a comunicare a chi legge il profondo e complesso significato
dell’impegno profuso.
Perché il parroco dai toni dimessi, dalla presenza pacata, dalla condotta
calma e paziente, mai impulsiva o esasperata, divenne un pericolo tanto grave
per l’azione della criminalità organizzata? Questo è l’interrogativo a
partire dal quale si dispiega il filo conduttore che guida l’analisi sviluppata
nel volume.
Il testo ricostruisce con cura l’ordinaria straordinarietà di quest’uomo
e propone un racconto alternativo che individua con precisione il contesto
storico-sociale nel quale si è inserita l’azione del presbitero e rivela le
origini dell’elaborazione del cosiddetto “metodo Puglisi”. Infine, si
interroga su quale sia il valore teologico da attribuire alla sua uccisione,
comunicando una visione nuova, libera dalla mole di equivoci che si sono
sedimentati in questi anni, circa l’effettiva incidenza della condotta tenuta
da don Pino nel contesto sociale in cui ha operato.
Una volta specificati i momenti salienti della formazione spirituale,
affinata sul campo, e indicati i principi che hanno ispirato il quotidiano
lavoro del parroco, vengono portati alla luce i tratti essenziali della
metodologia di lavoro che padre Puglisi ha assunto anche nella sua ultima
missione. L’aggiornamento continuo degli eclettici studi teologici,
filosofici e sociologici affrontati, ha sostenuto e reso ancora più efficace
l’operato pastorale sia sul pulpito sia all’esterno delle mura della chiesa,
garantendo un costante afflusso di linfa vitale all’instancabile e
pluridirezionale impegno speso costantemente a favore della collettività.
Egli inizia il mandato a Brancaccio con la cautela che gli è propria,
studia il contesto sociale in cui si trova ad operare e instaura strette
collaborazioni con le realtà assistenziali e di volontariato già esistenti.
Così, nel quartiere stringe un profondo sodalizio con il Comitato Intercondominiale
“Hazon”, movimento nato per rivendicare e ottenere dalle istituzioni quei
servizi essenziali considerati essenziali in ogni consorzio civile, ma lì
assenti, a partire dalla rete fognaria. Il Comitato è molto attivo, si batte
anche per la costruzione di una scuola media, per la creazione di un
distretto socio-sanitario e il legame che don Pino intesse con questa
organizzazione suscita ben presto forti fastidi.
Padre Puglisi, infatti, non è interessato a svolgere attività di mero
assistenzialismo passivo, ma si impegna giorno dopo giorno in un’azione
sociale finalizzata a «creare la fine della dipendenza degli assistiti» e
lavora senza tregua con gli adulti del territorio che «vogliono per il
quartiere diritti e non favori». È proprio questo incessante e sistematico
impegno a rivelarsi tanto pericoloso per la criminalità organizzata: se le
persone cominciano a scommettere sulle proprie capacità e potenzialità, a
sperimentare la possibilità di uscire da condizioni di subalternità, il
consenso in favore della mafia rischia di venir meno.
Sulla scia di questo suo agire, don Puglisi matura il proposito di realizzare
una struttura in grado di supplire alle gravi carenze sociali esistenti nel
quartiere e per tale motivo, con instancabile pazienza e incrollabile
fiducia, nel gennaio 1993 inaugura il centro di accoglienza Padre Nostro.
Cominciano allora a intensificarsi le intimidazioni, egli infatti conosce
l’ambiente e i pericoli che possono «scaturire da un’azione mirata a scalfire
marginalità e soprusi», eppure con il fare pacato che gli è proprio non
desiste, ma riesce addirittura a compiere l’insperato: crea modelli di vita
alternativi a quelli imposti dalle cosche. Il suo instancabile esempio
materializza la possibilità di edificare realtà sociali e vite individuali
dignitose, libere da ricatti mortificanti; pur non lanciandosi in virulenti
attacchi frontali contro la criminalità organizzata, dimostra che
un’esistenza diversa è praticabile e invita ogni singola persona all’impegno
quotidiano.
Questo suo operato ha contribuito anche a scolpire un nuovo modello di
presbitero che «assume come proprio compito pastorale il riscatto culturale,
civile, economico del territorio» e il testo prospetta un’interessante
riflessione sul significato teologico dell’uccisione di Padre Puglisi. Egli è
un martire della fede perché ha incarnato il messaggio autentico del Vangelo:
il suo impegno e la sua beatificazione hanno «rivoluzionato il modello della
santità cattolica», smascherando quella religione priva di fede che si
trincera dietro un «atteggiamento astrattamente neutrale» giustificato dalla
scaltra e opportunistica interpretazione secondo la quale la Chiesa non può
schierarsi a favore di alcuni a discapito di altri.
Don Pino non si è mai scagliato contro nessuno, non ha lanciato invettive
furiose ma, con la pratica sempre coerente ai principi testimoniati, è
riuscito a conquistare la fiducia delle persone, a contagiarle con la sua
umanità, trasmettendo loro valori positivi e aprendo squarci di luce
inaspettati. Il semplice e ossequioso rispetto per il dettato evangelico
assume così una carica eversiva per il potere della mafia, perché ne
sconfessa tutti i dogmi. Il piccolo parroco «ha strappato la maschera al Dio
dei mafiosi… E molti cattolici hanno scoperto, con sgomento, che quel volto –
assai distante dal Dio di Gesù – assomiglia inquietantemente al Dio della
loro formazione catechistica, delle loro tradizioni familiari…».
Con equilibrata fermezza ha concretizzato un modello civico di lotta
nonviolenta; la capillare condotta intrapresa, la sua perseverante pressione
nei confronti delle istituzioni e, soprattutto, l’aver acquisito credibilità
agli occhi degli abitanti del quartiere, hanno fatto vacillare le fondamenta
del consenso di cui la mafia da sempre si nutre. L’azione pastorale da lui
innescata ha aperto la comunità ecclesiale alle esigenze del mondo
circostante e ha comunicato a ciascuno l’idea rivoluzionaria di pensarsi come
attore della propria vita, non più vittima passiva e inconsapevole del fato.
Bandito qualsiasi tentativo di osannare la figura di padre Puglisi, il
testo propone spunti di riflessione non scontati, capaci di attribuire
rinnovato vigore al messaggio del parroco che, come afferma Salvo Palazzolo,
in una delle preziose testimonianze presenti nel libro, è stato ucciso perché
«aveva annunciato il futuro nel quartiere che futuro non doveva avere».
Stefania Borghi
(www.excursus.org, anno VI, n. 56, marzo 2014)
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Il blog di Augusto Cavadi, filosofo-in-pratica di Palermo, con i suoi appuntamenti pubblici in Italia e i suoi articoli.
venerdì 14 marzo 2014
Stefania Borghi recensisce "Beato fra i mafiosi"
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1 commento:
Bella recensione, meritata dall'ottimo libro.
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