“Luoghi di Sicilia”
Ottobre 2013
SICILIANI SI DIVENTA DI UMBERTO DI MAGGIO
Molti conoscono Umberto Di Maggio
come coordinatore regionale di “Libera”, l’associazione nazionale (e adesso
anche internazionale) di associazioni e di cittadini coalizzati contro tutte le
mafie, fondata una ventina di anni fa da don Luigi Ciotti. Meno numerosi i
lettori dei suoi saggi, scientificamente attrezzati, di sociologia. Nessuno,
invece, tranne forse qualche intimo familiare, ne conosceva la vena letteraria
prima che l’editore trapanese Coppola pubblicasse questo suo breve, intenso,
scritto: Siciliani si diventa (pp.
32, euro 4,00).
Il titolo è un po’ enigmatico o, per lo meno, nasconde
vari livelli interpretativi. Forse, il più immediato, è che l’isola è abitata
in percentuale minima da autoctoni e nella stragrande maggioranza da ospiti che
vi sono approdati per caso o per le ragioni più diverse e poi vi si sono
insediati stabilmnete: dai Fenici ai Cartaginesi, dai Romani agli Arabi, dai
Normanni agli Svevi, agli Angioini, agli Aragonesi…sino agli Africani, agli
Asiatici, ai Medio-orientali di oggi. In una seconda accezione, meno immediata,
siciliani si diventa perché non basta nascere nell’isola: bisogna, poi, decidere
di viverci (magari, come l’autore, dopo un periodo di fuga nel “continente”).
Viverci, sì: ma come? Siamo qui, forse, al cuore della questione. Il siciliano
autentico - mi pare sia questo il
messaggio cruciale di Umberto Di Maggio -
non è chi abita la regione parassitariamente (come i mafiosi, i loro
amici e i loro complici di ogni ceto sociale) né chi vivacchia senza infamia e
senza lode, senza rubare e senza produrre, ma accontentandosi di sopravvivere
alla meno peggio. Egli è piuttosto chi si sbraccia, talora si sacrifica
perfino, per lasciare la Sicilia un po’ migliore di come l’ha trovata,
nascendovi o sbarcandovi da altri lidi.
Questa tesi non viene dall’autore enunciata
argomentativamente, bensì evocata liricamente: con una rilettura attualizzante
del mito di Colapesce. Ci racconta, dunque, di un immigrato che - giunto avventurosamente a Lampedusa – dopo aver “aiutato tutti gli altri a sbarcare, cadde in
acqua andando a fondo” perché “non sapeva nuotare”. Arrivato “giù e ancora giù
dove il Sole non riesce ad entrare”, si accorge che la piccola isola, “la
splendida figlia di Sicilia, poggiava su una grande colonna di tufo giallo” e
che “una grossa crepa stava facendo spezzare quel pilastro dove si reggeva
tutto il peso dell’Isola”. Decide allora di accettare, come un compito, di
restare là in fondo “a reggere Lampedusa: la porta dell’Europa e dell’Africa”.
Come si chiamava il marinaio così generoso? Forse Ahmed, forse “quello di chi
sceglie di dedicare ogni fiato, ogni energia, ogni battito del suo cuore a
liberare, una volta per tutte, questa Terra. Il suo nome è il nome di tanti
Siciliani onesti” che tali sono per scelta e per impegno, non certo per mera
casualità anagrafica.
Augusto
Cavadi
www.augustocavadi.com
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