“Riforma”, 11.3.2014
L’INQUIETUDINE ‘ECUMENICA’ DEI CRISTIANI IN RICERCA:
UNA SFIDA PER LE CHIESE
Le frequenti fasi di stallo dell’ecumenismo ufficiale, istituzionale, ci hanno insegnato a valorizzare
l’ecumenismo di base, effettivo: quel
processo poco vistoso, ma continuo, per cui, in una determinata città o regione
del mondo, alcune comunità cristiane si relazionano in vista di un progetto
sociale o culturale o spirituale, indipendentemente dalla propria appartenenza
confessionale. E’ noto, in questa direzione, l’impegno teologico e liturgico pluridecennale del Sae
(Segretariato per le attività ecumeniche) su tutto il territorio nazionale; chi
ha i capelli grigi ricorda già all’inizio degli anni Ottanta forme di
aggregazione e di militanza interconfessionale in determinate aree del Paese,
per esempio nella Sicilia orientale quando si protestava contro l’installazione
di basi missilistiche della Nato a Comiso.
Non mi pare, però, che sia stato sinora
notato un terzo livello nei processi ecumenici: un livello ancora più informale, più spontaneo, più sfuggente rispetto
alle iniziative delle chiese locali. Mi riferisco a un fenomeno sociologico
sempre meno infrequente, soprattutto nelle grandi città, che coinvolge
cristiani (o aspiranti tali) in sincera ricerca di persone e ambienti capaci di
accoglierli non solo con gentilezza e affabilità (il che non è poco e non è
così diffuso), ma con autentica apertura alla loro problematicità, alla loro
inquietudine. Ogni comunità – cattolica o protestante, per non allargare lo
sguardo sino alle comunità ebraiche o islamiche o induiste – ha una propria
identità, una propria tradizione, starei per dire una propria personalità.
Questo non è solo inevitabile, ma anche positivo. In società sempre più
anonime, le aggregazioni religiose devono parte del proprio fascino proprio a
questo carattere di specificità, di memoria della storia e di progetto per
l’avvenire. Le difficoltà sorgono quando i simboli identitari, i patrimoni di
fede, le narrazioni locali finiscono
- intenzionalmente e spesso anche involontariamente – col perimetrare
un’esperienza comunitaria sino al punto da chiuderla rispetto all’esterno: il
confine diventa bastione, ciò che lega gli interni re-lega gli estranei. Allora quella comunità dà per ovvia,
per scontata, la condivisione di credenze, di norme di comportamento, di stili
di vita: chi bussa alla porta viene accolto ma gli si fa capire, con modi più o
meno espliciti, che o si adegua o ritorna da dove è partito.
Diciamolo con chiarezza:
una certa dose di protettività è fisiologica. Nessuna collettività può
permettersi il lusso di rimettere in discussione i propri fondamenti ogni volta
che un altro chiede di farne
parte. E’ la logica per cui alcuni
pensiamo che l’Italia debba accogliere chiunque voglia venire a vivere, a
lavorare e a morire dentro i suoi confini, tranne quanti - extracomunitari poveri come certi
nigeriani o straricchi come certi svizzeri – non accettino gli articoli della
Costituzione italiana. Devono anche preferire Dante anzicché Shakespeare,
Manzoni anzicché Tolstoj, Lucio Battisti anzicché Louis Armstrong?
Torniano
allora alle comunità cristiane. Un antico adagio recita: unità nelle questioni
essenziali, libertà nelle opinabili, carità in tutto. Esse devono tenere duro su alcuni princìpi, ma proprio tra
questi princìpi rientra la tolleranza verso ciò che non è centrale. E quale può
essere il criterio di giudizio se non il vangelo di Gesù? In base ad esso, una comunità deve
difendersi dalle infiltrazioni degli ipocriti, dei mafiosi, dei corrotti e dei
corruttori; ma deve spalancare le porte ai figliuoli prodighi, ai pubblicani in
crisi, alle prostitute desiderose di cambiar vita. Già nell’annunziare il
vangelo dovrebbe tener presente la situazione spirituale non solo dei vicini,
ma anche dei lontani; non solo di chi (a ragione e spesso a torto) vive beatamente
una fede senza dubbi e senza angosce, ma anche di chi avverte l’esigenza di
avvicinarsi a Dio “in spirito e verità”, senza conformismi né fideismi
sentimentali.
Ebbene, sempre più numerose sono le persone che intuiscono quali
comunità cristiane (cattoliche o protestanti) praticano l’accoglienza
evangelica a trecentosessanta gradi
e quali sono troppo preoccupate di preservarsi dagli interrogativi e
dalle inquietudini del “mondo”. E scelgono. Per un periodo frequentano una
chiesa, per un altro un’altra chiesa; nella propria città riconoscono come
punto di riferimento evangelico un prete, nella città in cui lavorano si
trovano meglio con una pastora… Come denominare questo fenomeno
sociologico senza qualificarlo
già, con disapprovazione o con incoraggiamento, in virtù degli aggettivi
prescelti? Un ecumenismo
selvaggio, individualistico, qualunquistico o non piuttosto molecolare,
selettivo, radicale nel senso che fiuta la radice delle differenze?
Augusto
Cavadi
Il Direttore di "Riforma" sarebe interessato a ospitare interventi, consistenti ma non troppo estesi, sulla problematica da me sollevata.
Lo potete contattare anche mediante il sito www.riforma.it
1 commento:
Riflessioni davvero significative. Grazie per aver "postato" questo splendido articolo.
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