“MEDITERRANEA”.
Arte contemporanea Isole Egadi
Secondo testo introduttivo
(pp. 12- 14)
Uno sguardo filosofico. Cioè
ingenuo e stupito.
E’ sempre con animo incerto, diviso, che il filosofo visita una mostra
di arti grafiche, pittoriche, plastiche. Egli non è un competente e, se vuole
davvero fruire di ciò che gli si offre in visione, sa che deve riguadagnare lo
sguardo profano del bambino o del primitivo: lo sguardo ingenuo e stupito che,
a mio avviso, fa da criterio del
giudizio estetico. Infatti, qualora un’opera non comunicasse niente a chi è
privo di laurea in storia dell’arte, sarebbe un’opera mediocre, al massimo
discreta: non certo un capolavoro (i capolavori parlano a tutti, di ogni età e
in ogni età).
E’ vero, però, che, se onesto
intellettualmente, il filosofio sa di non avere un occhio vergine: sa, infatti,
di essere condizionato pre-giudizialmente da una tradizione di pensiero che non
ha mantenuto nei confronti dell’arte un atteggiamento univoco, costante. Per un
verso alcuni filosofi occidentali hanno guardato l’arte con sospetto (Platone)
o, comunque, come manifestzione dello spirito inferiore alla razionalità
filosofica (Hegel); per altri versi, però, altri pensatori non meno rilevanti
hanno riconosciuto all’arte il privilegio di cogliere l’Assoluto (Schelling),
di dire l’Indicibile (Heidegger), ben al di là dei limiti della logica
filosofica.
Come uscire dalla contraddizione fra ingenuità e pregiudizi culturali?
Ognuno di noi (filosofo o non filosofo che sia, comunque visitatore e
spettatore) cerca la sua via. Personalmente, come primo passo, dico a me
stesso: l’immediatezza naif del tuo
sguardo è una méta cui tendere, non un presupposto da dare per scontato. Come
secondo passo, poi, proprio perché consapevole di questi possibili
condizionamenti culturali, cerco di attenuarne gli effetti soppesandoli
criticamente e facendo in modo che si bilancino a vicenda. Mi spiego in
concreto: entro in ogni galleria d’arte a piedi scalzi ma con la fronte dritta.
A piedi scalzi, senza il senso di
superiorità di un Platone o di un Hegel, perché là dove si cerca la Bellezza si
calpesta suolo sacro, laicamente sacro; con
la fronte dritta, senza complessi di inferiorità epistemici alla Schelling
o alla Heidegger, perché gli artisti possono avere consapevolezza del carisma
sociale di cui sono portatori solo se aiutati da filosofi di mestiere o da sé
stessi in quanto anche filosofi. E comunque dal filosofare.
***
L’insieme di opere esposte nelle isole
Egadi, di cui questo libro è documento a memoria, mi ha colpito per almeno tre
caratteristiche.
La prima è la permeabilità di molte opere
ai colpi della contemporaneità storica.
Pur senza cercare, tradendo sé stessi, il riferimento promozionale alla
cronaca, vari autori non hanno fatto nulla per nasconderne le tracce: come non
avvertire, in questa o in quell’altra installazione (una per tutte: quella che, forse a dispetto dell’autrice,
Kazumi Kuriara, a me è parsa una veste femminile nobilissima ma lacera), l’eco della tragedia di tanti
immigrati che approdano alle coste siciliane con i vestiti a brandelli, segno
visibile di ben più gravi lacerazioni dell’anima? Come non riconoscere, nel
labirinto metallico di Jano Segura, la sensazione di intrappolamento che
proviamo nella situazione storica che attraversiamo, quasi groviglio di vie
senza uscita?
Una seconda caratteristica è la ricerca di incorporare nella gratuità estetica una qualche funzionalità tecnica. Penso, a titolo puramente esemplificativo, alle plantane e alle lampade di Ino Virzì. In questo tentativo di fondere l’utile e il dilettevole traspare, non so quanto intenzionalmente nella coscienza degli autori, la convinzione che la bellezza non può essere fruita solo in spazi appositi, quasi relegati dal tessuto sociale, ma va incontrata ed esperita nella quotidianità. Non so se essa, secondo la tesi di Dostoevskij, sia in grado di “salvare il mondo”: ma so che può renderlo meno orribile, meno inabitabile, se davvero si infiltra nelle pieghe dell’empiria e trasfigura gli oggetti che tocchiamo dalla mattina alla sera.
Una terza caratteristica, infine, che mi salta agli occhi guardando
alcune di queste opere è la geniale povertà
dei materiali. Il pesce di Luca Mannino ad esempio, è
frutto di riciclo di sbarrette di ferro, di molle, di viti, di chiodi: di
pezzi, si direbbe, raccattati dal cestino dei rifiuti di un’umile officina
meccanica. Non so se anche agli altri visitatori, ma a me evoca un verso di De
André: “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. Evoca
questa fede nel riscatto di ciò che la società, iperproduttiva al punto da
stare suicidandosi per eccesso di produzione, scarta, espunge. Forse
sollecitati – anche inconsciamente - da una delle più nere recessioni
economiche della storia repubblicana, gli artisti più sensibili vogliono farsi
silenziosi ma efficaci profeti di un invito a invertire la tendenza sinora
predominante allo spreco, al gettar via senza neppure chiedersi se ci sono
voragini abbastanza grandi da poter accogliere i fiumi di rifiuti che vi
riversiamo irresponsabilmente.
La zattera di salvataggio di Franco Fratantonio può essere adottata a cifra sintetica dell’intera esposizione:
i naufragi della politica e dell’economia mietono vittime, fuori e dentro
l’Europa, che non avranno mai giustizia. Almeno su questa Terra. Eppure qualche
scialuppa, ancora inutilizzata, giace sulla spiaggia in attesa di essere
afferrata e valorizzata. Qualcuna si chiamerà impegno civile, qualche altra
mobilitazione politica. E qualche altra ancora creazione estetica.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
1 commento:
Vedo una precisa analogia, che seppur meritevole di sviluppo, approfondimento e distinguo, penso approvi:
«Qualora un saggio, una conferenza, una lezione, filosofica non comunicasse niente a chi è privo di laurea in filosofia, sarebbe un intervento mediocre».
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