“Adista Segni nuovi” n. 2 - 18 Gennaio 2014
Il
vescovo della mia diocesi, cardinale Paolo Romeo, non è certo l’unico che per
motivi d’età sarà sostituito nel corso del 2014. Come avverrà la designazione
del successore? E’ noto che i criteri con cui si scelgono i nuovi vescovi costituiscono una spia rivelatrice del
progetto di chiesa che ogni papa ha in mente. Ciò è stato vero sino a Giovanni
Paolo II e a Benedetto XVI e non può non esserlo per Francesco I. Schematizzando brutalmente, l’attuale
vescovo di Roma pescato “dalla fine del mondo” ha davanti tre strade.
La prima, che è la più comoda ma anche la
più sterile, è lasciare intatti i meccanismi previsti dall’attuale Codice di
diritto canonico e da una prassi consolidata da circa cinque secoli: che i
vescovi scelgano per co-optazione i propri successori, limitando all’invio di
qualche “lettera riservata” il coinvolgimento del parere di presbiteri e laici
impegnati ecclesialmente. Ma questa auto-riproduzione del ceto episcopale non
significa perpetuare un modello di pastore al quale Francesco non lesina
pesanti e più che fondate critiche?
Non significa privilegiare la fedeltà conformistica dei funzionari del
sacro rispetto alla creatività
pastorale di quei preti che hanno anteposto le esigenze del vangelo a ogni
calcolo di carriera? Non si rischia di premiare l’abilità diplomatica,
l’accortezza di adeguarsi al vento che gira, la compatibilità con le autorità
politiche in sella?
La seconda strada sarebbe la più radicale
ma, proprio per questo, la più ardua da attuare dopo pochi mesi di pontificato:
restituire al popolo di Dio il diritto di eleggersi i suoi pastori, così come è
avvenuto per il primo millennio
dell’era cristiana e oltre. Non per sciommiottare le democrazie moderne, ma per
riscoprire il senso teologico del protagonismo popolare ecclesiale che delle
democrazie politiche è stato prefigurazione e (sia pur appannato) prototipo. Una
delle “cinque piaghe della Chiesa” , secondo Antonio Rosmini, consisteva proprio nell’aver rinunziato alla
prassi tradizionale secondo la quale “erano i desideri dei popoli
a designare e vescovi e sacerdoti; ed era troppo ragionevole che quelli che dovevano
affidare le proprie anime (e quando dico le anime, dico tutto ciò che posso
dire, parlando di popoli, nei quali è viva la fede) alle mani d’un altro uomo,
sapessero che uomo egli fosse ed avessero confidenza in lui, nella sua santità
e nella sua prudenza”.
Che questa seconda pista non venga
subito intrapresa potrebbe rispondere, oltre che a motivi di opportunità, anche
a criteri di saggezza: proprio le esperienze della società civile ci insegnano
che i meccanismi democratici sono preferibili ai metodi autoritari e
verticistici sono quando la base ha avuto tempo e modo di maturare un minimo di
consapevolezza e di responsabilità. Un popolo cattolico, da secoli trattato
come “gregge”, sceglierebbe i suoi “pastori” con la stessa superficialità con cui
sceglie i suoi rappresentanti politici. Deve dunque essere gradatamente
rieducato a pensare con la propria testa e ad agire di conseguenza con effetti
che sarebbero benefici tanto per la vita interna della chiesa cattolica quanto
per la vita sociale dei Paesi di antica tradizione cattolica.
Scartati sia il mantenimento
dello status quo sia la rivoluzione
nel senso letterale di ritorno alle originarie posizioni di partenza, resta a
papa Francesco una terza strada: usare il potere assoluto che gli è stato
consegnato dalla tradizione (relativamente recente) per nominare come vescovi
quei preti che le comunità ecclesiali eleggerebbero se ne avessero la
possibilità giuridica e la saggezza esperienziale. Quei preti che non da
qualche mese, ma da decenni, sanno che il loro posto non è nei salotti buoni
quanto nei quartieri difficili; non nelle curie, ma nelle periferie; non dove
si decidono le promozioni gerarchiche, ma dove si incontrano gli emarginati.
Quei preti che, a parole e soprattutto coi fatti, hanno detto “Ma chi sono io
per giudicare?” a ex-preti,
ex-suore, divorziati, omosessuali,
tossicodipendenti, carcerati, conviventi, intellettuali e artisti in ricerca…quando
ciò significava essere guardati con sospetto dal proprio vescovo e dai
monsignori rispettabili. Uno di questi preti è stato, a maggio del 2013,
proclamato beato e martire di mafia. Non sarebbe il caso che venissero
valorizzati adesso, in vita, quei pochi confratelli che gli erano davvero
vicini nell’impegno, quando la stragrande maggioranza del clero lo considerava
un impiccione? O bisognerà attendere, anche per questi preti di strada ricchi
solo di fede e di amore, che siano i mafiosi a notarne le qualità eccezionali
(riservandosi di portarne in giro qualche costola per macabra devozione)?
Augusto Cavadi
1 commento:
è inutile dirti, caro Augusto, che la vera rivoluzione sarebbe nominare Vescovo un prete come don Cosimo Scordato e la Sicilia comincerebbe davvero a cambiare, là dove non sono riusciti (finora) magistrati e forze dell'ordine, là dove la società civile ha fallito, potrebbe riuscire un vero pastore di anime e vorrei vedere molti indifferenti devoti cattolici come reagirebbero|!!!!
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