“La prima radice”
(periodico online: www.laprimaradice.it)
30.12.2014
LA VERITA’ CAMMINA CON NOI: PAOLO
CALABRO’ RACCONTA MAURICE BELLET
Non è facile incontrare qualcuno che conosca l’opera di Maurice Bellet
(Parigi, 1923) nonostante abbia pubblicato decine di libri, di saggi, di
articoli tradotti in italiano, spagnolo, tedesco, olandese, inglese,
portoghese, brasiliano e cinese. E non è facile, suppongo, perché un tipo come
lui non fa scuola: è troppo originale. E troppo sospetto. In quanto prete
cattolico (dal 1949) e teologo è visto con diffidenza dagli ambienti filosofici
e, in quanto psicanalista, è visto con diffidenza dai teologi e dai filosofi.
Per fortuna (di Bellet, ma anche di
noi lettori curiosi di stimoli spirituali) c’è un appassionato studioso
italiano, Paolo Calabrò, che ha confezionato una esauriente summa del pensiero belletiano,
intrecciando notazioni personali e ampi brani antologici: La verità cammina con noi. Introduzione alla filosofia e alla scienza
dell’umano di Maurice Bellet, Prefazione di Stefano Santasilia, Il prato,
Saonara (Padova) 2014, pp. 250, euro 18,00. La sostanziosa monografia è
scandita in otto capitoli e sigillata da un’interessante intervista dell’autore
a Bellet, qui edita per la prima volta. Ripercorriamoli quasi telegraficamente.
Il primo capitolo raccoglie le idee
del pensatore francese in ambito filosofico (della commissione del suo
dottorato alla Sorbona facevano parte Ricoeur e Levinas). In dialogo con Cartesio,
egli sostiene che “il peggiore nemico della ragione è il ‘razionalismo’ che la
identifica temerariamente con le sue tesi e i suoi pregiudizi. La ragione è domanda, questa è la sua grandezza, e la
domanda lavora nella ragione stessa, fino ai suoi principi e fondamenti” (p.
21).
Nel secondo capitolo sono richiamate
alcune prospettive di Bellet in campo teologico. Egli denunzia il “Dio
perverso” del cristianesimo tradizionale, quel “Dio esigente” per il quale “in
materia di morale tre cose sono permesse: la prima, niente; la seconda, niente;
la terza, niente” (p. 79). E vi oppone il Dio dell’agape, della “tenerezza”: un Dio per il quale, come ha insegnato il
Nazareno, “la legge di ogni legge” è “che vivano tutti” (p. 95); che nessuno
osi giudicare il fratello, neppure dall’alto di una (presunta) ortodossia
dottrinale.
Nel terzo capitolo, dedicato alla
psicanalisi, Bellet ricorda che “non si può vivere al di fuori di ciò che si è
psicologicamente”. Commenta Calabrò: “la teologia cristiana può anche odiare la
psicologia come nemico acerrimo, ma non può passare sopra a questa conclusione.
Ciò che vale per il corpo (nessun uomo può fare il pugno più grande della sua
mano – diceva Montaigne), vale anche per la mente e per i desideri – consci e
inconsci – che vi si annidano” (p. 111).
La concezione antropologica di Bellet,
riassunta nel quarto capitolo, ruota intorno al perno dell’amore, di “quella
realtà senza la quale non c’è vita umana, non c’è umanità. Volontà e pensiero,
senza quest’amore, non sono che furore e paura” (p. 124). Nemico dell’amore,
dunque dell’umanità dell’uomo, è prioritariamnete “il potere, il gusto del
potere, la brama di dominio, di farsi obbedire o, meglio ancora, di essere il
maestro o padrone delle anime e delel coscienze, signori sugli spiriti e sui
cuori. E’ forse l’avere misconosciuto la potenza di questo bisogno, la sua
capacità di insinuarsi in tutto, di accaparrarsi le migliori cause, che ha
fatto scivolare le rivoluzioni dall’intenzione generosa all’oppressione
sistematica” (p. 130). La
manifestazione più ‘pura’ (tra molte virgolette) di questa “brama di dominio” è
la “crudeltà”: quel duplice movimento, che consiste nel divorare e nel vomitare
l’altro, “all’opera in due malattie-simbolo di quest’epoca: l’anoressia e la bulimia”
(p. 129). Anticamera e, poi, effetto di questa tendenza a manovrare crudelmente
i propri simili è la sete di
denaro: “Di tutto ciò che i ricchi, popoli e individui, accaparrano, cosa è
necessario alla fame pura e anche al gusto della festa? Molto poco. Il resto è
fame falsa che instaura il regno della crudeltà. E’ però un regno invisibile
perfino a coloro che vi si trovano dentro” (p. 132).
In una visione antropologica
multidimensionale, pluriprospettica, non poteva mancare il capitolo sull’economia:
che è, appunto, il quinto. In esso si distingue ciò che l’attività economica è
riuscita a realizzare (il soddisfacimento di bisogni) da ciò che è riuscita a
suscitare (il desiderio di voglie, di capricci) con l’intento di non
soddisfarlo mai definitivamente (pena il proprio suicidio). In quest’ultima
accezione - capitalistica –
l’economia tratta solo di beni quantificabili, negando in essi (e nell’essere
umano) la rilevanza di ciò che non ha prezzo (e che proprio per questo è più
prezioso). Oppure riducendo ciò che non ha prezzo a un dato quantificabile:
come quando denomina “risorse umane” l’insieme dei lavoratori, livellandoli al
piano del petrolio o del carbone. Se si pensava che lo sfruttamento fosse il
punto più basso di degradazione raggiungibile, ci si sbagliava: oggi la società
pullula di “esclusi” dal sitema produttivo la cui più altra aspirazione sarebbe
di diventare degli “sfruttati”. In questo contesto ognuno può impegnarsi a
“creare l’inedito”, lavorando “negli interstizi (ad esempio, nelle
associazioni senza scopo di lucro) e ai margini
, diffondendo la propria opinione”, per riaprire spazi all’astinenza (“dall’eccesso di cibo a quello di benzina, di immagini e di
chiacchiere”) in funzione della gratuità
(“contemplazione, lettura, pensiero, conversazione, gioco, passeggio, arte
ecc.”) (pp. 152 – 153).
Alla poliedrica produzione di Bellet
appartengono anche quattro romanzi. Il sesto capitolo della monografia di
Calabrò è dedicato a raccontarne la trama, non senza l’avvertenza che del quarto
(I viali del Lussemburgo) è possibile
leggere la traduzione italiana edita da Servitium (Sotto il Monte, 1997).
Nel 2004 Bellet ha pubblicato il saggio Le paradoxe infini. Pour une science de
l’humain : all’esposizione dei passaggi principali di questo testo è
dedicato il settimo, penultimo
capitolo. In principio il
pensatore francese fissa due criteri (strettamente intrecciati): fare scienza
significa cercare incondizionatamente la verità (fosse pure, per uno scettico,
la verità che non si possono attingere verità) e servirsi di qualsiasi ‘mezzo’
per raggiungerla (senza sottomettersi a
priori a un determinato metodo che, valido in un contesto, potrebbe
risultare invalido in un altro). Applicare questa idea di scienza all’essere
umano significa rinunziare a comode oggettivazioni e sperimentare, mediante l’ascolto, “lo sconcertante” (p. 185). Cos’è, dunque, l’umano? Bellet prova a
caratterizzarlo mediante le nozioni di “limite” e di “cammino”. Come si esprime
Calabrò, “il limite si caratterizza come
ciò che de-finisce l’uomo , è ciò che si manifesta all’incontro con l’inumano.
Non sappiamo cosa sia l’umano, ma sappiamo dove
smette di esserlo” (p. 187) . Poiché questo limite muta nella storia, è
soltanto nella storia che possiamo realizzare una sempre meno imperfetta
esperienza dell’umano. Ne risente la nozione stessa di verità: vero non è tanto
il discorso universale, bensì “ogni pensiero che riconosce il proprio limite ed
accetta di farsi ascolto” (p. 189).
L’ottavo, e ultimo, capitolo è intitolato Sullo stile ma, in realtà, le considerazioni sullo stile
comunicativo di Bellet occupano solo la prima metà del capitolo; la seconda,
infatti, è dedicata a discutere alcuni critici (J.-M. Maldamé, C. –R. Monteil, S. Santasilia e R.
Panikkar) del pensatore francese. Come nella intervista (Rifiutare la distruzione) che segue immediatamente, è possibile qui
cogliere il nucleo generatore e l’anima ispiratrice della vasta e variegata
produzione di Bellet: “C’è una seconda volta!” per tutti, anche per chi ritiene
di essere condannato alla disperazione, ai “bassifondi” della società e
dell’esistenza (pp. 223 – 224).
Il prezioso volume è sigillato da una Conclusione dell’autore, da un’ampia Bibliografia (dove si dà notizia anche del sito ufficiale di Maurice
Bellet in lingua italiana: www.mauricebellet.it)
e da un Glossario dei termini e indice
dei nomi.
Sarebbe troppo lungo, per lo spazio di una recensione, riprendere e
discutere i temi su cui Bellet esprime, insieme a considerazioni acute e
condivisibili, opinioni meno
convincenti. Una per tutte (ma davvero radicale) riguarda il funzionamento del
“pensiero teologico o filosofico” la cui “verità deriverebbe dagli effetti
positivi che produce sulla persona che lo riceve” (p. 214). Bellet vi riconosce
“il vero criterio di verità”: ma non è piuttosto la tentazione da cui provare a
preservarsi? La ricerca intellettuale (proprio quando non è del mero intelletto
ma coinvolge il soggetto nella sua globalità) deve lasciarsi sorprendere da ciò
che incontra, evitando di privilegiare ciò che incoraggia e motiva e di
chiudere gli occhi su ciò che atterrisce e paralizza. La filosofia, avvertiva
già Hegel, non può essere consolatrice a tutti i costi. Nella mia (per quanto
poco significativa) esperienza personale ho dovuto tante volte abbandonare
punti di vista confortanti e tonificanti esistenzialmente solo perché, a un
esame oggettivo, risultati infondati. Alla lunga, certo, ho sperimentato
anch’io “effetti positivi”, ma negli snodi cruciali è stato davvero duro
abbracciare amare verità al posto di dolci, illusorie menzogne.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com