“Repubblica – Palermo”
9.11.2013
A un mese esatto dalla strage
di Lampedusa, l’emozione pubblica si è affievolita ma non spenta. Bisognerà
attendere ancora uno o due mesi perché anche il ricordo di questa ennesima
strage scompaia nell’abisso dell’oblìo. Per andare un po’ oltre l’emozione, la
Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” ha organizzato un seminario di
studio di tre giorni, pervenendo -
con l’aiuto di esperti di varia estrazione – a delle conclusioni che
meriterebbero d’essere condivise. Per
limitarci a pochi flash, cominciamo
dai numeri oggettivi. Le “invasioni barbariche” (di cui il Canale di Sicilia
costituisce solo il passaggio per il 10% degli immigrati: il restante 90%
arriva in aereo, treno e pullman varcando i confini del Paese a ogni
latitudine) coinvolgono 5.000.000 di persone regolarizzate (che contribuiscono
con i contributi INPS a pagare le pensioni dei lavoratori italiani in
quiescenza) e solo 400.000
irregolari (pari a meno dell’1 % della popolazione italiana). Senza tanti
immigrati - che lavorano sodo,
pagano le tasse, fanno figli – il nostro Welfare
State sarebbe in serio pericolo.
C’è chi sposta l’allarme sul piano sanitario: quante malattie importano
in Sicilia e in Italia tanti africani? Risposta dei medici specializzati in
questo settore: nessuna. Arrivano da noi le persone più sane fisicamente e più
decise psicologicamente: quando si ammalano è per lo stress lavorativo (i maschi) e per aborti clandestini (le donne).
Altri ancora - sorvolando sugli aspetti economici e sanitari – si
concentrano sui pericoli culturali: che ne sarà nei prossimi decenni
dell’identità italiana e, più ampiamente, europea? La domanda avrebbe senso se
l’identità italiana e, più
ampiamente, europea, non fosse già (diacronicamente e sincronicamente) un
intreccio di tradizioni culturali (dalla filosofia greca all’ebraismo, dal
cristianesimo all’islamismo, dall’illuminismo francese allo storicismo
tedesco). Non solo è falso dal punto di vista storico-antropologico che esista
una “identità nazionale”, ma qualora esistesse sarebbe deleterio salvaguardarla
dallo scambio osmotico con le altre culture, le altre tradizioni sapienziali,
le altre religioni mondiali, al caro prezzo di ingabbiarla e fossilizzarla.
Se queste pregiudizi sono infondati,
andrebbero riviste radicalmente le politiche e le normative che su quei
pregiudizi sono state fondate, anche per strumnetalizzare elettoralmente le
paure viscerali della gente meno informata e meno riflessiva. Sul piano
propositivo, dunque, andrebbero fissati alcuni criteri illuminanti. Primo fra
tutti la differenza fra le varie tipologie di immigrati: c’è chi emigra per
delinquere in Paesi più ricchi (e si tratta di sparute minoranze, paragonabili
ai siciliani che andavano negli Stati Uniti per rafforzare la criminalità
organizzata), chi emigra per cercare condizioni di lavoro e di vita più
dignitosi e chi emigra per disperazione (affrontando difficoltà inenarrabili e
persino il concreto rischio di morire pur di fuggire da situazione di guerra, di
fame, di persecuzione politica da parte di feroci dittature). L’attuale
legislazione italiana ed europea non fa distinzione fra le varie categorie di
immigrati e, trasformando la clandestinità da illecito amministrativo a reato,
criminalizza migliaia di innocenti. Essa andrebbe mutata non per debolezza
verso popoli stranieri che pressano alle frontiere, ma per coerenza e
continuità rispetto alla civiltà giuridica europea (così nobilmente segnata dal
diritto romano) e, in particolare, con la Costituzione italiana. La soluzione
che è apparsa più ragionevole ai partecipanti al seminario sarebbe la più
radicale: allargare ai cittadini di tutti gli Stati del mondo la medesima
facoltà di spostamento di cui attualmente godono solo i cittadini degli Stati
più ricchi (Unione europea, Stati uniti d’America, America latina, Russia,
Giappone, Australia…). In una logica di gradualità dell’inversione della
tendenza politica si potrebbero studiare delle norme meno ipocrite, quali ad
esempio l’istituzione di un “permesso di soggiorno per ricerca di lavoro”
(della durata di un anno) che eviti il paradosso di un immigrato che deve
vivere da clandestino e lavorare in nero (dunque in condizione di sfruttamento)
prima di poter chiedere la regolarizzazione giuridica in Italia. Per secoli questa libertà di movimento
sulla faccia della Terra è rientrata fra i diritti più ovvi di ciascun essere
umano; oggi non lo è più e appare un’utopia. Ma forse domani tornerà ad essere
ovvia come l’abolizione della schiavitù
o della pena di morte.
Augusto Cavadi
1 commento:
Articolo davvero encomiabile per sintesi e lucidità.
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