“Repubblica – Palermo” 26.10.13
I RITARDI DELLA CHIESA CHE PREGA PER I POTENTI
Che male c’è se un parroco siciliano (in questo caso
don Antonino Scibilia, di Rometta Marea nel messinese) chiede di pregare per un
fedele che da alcuni anni è ristretto nelle patrie galere? La chiesa cattolica
non ha previsto, fra le opere di misericordia spirituale, la visita ai
carcerati per portar loro conforto? Nulla da eccepire, dunque. Neppure se il
detenuto si chiama Salvatore Cuffaro ed è stato condannato per favoreggiamento
di mafiosi. Ma allora perché l’invito del prete, nel corso dell’omelia domenicale, è stato accolto dai presenti (o da
alcuni presenti) con vivaci reazioni di insofferenza?
In ogni comunità locale agiscono dinamiche
difficilmente decifrabili, ma un osservatore esterno - ‘esterno’ sino a un certo punto: è chiaro che il rapporto
fra mafia e chiesa cattolica è un nervo tuttora scoperto - non può fare a meno di notare alcuni
elementi. Primo fra tutti: l’intenzionalità ad
personam della preghiera. Davanti all’Eterno siamo tutti uguali: se
migliaia di corregionali sono in galera, perché ricordarne uno e dimenticare
tutti gli altri? Difficile sostenere che il piccolo spacciatore di erba o il
firmatario di assegni scoperti siano colpevoli di reati più odiosi di chi ha
colluso con Cosa nostra, infernale fabbrica di delitti e di soprusi sistemici.
Proprio la risposta all’interrogativo costituisce un secondo elemento di
valutazione. Totò Cuffaro aveva donato, quando era il padrone della Sicilia,
quasi un milione di euro per completare la costruzione dell’oratorio
parrocchiale: se lo avesse fatto di tasca propria, come negargli un ricordo
grato e una preghiera solidale? Ma
si dà il caso che quel gruzzolo di
denaro non sia provenuto dai risparmi privati di un benefattore, bensì dalla
finanze pubbliche (faticosamente alimentate da tasse versate dai cittadini più
onesti o più fessi). Nulla di strano, dunque, che dei cattolici praticanti
consapevoli possano aver chiesto la rimozione di una targa gratulatoria in
memoria di un gesto equivoco: un tentativo di comprare il consenso elettorale
più che di favorire la promozione sociale di un territorio; l’ennesima
manifestazione di un favoritismo clientelare-confessionale che, nelle coscienze
civicamente educate, provoca più fastidio e vergogna che compiacimento
campanilistico.
D’altronde non è la prima volta che
qualche prete invita a intercedere per Salvatore Cuffaro (per esempio alla
vigilia della sentenza di condanna in primo grado fu organizzata in una
parrocchia della Palermo-bene una veglia di preghiera, prontamente commentata con
sottile ironia da don Cosimo Scordato in una chiesa di Ballarò: “Anch’io mi
associo alla preghiera dei miei fratelli che, suppongo, abbiano chiesto a Dio
di illuminare i giudici affinché si pronunzino secondo verità e giustizia”).
Perché - ci si chiede con
malcelata angoscia – nessun prete invita a pregare (anche, soprattutto, prima
di tutto) per le vittime di Cosa nostra e dei suoi supporter ? Non è un po’ sospetta la misericordia prët-à-porter per i potenti in disgrazia
che dimentica di rivolgersi, almeno contestualmente, a chi è stato derubato di
affetti e di beni materiali da quei potenti e dai loro complici criminali? Nel
ventesimo anno del martirio di don Pino Puglisi a Brancaccio - anno della sua beatificazione solenne
in quanto martire di mafia – non è questa mentalità né questo stile che ci si
attende dal clero siciliano. Questa è – o dovrebbe essere – acqua passata. La
chiesa di papa Francesco, in quanto sollecitata a riscoprire le preferenze
evangeliche di Gesù di Nazaret, può dedicarsi a consolare i colpevoli pentiti
solo dopo aver fatto di tutto perché essi, concretamente ed efficacemente,
abbiano riparato le ferite inferte al tessuto sociale e, in particolare, a chi ha perduto la vita o la propria personale serenità nel tentativo
di non piegarsi al sistema di dominio mafioso, odiosa “struttura di peccato”.
Augusto Cavadi