domenica 27 ottobre 2013

Se un parroco chiede ai fedeli di pregare per Totò Cuffaro


“Repubblica – Palermo” 26.10.13
I RITARDI DELLA CHIESA CHE PREGA PER I POTENTI


Che male c’è se un parroco siciliano (in questo caso don Antonino Scibilia, di Rometta Marea nel messinese) chiede di pregare per un fedele che da alcuni anni è ristretto nelle patrie galere? La chiesa cattolica non ha previsto, fra le opere di misericordia spirituale, la visita ai carcerati per portar loro conforto? Nulla da eccepire, dunque. Neppure se il detenuto si chiama Salvatore Cuffaro ed è stato condannato per favoreggiamento di mafiosi. Ma allora perché l’invito del prete, nel corso dell’omelia domenicale,  è stato accolto dai presenti (o da alcuni presenti) con vivaci reazioni di insofferenza?
     In ogni comunità locale agiscono dinamiche difficilmente decifrabili, ma un osservatore esterno   - ‘esterno’ sino a un certo punto: è chiaro che il rapporto fra mafia e chiesa cattolica è un nervo tuttora scoperto -  non può fare a meno di notare alcuni elementi. Primo fra tutti: l’intenzionalità ad personam della preghiera. Davanti all’Eterno siamo tutti uguali: se migliaia di corregionali sono in galera, perché ricordarne uno e dimenticare tutti gli altri? Difficile sostenere che il piccolo spacciatore di erba o il firmatario di assegni scoperti siano colpevoli di reati più odiosi di chi ha colluso con Cosa nostra, infernale fabbrica di delitti e di soprusi sistemici.
   Proprio la risposta all’interrogativo costituisce un secondo elemento di valutazione. Totò Cuffaro aveva donato, quando era il padrone della Sicilia, quasi un milione di euro per completare la costruzione dell’oratorio parrocchiale: se lo avesse fatto di tasca propria, come negargli un ricordo grato e una preghiera solidale?  Ma si dà il caso che  quel gruzzolo di denaro non sia provenuto dai risparmi privati di un benefattore, bensì dalla finanze pubbliche (faticosamente alimentate da tasse versate dai cittadini più onesti o più fessi). Nulla di strano, dunque, che dei cattolici praticanti consapevoli possano aver chiesto la rimozione di una targa gratulatoria in memoria di un gesto equivoco: un tentativo di comprare il consenso elettorale più che di favorire la promozione sociale di un territorio; l’ennesima manifestazione di un favoritismo clientelare-confessionale che, nelle coscienze civicamente educate, provoca più fastidio e vergogna che compiacimento campanilistico.
     D’altronde non è la prima volta che qualche prete invita a intercedere per Salvatore Cuffaro (per esempio alla vigilia della sentenza di condanna in primo grado fu organizzata in una parrocchia della Palermo-bene una veglia di preghiera, prontamente commentata con sottile ironia da don Cosimo Scordato in una chiesa di Ballarò: “Anch’io mi associo alla preghiera dei miei fratelli che, suppongo, abbiano chiesto a Dio di illuminare i giudici affinché si pronunzino secondo verità e giustizia”). Perché  - ci si chiede con malcelata angoscia – nessun prete invita a pregare (anche, soprattutto, prima di tutto) per le vittime di Cosa nostra e dei suoi supporter ? Non è un po’ sospetta la misericordia prët-à-porter per i potenti in disgrazia che dimentica di rivolgersi, almeno contestualmente, a chi è stato derubato di affetti e di beni materiali da quei potenti e dai loro complici criminali? Nel ventesimo anno del martirio di don Pino Puglisi a Brancaccio  - anno della sua beatificazione solenne in quanto martire di mafia – non è questa mentalità né questo stile che ci si attende dal clero siciliano. Questa è – o dovrebbe essere – acqua passata. La chiesa di papa Francesco, in quanto sollecitata a riscoprire le preferenze evangeliche di Gesù di Nazaret, può dedicarsi a consolare i colpevoli pentiti solo dopo aver fatto di tutto perché essi, concretamente ed efficacemente, abbiano riparato le ferite inferte al tessuto sociale e, in particolare, a chi ha perduto la vita o la propria personale serenità nel tentativo di non piegarsi al sistema di dominio mafioso, odiosa “struttura di peccato”.

Augusto Cavadi

venerdì 25 ottobre 2013

Ci vediamo mercoledì 30 ottobre 2013 a Palermo?

L'associazione di volontariato "Nevea" 
mi ha invitato a presentare e discutere
il mio recente volumetto

"Legalità

(Di Girolamo, Trapani 2013, pp.  86  euro 7,00).

L'appuntamento è per mercoledì 30 Ottobre 2013
alle ore 18:30 presso "La Casa della Solidarietà
(in  via Ugdulena, 10).

giovedì 17 ottobre 2013

Ci vediamo a Valderice (Trapani) da venerdì 1 novembre a domenica 3 ?


Associazione di volontariato culturale
SCUOLA DI FORMAZIONE ETICO-POLITICA “G. FALCONE”
di Palermo

I FLUSSI MIGRATORI MONDIALI: L’EMOZIONE NON BASTA







Laboratorio di riflessione aperto a quanti hanno informazioni e indicazioni operative da offrire sulla base della propria esperienza quotidiana.

Prima sessione
(Coordinata da Pietro Spalla)
venerdì 1 novembre ore 16,30 – 19,30
Perche ci difendiamo? Basi biologiche, etologiche e antropologiche dell’aggressività umana nella difesa dei propri spazi vitali.


Seconda sessione
(Coordinata da Annamaria  Pensato)
sabato 2 novembre ore 9, 30 – 12,30
L’attuale normativa europea e italiana a difesa dei confini nazionali e gli interessi della criminalità sul traffico degli esseri umani.


Terza sessione
(Coordinata da Daniela Aquilino)
sabato 2 novembre  ore 16,30 – 19, 30
Dalla conoscenza dei numeri reali a cosa può fare il cittadino ‘comune’ qui e ora.


Quarta sessione
(Coordinata da Francesco Palazzo)
domenica 3 novembre ore 9,30 – 12,30
Possono le persone circolare come le merci?
Considerazioni divergenti dal punto di vista politico.






Indicazioni tecniche:
·     I lavori si svolgeranno presso l’Hotel Villa Sant’Andrea di Valderice (TP): Via Enrico Toti 87 .
·     Si prega di offrire un contributo per le spese organizzative di almeno euro 5,00 (cinque)
·     Chi vuole può prenotare (tel: 0923 891774   -348 1482898) una singola (euro 25,00) o una doppia (euro 40,00): la cifra è  a notte + prima colazione.

Gli intellettuali e la politica


“Madrugada”
Settembre 2013

Gli intellettuali: controllori dei politici o clienti privilegiati?

 Sin dai tempi del buon Platone non è stato possibile riflettere sulla politica senza interrogarsi sui rapporti con gli intellettuali. Si tratta infatti di due mondi originariamente estranei per vocazione: i politici sono protesi all’azione, gli intellettuali alla contemplazione. I primi rischiano di affezionarsi al potere rinunziando a un progetto complessivo di giustizia sociale, i secondi di cincischiare con i propri sogni senza spostare di un centimetro le condizioni effettive della società. La soluzione ventilata da Platone è tanto semplice da enunciare quanto ardua da attuare: che i politici diventino intellettuali o gli intellettuali imparino a fare politica. Ogni tanto il miracolo avviene (Pericle, Marco Aurelio, Adriano, Lorenzo de’ Medici, La Pira, Havel…), ma la statistica sembra attestare che si tratta di eccezioni a conferma della regola: l’uomo di governo non ha la voglia, e quando ha la voglia gli manca il tempo, di meditare sulle scelte di lungo periodo; l’uomo di pensiero non ha la voglia, e quando ha la voglia non ha la capacità, di occuparsi dell’amministrazione della cosa pubblica.
    Il meno peggio che possa capitare è allora una qualche forma di cooperazione fra “re” e “filosofi”: ma anche questa via è irta di ostacoli e trabocchetti. Pensare significa, infatti, criticare: non nel senso banale di fare le pulci a ogni costo, bensì nel senso etimologico di discernere il bene e il male, di chiamare il positivo e il negativo con il vero nome. L’intellettuale di professione dovrebbe frequentare i palazzi del potere come coscienza critica: dunque consigliere propositivo, ma anche controllore severo. La storia ci insegna quanto poco i governanti amino questo genere di supporto: Boezio e Seneca sono solo alcuni dei molti filosofi che hanno pagato col carcere e la morte la frequentazione delle corti. In tempi più recenti, sono stati i philosophes a verificare l’impossibilità di un “assolutismo illuminato”: Voltaire sbatte la porta della reggia prussiana dopo aver tentato invano di rendere più vivibile un Paese che gli apparve una grande caserma in assetto perenne di guerra.
    Se la storia registra i nomi degli intellettuali che hanno, più o meno drammaticamente, rotto il rapporto di collaborazione con i governanti, non fa altrettanto con i nomi  - assai più numerosi – degli intellettuali che non hanno consumato nessuna rottura clamorosa perché hanno preferito vendere il proprio silenzio. Le cronache italiane di questi ultimi decenni attestano non un fenomeno nuovo, ma un fenomeno antico ampliatosi in maniera parossistica: pletore di professori, di artisti, di ricercatori, di giornalisti e di esperti più o meno qualificati che rinunziano allo scomodo ruolo di guardiani del potere, a nome e per conto del popolo, e abbracciano la più remunerativa carriera di clientes privilegiati. Reincarnazione dei più sfrontati sofisti, costoro usano le armi della dialettica non per cercare – nella misura del possibile – la verità quanto per difendere gli interessi dei più potenti e dei più ricchi, soprattutto di quanti sono potenti per ricchezza e ricchi per abuso di potere.
    E’ possibile una via d’uscita dall’impasse? E’ ipotizzabile una sinergia fra intellettuali e politici che non approdi, fatalmente, al martirio di alcuni o alla complicità di molti? Sino a quando nell’immaginario collettivo si accetterà come ovvia e inevitabile una partizione della società per corporazioni, non vedrei soluzioni. La corporazione  - o, se si preferisce, il termine meno esatto di ‘casta’ che di per sé comporterebbe l’appartenenza per diritto di nascita ed escluderebbe l’uscita e l’entrata di membri particolarmente intraprendenti e sfacciati – degli intellettuali da una parte; la corporazione dei politici di carriera dall’altra: attualmente si tratta di segmenti della medesima fascia ‘alta’ della società, accomunati da una tavola di valori e di interessi comuni (il consenso sociale, il successo, l’ampia disponibilità di denaro, i privilegi relazionali rispetto alla gente ‘comune’…). Solo un contesto radicalmente rinnovato potrebbe consentire nuovi rapporti: mi riferisco a una società in cui politica e cultura non siano più monopolio di sedicenti specialisti bensì dimensioni, più o meno accentuate, di ciascuna esistenza umana. Mi riferisco, in altre parole, a una società (futura, ma possibile) in cui ogni cittadino e ogni cittadina vogliano, sappiano e possano coltivare la propria valenza politica e la propria valenza intellettuale, senza delegare né l’una né l’altra a ‘professionisti’ – rispettivamente - della politica e della cultura. Antonio Gramsci scriveva che ogni uomo è un intellettuale, anche se non ogni uomo si dedica principalmente al lavoro intellettuale: la società che immagino (come intellettuale) e per la quale lavoro (come soggetto politico) è una società in cui l’affermazione gramsciana non solo diventi vera, ma possa essere anche parafrasata (ogni uomo è un politico, anche se non ogni uomo si dedica principalmente al governo della città). L’alleanza fra pensiero e azione potrà realizzarsi a livello istituzionale solo se prima si sarà avviata nell’ambito delle esistenze personali. Platone ha avuto una grande intuizione quando ha stabilito la rinunzia al diritto di properietà privata dei beni materiali come condizione sine qua non per svolgere correttamente il ruolo di intellettuale e il ruolo di governante; ma non ha capito che la commistione fra filosofi e re provocherà pasticci, se non addirittura tragedie, sino a quando riguarderà una sola ‘classe’ sociale, al di sopra delle teste e delle vite delle classi ‘inferiori’ (militari e operai). Solo quando i cittadini tutti attueranno almeno in minima parte le proprie potenzialità intellettuali e politiche saranno in grado di accompagnare criticamente ogni tentativo di sinergia fra cittadini prevalentemente intellettuali e cittadini prevalentemente politici.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

lunedì 14 ottobre 2013

Due ore di legalità nelle scuole ?


“Repubblica – Palermo”

11.10. 13

 

     Educazione alla legalità: cominciamo dalle raccomandazioni

    Due ore a settimana di antimafia da  insegnare nelle scuole medie e superiori siciliane: è la proposta contenuta in un disegno di legge presentato dal Movimento Cinque Stelle allʼAssemblea regionale siciliana. Pronta l’adesione di Nello Musumeci, presidente della Commissione antimafia, che ne aveva già presentato una analoga nel 2007 al Parlamento europeo di  Strasburgo.
        Date per scontate le intenzioni benemerite degli attuali politici, mi viene spontaneo augurarmi che anche questa volta – come nel corso della precedente legislatura regionale in cui una proposta simile fu avanzata da deputati di sinistra – tutto si areni fra le chiacchiere e i veti incrociati. Non certo perché di educazione civile contro la mentalità e le pratiche mafiose non ce ne sia bisogno dalle nostre parti, ma proprio perché ce n’è molta necessità. E allora o si fanno le cose per bene o è meglio non costruire, a sé stessi e agli altri (in questo caso i giovani), comodi alibi.
      Innanzitutto va ricordato che il sistema scolastico (come potrebbero attestare dall’oltretomba Platone, Agostino, Manzoni, Leopardi, Ungaretti…) riesce a rendere odiose anche le proposte più affascinanti. Sappiamo tutti che solo Carmelo Bene, Vittorio Gassman o Roberto Benigni riescono a sdoganare la “Divina Commedia” dal limbo di venerazione formale e di antipatia sostanziale in cui riescono a relegarla la maggior parte dei docenti di letteratura italiana (con eccezioni tanto più significative quanto rare).
       In secondo luogo, non si può parlare di “legalità” come disciplina a sé: va inserita in un quadro complessivo di storia del Meridione, di diritto costituzionale, di elementi basilari di economia…Insomma è un tema interdisciplinare e ancor più transdisciplinare: deve costituire parte integrante dell'intera programmazione didattica e, soprattutto, esige il rinnovamento metodologico e contenutistico per lo sviluppo di una coscienza critica degli alunni. Che senso ha fare l’ora di legalità (democratica) e continuare a insegnare in maniera dogmatica e nozionistica il latino o la fisica?
          In terzo luogo, infine, le pur necessarie modifiche dal punto di vista cognitivo, intellettuale, sarebbero comunque insufficienti se non accompagnate da una radicale riforma delle pratiche. Non parliamo delle pratiche nella società in generale, nelle sedi istituzionali e amministrative in particolare: sarebbe, in questo momento, come accendere fiammiferi per vedere meglio i giochi di fuoco. Limitiamoci alle nostre scuole,  troppo spesso palestre di favoritismi in cui si insegna, con i fatti, che il rispetto delle regole non paga e che contano soltanto la furbizia individuale e le amicizie altolocate. Si potrebbero moltiplicare gli esempi, ma già nella scelta della sezione in cui iscrivere i propri figli si scatena una caccia alla raccomandazione per entrare nei corsi più “in” ed evitare gli “out”. Che poi qualche dirigente scolastico riesca a resistere alle pressioni relazionali è di certo lodevole, ma non scontato. Più in generale, in tutte le scuole in cui ho lavorato da quaranta anni, il docente che arriva abitualmente in ritardo, resta indietro col programma e limita le spiegazioni ai testi in adozione, lascia copiare liberamente durante le prove scritte  – purché a fine d’anno sia “generoso”  nelle valutazioni – viene considerato “buono” dagli alunni, dalle famiglie e persino dai colleghi. Se invece è più esigente con sé stesso  - sia per quanto riguarda l’aggiornamento professionale sia  dal punto di vista deontologico  - e, dunque, anche con gli alunni, nel corso dell’anno scolastico e in sede di scrutini finali, viene qualificato con una vasta gamma di epiteti, dal più gentile ( “E’ una testa dura,  di coccio”) ai meno riferibili. La legalità, insomma, la si insegna prima di tutto ed essenzialmente vivendola, inspirandola ed espirandola: facendone apprezzare, secondo l’espressione cara a Paolo Borsellino, il “profumo”. Certo, questo costa un po’ più che fingere di somministrarla a ore settimanali: ma è il prezzo di tutte le cose belle della vita.

Augusto Cavadi
ASSOCIAZIONI


domenica 13 ottobre 2013

Ci vediamo in Lazio venerdì 18 e sabato 19 ?

Care e cari, venerdì 18 ottobre alle 17,00 sarò a Anzio (Roma) per parlare di don Puglisi prendendo spunto dai tre libri su di lui di cui sono co-autore (con le edizioni "Di Girolamo" e "Il pozzo di Giacobbe").

Il giorno dopo, sabato 19 ottobre alle 11,30, incontrerò due gruppi di alunni del liceo "Ignazio Vian" di Bracciano (Roma) per conversare con loro sulla politica in generale e sul fenomeno mafioso in particolare.

Trascorrerò a Roma la giornata di domenica 20 e potrò incontrare volentieri qualcuno di voi che lo desiderasse.

giovedì 10 ottobre 2013

La fenomenologia del pane-e-panelle

Sul sito www.cronachedigusto.it una riflessione di alta metafisica commissionatami in occasione dell'evento internazionale "Champagne e panelle" (previsto per domenica 13 alla galleria d'Arte Moderna di Palermo):

http://www.cronachedigusto.it/archiviodal-05042011/343-la-curiosita/11789-fenomenologia-della-panella-una-risposta-alla-questione-sul-senso-della-vita.html

 

   Tra le prime  cose che colpiscono gli ospiti di Palermo è senza dubbio l’abbondante offerta di cibo di strada. Puoi faticare a trovare una libreria, persino un giornalaio; puoi dover girare un po’ per una farmacia o per un veterinaio; ma, intanto che hai percorso duecento o trecento metri alla ricerca della tua méta, difficilmente non ti sei imbattuto in qualcuno che vende panini con la milza, stigghiole, quarume e – in primis et ante omnia – panelle e crocché.
    Perché quest’abbondanza di occasioni per mangiare, questa ubiquità e questa continuità oraria? Un’ipotesi filosofica me l’ha suggerita una volta un prete, rotondetto e rubicondo, nel corso di una scampagnata del primo maggio. Eravamo, con la mia giovane comitiva di allora, suoi ospiti e avevamo abbondantemente apprezzato le varie portate, dagli antipasti al dolce. A un certo punto tirò fuori dal frigorifero non so che cosa  - mi pare una torta gelata – ma dichiarai che proprio non ce la facevo più a ingurgitare altri alimenti. Insisté gentilmente e altrettanto gentilmente resistetti. Fu allora che mi arrivò il suo affondo teoretico: “Ma se ci levi il mangiare, che resta della vita?”.
   Ecco dunque una prima ipotesi: pane e panelle abbondano per le strade palermitane per rispondere alla questione esistenziale sul senso della vita. In genere ci insegnano che si mangia per vivere, ma forse dalle nostre parti si vive per mangiare.  O, per lo meno, si mangia per dare senso alla vita. Per Ungaretti la morte si sconta vivendo; se fosse stato conterraneo, avrebbe aggiunto che la vita si sopporta mangiando.
   Se qualcuno non fosse convinto da questa ipotesi sulla strabordante fenomenologia del pane-e-panelle, potrebbe esaminare una seconda ipotesi. Palermo è una città bella da vedere da Monte Pellegrino o dalla nave che arriva da Napoli, ma difficile da vivere: maleducazione, sporcizia, inquinamento, viabilità caotica, talvolta scippi, molto più spesso abusi edilizi e squarci di degrado urbanistico…Insomma, qualcosa che assomiglia molto a un girone infernale. Come resistere senza un viatico adeguato? Per questo un dio pietoso, nella notte dei tempi (o, più probabilmente, al tempo della dominazione araba), ha ispirato l’antidoto  alla durezza della vita a Palermo: suggerendo, a qualche anonima massaia, le panelle fritte e rifritte nello stesso olio (talvolta tramandato da nonna a nipote). Insomma, per parafrasare il brano di un romanzo di Dacia Maraini, rimane  valida la risposta di un’anziana zia alla domanda della nipotina: “Vuoi sapere che cos’è l’inferno? Immagina una Palermo senza panini e panelle!”.
    Se le panelle costituiscono la risposta al problema antropologico (che senso ha la vita umana?) e al problema sociologico (come è possibile sopravvivere al girone palermitano ?) , si spiega non solo l’onnipresenza dei baracchini delle friggitorie, ma anche la cura pedagogica con cui intere generazioni di genitori insegnano ai propri piccoli il culto delle panelle. Lo attesta un episodio – al limite fra la cronaca e la leggenda – che ormai fa parte dell’immaginario collettivo palermitano. Alle dieci del mattino una coppia di giovani sposi si precipita all’Ospedale dei bambini con un neonato di quattro mesi fra le braccia. Supplicano il medico di turno di aiutare il figlioletto, preda di crampi allo stomaco. Ovviamente il sanitario inizia col chiedere quale sia stato l’ultimo alimento assunto dal piccolo. Alla risposta agghiacciante (“Gli abbiamo dato uno scioppettino di birra”), il medico non può fare a meno di osservare: “Siete pazzi? Una bottiglietta di birra a un neonato di quattro mesi?”. Ma il genitore, palermitano ‘doc’,  non si scompone e, a sua volta, ribatte: “Ma, dopo il panino con le panelle, gli potevamo dare il latte?”.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
     

 

 

 

 



martedì 8 ottobre 2013

Ci vediamo sabato 12 e/0 domenica 13 ottobre 2013 a Palermo?

Nel corso della "Via dei tesori"
organizzata dall'Università di Palermo,
 il gruppo editoriale "Di Girolamo"  ha previsto due eventi,
entrambi nell'ex-convento dei Teatini di via Maqueda
 ( attuale sede centrale della Facoltà di Giurisprudenza)


Sabato 12 ottobre (ore 18), presso l'Aula Ambrosini, Carlo Cazan e Antonella Saverino 
presenteranno il libro che ho scritto per gli adolescenti (10 - 16 anni), con Lilli Genco,
 "Il mio parroco non è come gli altri.
 Docu-racconto su don Pino Puglisi", pp.  80, euro 6,90. 


Domenica 13 ottobre (ore 19 ), presso l'Aula Columba,  
sarò io a presentare, a mia volta,
 l'ultimo libro di Sara Favarò,
 "Proverbi e detti siciliani antichi" , pp. 200 , euro 9,90 .

venerdì 4 ottobre 2013

Una strana malattia: non poter dire se non la verità



“CENTONOVE”, 4.10. 2013

LAVAGNINO E LA MALATTIA D’ESSER SINCERI


   Una delle nozioni peggio quotate nel dibattito pubblico attuale è certamente “verità”. Siamo un po’ tutti dei Ponzio Pilato e, con un sorriso ora di sufficienza ora di leggero rimpianto, ci chiediamo cosa essa sia.  Alessandra Lavagnino, già nel 2001 (ma io ne ho avuto contezza, per gentile dono dell’autrice, solo sfogliando la sesta edizione del 2013),  in Una granita di caffè con panna (Sellerio, Palermo), ha dato una risposta convicente: la verità è ciò sulla cui rimozione si fondano le società (in generale), la società siciliana (in particolare). Altro che chimera inafferrabile! Basta che. attraverso qualche crepa pur minima, essa faccia capolino nell’animo di un solo individuo  - come nel caso della protagonista che, dopo un incidente stradale, non riesce più a non dire ciò che veramente pensa e che pensa sia veramente – ed ecco che si sconvolgono inveterati equilibri di coppia, di famiglia, di aziende, di più ampi gruppi sociali…
  Dell’utilità, anzi della necessità, della menzogna per la vita, dunque? Potrebbe essere un’interpretazione possibile. Che è poi ciò che pensa la maggior parte dell’umanità. Ma il racconto si presta a un’altra interpretazione (che non escluderei coincidere con l’intenzione originaria dell’autrice): posto che una cosa è mentire, un’altra evitare di dire sempre e per intero la verità, la convivenza tra mortali può esigere talvolta la verità senza sconti, tal altra (quando non sono in gioco principi etici e normative essenziali) la verità selettiva. E la menzogna vera e propria? Quella (tranne casi-limite di coercizione violenta della propria libertà: il partigiano in mano ai nazisti) può risultare utile nell’immediato, mai nel lungo periodo. Una famiglia in cui nessuno dice all’altro che cosa non accetta è una famiglia solo apparentemente in pace; così come una società omertosa, in cui il criminale può contare sul silenzio di eventuali testimoni, è solo apparentemente una società armoniosa. In questi contesti una parola di verità  - o almeno di sincerità – può far deflagrare falsi equilibri e provocare macerie: che potranno restare tali o diventare materiale di costruzione  di nuovi, reali, equilibri.
   Il racconto che la protagonista snocciola in forma autobiografica coinvolge e suscita un’attesa (per gli esterofili: una suspence) : ma, alla fine, la sorpresa non arriva. O forse è proprio questa: la mancanza di un evento sorprendente. Che si volesse dire, a noi lettori, che non sempre la vita sorprende? Che scorre senza regalarci svolte decisive e novità inedite? O, peggio ancora, che la vita può tornare ‘normale’ solo se si guarisce dalla ‘malattia’ di essere sinceri?

                                                                Augusto Cavadi

mercoledì 2 ottobre 2013

Estate addio (ma con il ricordo allegro di "Sconsajochu")

Dal quotidiano online  palermomania.it
un mio omaggio a un'inziiativa di "Addio pizzo":


    ESTATE ADDIO
    (MA CON IL RICORDO ALLEGRO DI  Sconsajochu)

 Confesso che, a sessant’anni suonati, le discoteche non sono tra i luoghi che frequento più spesso. Ma alla festa da ballo  - organizzata all’inizio dell’estate da “Addiopizzo” per inaugurare la spiaggia attrezzata “Sconsajochu” - non ho voluto rinunziare. 
     Prima di tutto perché mi ha conquistato l’idea di chiamare Sconsajochu uno spazio dedicato al “guastafeste”  - appunto - Libero Grassi, amante del mare siciliano: perché con il no al pizzo imposto alla propria azienda tessile, l’imprenditore palermitano ha saputo far saltare in aria, al prezzo della propria vita, i giochi perversi fra mafiosi e borghesia inetta.
      Poi perché, esattamente come mi aspettavo, mimetizzando col favore delle tenebre i capelli bianchi, ho potuto trascorrere alcune ore fra ragazzi che sapevano di quotidianità: niente maschi palestrati e iperabbronzati, niente ragazze supertruccatissime in divisa da aspiranti veline per Mediaset. A differenza che nelle discoteche dove mi capita ogni tanto di accompagnare alunni, c’erano ragazzi ‘normali’: con la faccia un po’ stanca per lo studio della giornata, vestiti come  ci si veste ogni giorno per andare a fare la spesa e non come ci si abbiglia per partecipare a uno dei mille concorsi di bellezza che impazzano per il Paese nei mesi estivi.
        Un altro motivo di soddisfazione è stato affidarmi spensieratamente al ritmo di canzoni e musiche d’ogni genere in un pezzo di spiaggia di Capaci: sì, proprio in uno dei luoghi più dolorosi della già tanto dolorosa vicenda della guerra dei mafiosi contro i rappresentanti più onesti e coraggiosi dello Stato democratico. La maggior parte di quelle persone, alcune delle quali meno giovani, ha pianto per Falcone, per la Morvillo, per la scorta; dedica gratuitamente parecchie ore della settimana al volontariato sociale, girando per le scuole e i centri sociali a promuovere una mentalità di resistenza civile; non rifugge qualche rischio personale nel girare per la città tentando di convincere i negozianti a ribellarsi alle estorsioni mafiose. E’ stato bello, è stato prefiguratore di un futuro diverso, che chi ha seminato nel lutto e nella lotta quotidiana abbia potuto raccogliere qualche frutto in un’atmosfera di allegria. In quelle poche ore tra la sabbia e le onde del mare, anche alle note dei Cento passi dei Modena City Ramblers, mi è stato spontaneo immaginare un’isola liberata dal prepotere idiotamente furbesco di pochi, in cui si sperimenti la fraternità e la sororità degli esseri umani fra loro e con l’intero cosmo.

Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com


http:
www.palermomania.it/news.php?estate-addio-ma-con-il-ricordo-allegro-di-sconsajochu&id=54054