martedì 10 settembre 2013

La svolta pratica della filosofia contemporanea secondo Davide Miccione


"Bollettino della Società Filosofica Italiana"

n. 207 settembre-dicembre 2012, pp. 107-109

 

 LA SVOLTA PRATICA DELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA

          Un libro strano, quest’ultimo di Davide Miccione (Ascetica da tavolo. Pensare dopo la svolta pratica, Ipoc, Milano 2012, pp. 165, euro 18,00). Strano, intrigante, originale. Un po’ come certi cibi siciliani agrodolci: infatti lo si gusta con piacere immediato perché scorre su un registro finemente ironico ma, a fine di ogni capitolo, si intuisce che il nocciolo teoretico più consistente è sfuggito. Era di un sapore tutt’altro. Questa struttura palinsestica è evidente sin dal primo capitoletto in cui si spiega che si tratta di un libro di metafilosofia per negare, simultaneamente, che la metafilosofia esista: mentre, infatti, ha senso distinguere l’epistemologia della fisica dalla fisica o l’epistemologia della sociologia dalla sociologia, un’epistemologia della filosofia è già filosofia. Se si preferisce: è una filosofia della filosofia, dunque in ogni caso di filosofia si tratta.
    Quale che lo si voglia nominare, questo punto di vista “meta” è necessario per riflettere su un mutamento di “paradigma” (p. 21)  che, secondo l’autore, si sta realizzando nel mondo dei filosofi. Mutamento di paradigma, non di metodologie o di contenuti o di interessi: non l’imporsi di un nuovo sistema, di un nuovo maestro, di una nuova corrente, bensì il graduale – ma inesorabile – di un nuovo modo di concepire l’attività filosofica. Ognuno resta a fare ciò che ha sempre fatto (il logico, l’eticista, il metafisico…), ma lo fa con un altro esprit: per usare un vocabolo caro a Miccione, con un altro “stile”. Sulla falsariga di altri passaggi nella storia del pensiero, ma con ben altra radicalità, si può parlare di “svolta pratica”: un fenomeno talmente vasto che sarebbe riduttivo attribuirne la paternità a un determinato gruppo di pensatori (fossero pure i numerosi filosofi che, nel mondo, si riconoscono  - per quanto criticamente – in alcune suggestioni della Philophische Praxis proposta da Gerd Achenbach). Condivido, per esperienza personale, la difficoltà di discutere questa metamorfosi persino con studiosi solitamente acuti nelle analisi storiografiche: ti chiedono con insistenza nomi e cognomi, titoli di opere, tematiche preferenziali a cui far risalire l’origine di questa “svolta”, quasi incapaci di focalizzare qualcosa che accade non “nella comunità  filosofica internazionale”, ma “alla comunità filosofica internazionale” (p. 14). Per tentare di vincere questa resistenza (logica, non psicologica) ho pure scritto una lunga lettera a Mario Trombino ch è diventata un  e-book (La filosofia ci farà liberi? Un’interpretazione delle pratiche filosofiche, Bibienne, Fosdinovo 2011): ma non saprei valutare i risultati finali dell’operazione. Non è facile spiegare che, dopo una leggera scossa di terremoto, la città è  - nel suo insieme – esattamente la stessa di prima e pure totalmente differente.
     Un primo “equivoco” (per cui è così difficile comprendere che la svolta pratica “ha a che fare con l’identità disciplinare della filosofia e non solo con la sua dimensione contenutistico-descrittiva, non è un’estensione rispetto al territorio solito della filosofia tradizionale, ma una conversione”, p. 14)  può essere evitato concentrando l’attenzione sul semantema “pratica” non in quanto aggettivo, bensì in quanto sostantivo: dunque comprendendo che “la filosofia è diventata la sua pratica” (p. 19).  O, meno icasticamente (ma anche meno cripticamente), cogliendo un dato di fatto oggettivo: la scoperta, o la riscoperta, del “carattere primario della dimensione processuale” della filosofia “o, se si vuole, lo sciogliersi della filosofia nel concreto filosofare, nel suo venire esercitata” (ivi). Una svolta, si potrebbe chiosare in margine, che - se duratura - contribuirebbe a prevenire la follia da cui sono affetti, secondo Chesterton, alcuni filosofi: i matti perdono la ragione, questi  perdono tutto il resto  tranne la ragione.
    Nel terzo capitolo   Miccione propone una sorta di dimostrazione e contrario: se non fosse reale la svolta pratica della filosofia, avrebbe ragione Manlio Sgalambro nel diagnosticare illegibile e intollerabile la filosofia contemporanea: essa, infatti, se giudicata con gli antichi parametri della filosofia tradizionale, produttrice di opere monumentali destinate a sfidare i secoli, appare piuttosto condannata a un turn over di mode effimere; a immettere, come nel “mercato informatico” p. 21) , novità filosofiche  che “diventano obsolete ben prima di smettere di funzionare” (p. 22).  Sgalambro constata, con disprezzo, ciò che comunque il filosofo odierno non può far finta di non vedere: che l’epoca delle dottrine durevoli  - nell’intenzione dell’autore, se non nei fatti – ha ceduto il posto al “mito della infinita ricerca” (p. 25).
      Una prospettiva sulla svolta pratica non meno interessante, ma questa volta simpatetica nei confronti della cosa in esame, viene  - secondo Miccione – dal pensiero di Maria Zambrano. La quale resta fedele all’idea che la filosofia sia una costruzione in progress di testi scritti, ma rivendica quella “tradizione apocrifa della filosofia” (la citazione dalla Zamprano è a p. 28) che viene solitamente trascurata dagli storici, unilateralmente concentrati sul genere letterario del “trattato”, costituita da “una serie di generi alternativi, apparentemente laterali e d’occasione: meditazioni, dialoghi, epistole, consolazioni e anche le più ‘zambraniane’ confessioni e guide” (p. 29).  Nonostante la pensatrice spagnola rimanga “all’interno dell’universo di carta” (p. 32), mostra di anticipare la imminente “svolta pratica” intuendone e valorizzandone una caratteristica: “la reattività, valore connesso al vedere come opzioni artificiosamente create le condizioni con cui per secoli si è amministrato il pensiero: la stanza chiusa, la decisione data al filosofo dei tempi e dei modi del pensiero, la scelta degli argomenti, il sottrarsi alla domanda ” (ivi).
          Da questi rapidi accenni si potrebbe evincere che la novità non consiste nel cambio dell’ordine del giorno della discussione, ma in un nuovo modo di discutere (nuovo quanto ai luoghi, alle regole e soprattutto agli scopi): non in una ennesima “filosofia- dell’attività”, ma in una “filosofia-come attività”; non  in “una minuta attenzione della filosofia nei confronti della quotidianità”, quanto nella sperimentazione della “quotidianità come luogo entro cui si svolge la filosofia” (p. 34). E’ una questione di atmosfera, di Geist (che permea anche pensatori distanti dal pragmatismo americano, dalla “wittgensteiniana proposta di vedere la filosofia come attività e non come dottrina” o dalla “idea di porre il processo del pensiero al posto del pensato di cui parla Gentile”, p. 37): si potrebbe dire che “il pensatore viva e pensi ‘esposto’ a una filosofia ormai processualmente disposta indipendentemente dalle sue teorie in merito. Se è onesto [si potrebbe aggiungere: e se non è intontito dalla frequentazione esclusiva di biblioteche e archivi] se ne accorge  e, dopo, può anche permettersi di sputarvi  ‘teoreticamente’  sopra” (ivi).
    Questa svolta porta dritto, e senza scampo, a esiti nichilistico-relativistici? Miccione spiega perché la risposta sia negativa e perché “l’incontro-scontro dialogico (che è magna pars della filosofia dopo la svolta) […]  possa cogliersi come eterno gioco, ironia e conversazione quanto che esso sia dia come feroce, per quanto eterna,lotta per la verità” (p. 38). Ciò a cui invece si arriva necessariamente è  la “apertura alla totalità dei parlanti senza il vincolo della distinzione tra filosofi e non filosofi”: da intendere, però, non come licenza caotica, dal momento che, “se tutti possono, a livelli diversi di complessità […] accedere all’esercizio di una disciplina chiamata filosofia, allora ognuno può parlare per sé”, ma “la legittimità la si conquista sul campo onorando il logos nel discorso, non a priori” (p. 40).
      “Spostato il baricentro dell’interpretazione della filosofia dalla produzione di oggetti filosofici (siano essi i sistemi o i libri) alla mera attività” (p. 42) cadono vecchi – e difficilmente solubili – problemi: come distinguere il “vero” filosofo dal “cultore”, autore o destinatario di “divulgazione”?  Entrambi infatti sono dediti alla medesima attività (filosofare), anche se ovviamente non con la stessa profondità né con il medesimo rigore: la questione diventa analoga all’esercizio di uno sport, nel cui ambito “  alla domanda ‘cosa fai domani?’ rivolta al magazziniere-difensore dell’azienda alla vigilia della semifinale del suo torneo e al centravanti della squadra partecipante a un mondiale alla vigilia dell’inizio, entrambi possono rispondere a pieno titolo: ‘ho la partita, gioco da titolare’. Difficilmente qualcuno potrà seriamente eccepire che essi facciano due cose diverse” (ivi).
         Ma se la svolta pratica della filosofia, prima che oggetto di speranza o di timore, è oggetto di constatazione, va riconosciuto che, “attraverso l’osservazione, senza un criterio che ordini, quel che si coglie della svolta pratica è più che altro una grande confusione” (pp. 47- 48). Come trovare, però, in pratica, questo criterio? La difficoltà di trovare un metro in base al quale separare  nettamente il filosofico dal non-filosofico fa parte del gioco: è un indizio eloquente che abbiamo abbandonato la prospettiva antica, in cui la filosofia veniva  pensata “come dottrina (teoretica) o come strutturata successione di dottrine (storia)”, e siamo entrati nella nuova ottica della filosofia “diventata essenzialmente un’attività” (p. 53).  Proprio se questo “passaggio” è compiuto, bisogna interrogare   - più che la letteratura filosofica (magari alla ricerca, in un profluvio crescente di pubblicazioni cartacee ed elettroniche, del “tomo ponderoso” capace di compendiare e immortalare una lunga carriera docente)  – il vasto mondo delle esperienze e delle sperimentazioni pratiche.
           In questa ricerca un possibile filo conduttore orientativo potrebbe essere: è filosofico ciò che è riconducibile al nucleo generativo della filosofia, all’incontro dia-logico fra due soggetti concreti. Infatti, “se al centro vi è l’attività filosofica, la dimensione intersoggettiva naturale sarà il dialogare, così come, se al centro vi è la filosofia come oggetto o prodotto, sarà insegnare. Se la filosofia è attività, l’incontro tra le persone sarà l’occasione principe di pensiero e anche il luogo principale dove il pensiero accade, se è dottrina esso sarà solo una minaccia al filo dei pensieri” (p. 60).   Corollario, e riprova, di questa fedeltà al gesto originario dello scambio fra umani, indipendentemente da titoli di studio e posizioni sociali, è la cura per la “comprensibilità linguistica”: “mentre in quella cosa che è la filosofia il linguaggio tecnico iventa importante per costruire cose più complesse, in quell’attività che è il filosofare saper essere chiari significa giocare con il più alto numero di persone possibili, cioè esporsi all’occasione di pensiero in modo integrale” (p. 61).
    Importante sottolineatura: l’incontro fra due umani è fondativo del filosofare in quanto (a prescindere dagli aspetti relazionali, amicali, affettivi, psicologici, sociali etc.) entrambi si espongono alla vita “per pensare ciò che essa ci propone/impone” (p. 64). Infatti il “gesto originario” è simboleggiato da “Socrate che esce per via e non sa quali casi gli verranno incontro” (p. 66) lungo il giorno. Un gesto così denso di energia e così poci prevedibile da riuscire preoccupante per chiunque, dopo Socrate, abbia avuto il proposito di fare filosofia; una sorta di esplosione nucleare così espansiva da imporre, nei successori, una qualche forma di recinzione cautelativa: “in realtà” – osserva Mario Perniola citato con approvazione da Miccione – “c’è nella sessualità come nella filosofia un eccesso che è loro essenziale, che le costituisce in quanto tali, che […] li rende simili alla schiavitù e alla dipendenza dlla droga. Proprio a causa del loro eccesso, la sessualità corre verso il matrimonio e la filosofia corre verso l’università” (p. 67). Addirittura, secondo l’autore, si potrebbe provare a riscrivere la storia della filosofia occidentale come una storia di successive perimetrazioni: Platone che costruisce le mura protettive dell’Accademia, Aristotele del Liceo, Epicuro del Giardino…Di questa storia come “storia dell’  enclosure della filosofia come bene comune”, che ha l’università contemporanea come punto di arrivo (ma anche di crisi), una tappa significativa è “la costruzione medievale del filosofo professore” (p. 73).
    L’attuale svolta pratica vuole, dunque, invertire la tendenza e, senza sterili polemiche, problematizzare “la burocratizzazione dell’insegnamento della filosofia” di cui ha parlato Hadot (qui citato a p. 73).  Non è una svolta da osannare acriticamente e neppure da vituperare altrettanto aprioristicamente: fuori dai recinti scolastici, universitari, accademici ci sono vantaggi e svantaggi. Compito che Miccione si attribuisce è di avvertire che “ ci sia ancora un fuori” (p. 90): che, oltre l’aula, c’è la piazza; oltre le comunità esoteriche, c’è la strada; oltre i testi canonici, c’è l’oralità. Dato che  “l’incontro con la filosofia in quanto pratica”  è “il cuore di questo libro” (p. 103), quest’ultimo non poteva che chiudersi con l’invito a mantenere – anche nei confronti della svolta pratica – un atteggiamento filosofico. Cioè una distanza critica. Ricucire il nesso fra la vita e il pensiero  - che in altri termini significa “lasciarsi del tutto andare alla vita senza costruire limiti previi” (p. 119) – il filosofo può farlo solo se riesce, con una vigilanza costante sul suo stesso filosofare, a impedire “la coincidenza assoluta tra vita e pensiero” (ivi). Insomma: “se il filosofo ha da essere asceta, potrà esserlo ma proprio come qualcuno sarà imprenditore o generale o detective in un gioco da tavolo” (p. 120).
    Ma quante sono le probabilità che i filosofi del XXI secolo diventino asceti? Il libro di Miccione, così  arguto e così dotto, poggia su un dato che a me pare molto più opinabile di quanto non ritenga l’autore: che sia in atto una “svolta pratica” dalla filosofia come produzione di opere e di chiose di opere al filosofare come modo di essere e di rapportarsi al mondo.  Ciò che constato è che il povero Hadot, come prima di lui Foucault, è diventato un sottoparagrafo della storia della filosofia occidentale: su entrambi schiere di professorini aspiranti a cattedre più prestigiose si esercitano come medici legali su cadaveri ancora tiepidi.  Sloterdijk , “ormai vera e propria ‘capitale’ moderna dl ripensamento dell’ascetismo contemporaneo così come Hadot lo è per quello antico” (p. 112) , l’ho conosciuto solo grazie alle ammirate citazione di Miccione: avrà più fortuna dei suoi immediati predecessori?  Eugen Drewermann ha scritto una volta: “un genio (…) si logora i nervi per la causa in cui crede e che incarna, si rovina la salute, trascorre notti insonni, dal punto di vista esteriore fallisce”  e  “tre, quattro decenni più tardi ecco storici dell’arte, della  letteratura, della chiesa, buttarsi sulla sua vita e sulla sua opere spiegare con acribia e diligenza perché Baudelaire, Hoelderlin, Goya, Van Gogh, Savonarola, Giordano Bruno, Giovanna D’Arco siano stati grandi personaggi. Neanche un briciolo dei veri conflitti e delle vere lotte di questi ‘grandi’ trova accesso nella vita personale di questi critici. (…) Ed è proprio questo falsificare la vita facendola diventare dottrina della vita, questo ribaltare ogni vitalità spirituale facendola diventare erudizione della vita spirituale, questo pervertire l’autentico sapere religioso in scienza della religione” (Il vangelo di Marco. Immagini di redenzione, Brescia, Queriniana, 1995, pp. 333 – 334) che si ripete monotonamente nella storia. Temo che altrettanto avverrà delle esistenze di quanti, come Miccione, stanno provando a vivere ciò che pensano e a pensare ciò che vivono. Come meravigliarsene, d’altronde? Non è successo a Socrate e a Bruno, a Feuerbach  e a Nietzsche? Nietzsche ha espresso il timore che, dopo morto, i preti lo avrebbero canonizzato. A giudicare dall’accoglienza grata che ha ricevuto dalla teologia del Novecento, aveva ragione; ma avrebbe potuto estendere i suoi timori ai colleghi  filosofi che, infatti,  ne hanno sterilizzato l’impatto dinamitardo riducendolo a interessante oggetto di analisi filologica.

        Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
     

1 commento:

armando caccamo ha detto...

Illuminante commento critico .... obbligherei la lettura del commento e del libro cui questo fa riferimento a molti "colti" filosofi e cattedratici .... sarebbe per loro una boccata d'aria fresca!