Vent’anni
fa, il 15 settembre 1993, Cosa Nostra assassinò padre Pino Puglisi. Il
25 maggio scorso la Chiesa cattolica lo ha proclamato beato per la sua
opera di evangelizzazione e promozione umana, riconoscendone il martirio
per mano della mafia “in odium fidei”. Di recente due libri hanno
riproposto in modo diverso, ma egualmente efficace, la vita e l’opera di
3P. Il primo, Beato tra i mafiosi (Di Girolamo, Trapani, 2013, €15) è un saggio a più voci, in cui i tre autori, Francesco Palazzo, Augusto Cavadi, Rosaria Cascio,
ci offrono insieme un’inedita ricostruzione storico-sociale di
Brancaccio, il difficile quartiere in cui 3P fu assassinato, alcune
riflessioni filosofico/teologiche sulle caratteristiche di “un prete (quasi) normale” e una sintesi del senso e del valore pastorale del metodo “puglisiano”.
Francesco Palazzo ci tiene a sfatare un luogo comune: che a dare
fastidio alla mafia sia stata soprattutto l’azione di padre Pino a
favore dei bambini. Mentre, secondo le testimonianze raccolte e la
convincente analisi dell’autore, padre Puglisi, forse lasciato un po’
troppo solo dalla Chiesa ufficiale, sarebbe stato ucciso perché operava “in maniera sistematica e insistente con gli adulti nel territorio, fuori dalla sagrestia”.
Adulti del territorio per i quali venne fondato un centro di
accoglienza e di promozione umana, il centro “Padre nostro”, che
avvicinava le famiglie dei carcerati e aiutava le persone a essere
protagoniste della loro vita e delle loro scelte. Gesto dirompente, in
un quartiere in cui la mafia aveva il controllo del territorio.
Ma
che tipo di prete era 3P? Sebbene egli stesso abbia detto chiaramente
di non sentirsi un prete antimafia, Augusto Cavadi sottolinea che non
per questo padre Pino è stato neutrale o equidistante, perchè “chi si alimenta alla fonte del Vangelo (…) e della costituzione italiana (…) non ha bisogno di etichette estrinseche”. Cavadi accosta poi la sua figura a quella di mons. Oscar Romero, il vescovo assassinato a san Salvador. Entrambi: “quando
vedono con i propri occhi il volto demoniaco del dominio violento e
prevaricatore, non arretrano. Capiscono che, pur essendo in primis
responsabili dell’evangelizzazione, non possono limitarsi ad essa:
devono prepararla, accompagnarla e seguirla con un’azione di promozione
sociale”. Ecco allora il metodo “puglisiano” delineato da Rosaria
Cascio: testimoniare il Vangelo dentro la storia, non considerare la
parrocchia solo come dispensatrice di sacramenti, aprire la comunità
ecclesiale alle attese e ai bisogni del territorio, con un’attenzione
particolare per gli ultimi.
Ritratto a tutto tondo dell’uomo e del sacerdote, quello di Francesco Deliziosi in Pino Puglisi, il prete che fece tremare la mafia con un sorriso
(BUR, Milano, 2013, €11): libro che, sulla base di una documentazione
ampia e approfondita, fa emergere la figura di un prete di cui non si
può non essere affascinati. Grazie anche al profondo e consolidato
legame di amicizia tra l’autore e padre Puglisi, che lo ebbe come
allievo al liceo dove insegnava, Deliziosi ci offre una monografia
davvero ricca e attraente, che dopo aver esplorato gli anni della sua
formazione, ci racconta le sue vicende di parroco a Godrano, piccolo
centro della provincia a 750 metri, dove 3P scherzosamente esclamava : “Sono il prete più altolocato della diocesi”. A Godrano padre Pino, chiamato “u parrinu chi cavusi”, riesce a riconciliare famiglie che si odiavano per una faida vecchia e sanguinosa.
Il libro percorre poi gli anni trascorsi a Palermo dove, prima di
accettare per spirito di servizio di fare il parroco a Brancaccio, padre
Puglisi sarà direttore del centro diocesano vocazioni e si occuperà di
formazione e assistenza spirituale a 360° per giovani e non. Un prete
con “un’attitudine straordinaria all’empatia (…) che ti dava la calda
certezza di guardare solo te e di parlare solo con te, tu e lui soli
nell’universo. Se ci incontreremo col Signore (…) io credo che avremo la
stessa sensazione”.
Un prete che, secondo l’ideale di Karl Rahner, fu capace di sopportare “la pesante oscurità dell’esistenza assieme ai fratelli” e di avere il coraggio “di far sua la non-forza della Chiesa”. Un prete che Cosa nostra decide di uccidere perché, come dirà il mafioso Bagarella “predica tutta ‘arnata (tutto il giorno)”, nella “costruzione di un’alternativa che svuotava dall’interno lo spazio della mafiosità”. Un prete “palermitano di Brancaccio, obbediente, povero, buono, coraggioso, impossibile da infangare, impossibile da zittire”. Un
prete esile e minuto che, per non perdere tempo, mangiava … nelle
scatolette e che, col suo sorriso e la sua carica umana e spirituale
ridava la voglia di vivere anche a persone duramente provate dalla vita.
Un prete che rispondeva a chi gli diceva di non sfidare i mafiosi: “Il massimo che possono farmi è ammazzarmi. E allora?”, mostrando la sintonia con le parole pronunciate nel 2000 da Giovanni Paolo II: “Il
credente che abbia preso in seria considerazione la propria vocazione
cristiana (…) non può escludere la prospettiva del martirio dal proprio
orizzonte di vita.” Un prete che, in un colloquio con un amico
ferroviere, gli ricordava che i santi non sono figure reali,
irraggiungibili, ma persone che hanno vissuto in coerenza con Cristo.
E allora, da queste due ottime rivisitazioni della sua vita e del
suo impegno, un’unica raccomandazione: non trasformare padre Puglisi in
un’icona da venerare, ma raccoglierne il testimone. Iniziando a vivere
un cristianesimo incarnato che mostri con i fatti che mafia e Vangelo
sono incompatibili. Che in quest’opera, difficile e per nulla scontata,
il sorriso di 3P, “che fece tremare la mafia”, ci accompagni e
ci illumini.
Maria D’Asaro (“Centonove” n.34 del 13.9.2013)
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