“Centonove” 27.9.2013
MAFIOSI MATTI DA LEGARE?
I mafiosi sono pazzi? Solitamente
non si direbbe. Mostrano lucidità progettuale, autocontrollo delle emozioni,
determinazione nell’esecuzione degli ordini ricevuti. Tuttavia ci si potrebbe
chiedere se questa ‘normalità’ non nasconda una follia radicale,
trascendentale: la follia di chi rinunzia a un’esistenza sobria, ma serena, per
una vita di lusso e di dominio (talora, in latitanza o in galera, solo di
dominio) perennemente esposta alla vendetta di criminali concorrenti.
La cronaca registra anche casi di follia al quadrato:
mafiosi che, in aggravio della loro follia basica, escono davvero fuori di
testa, per le ragioni più disparate (non diversamente da ciò che capita a cittadini
onesti che non reggono a crisi esistenziali, disgrazie fisiche o malanni biologici). In queste evenienze, però, Cosa nostra scarica
l’adepto: come spiegano Corrado de Rosa e Laura Galesi nel loro intrigante Mafia
da legare (Sperling & Kupfer, pp. 268, euro 18,00), “un uomo d’onore
non può permettersi il lusso di sembrare inaffidabile e di incarnare i luoghi
comuni della pazzia”. Eppure la storia delle mafie è costellate di cartelle
cliniche attestanti disturbi mentali, anoressie, fobie, depressioni
gravissime…Sono al 99% casi di criminali che, restando nell’orbita della
follia-di-fondo (“un mondo intriso di paranoia”), esibiscono un altro di genere di meta-follia: la
follia simulata. Ma se è vero che “non c’è grande processo di mafia in cui
qualcuno, prima o poi, non abbia tirato fuori la pazzia per se stesso o per
qualcun altro come attenuante o come strumento per delegittimare dichiarazioni
sconvenienti”, si impone un interrogativo: sarebbe possibile questa serie
impressionante di imbrogli -
talora vani talora riusciti – senza la complicità della categoria dei medici?
La domanda è retorica; purtroppo evidente la risposta.
Franchetti, Mineo, Santino e – dopo di loro – molti altri hanno focalizzato il proprium
della mafia: chi vi entra o fa parte della borghesia o vuole farne parte. Le
chiacchiere sulla mafia come anti-Stato, come rifiuto della modernizzazione
capitalistica in nome di nostalgiche epoche feudali, restano chiacchiere: i
mafiosi vogliono entrare nello Stato, in questo Stato, e ci vogliono
entrare da classe dirigente. Chi è già dentro la stanza dei bottoni è costretto
a scegliere: o esce (su una bara onorata dalle autorità civili, religiose e
militari, nel caso non si sia dimesso
spontaneamente ritornando a vita privata) o accetta di farsi complice
(la trattativa tra mafia e Stato è strutturale nella storia italiana dal 1861 a
oggi; ogni tanto cogliamo le punte dell’iceberg). Esempi del primo
genere: il dottor
Sebastiano Bosio, falsamente “delegittimato post mortem” , e il dottor Paolo Giaccone, trucidato sotto
l’Istituto di medicina legale del Policlinico di Palermo, reo di non aver
voluto redigere “una falsa perizia dattiloscopica che scagionasse un
pericolosissimo killer mafioso”. Esempi del secondo tipo: Michele Navarra
(Corleone), Antonino Cinà e Giuseppe Guttadauro (Palermo). Talora sono
professionisti originariamente
onesti che vengono corrotti per denaro: optano fra i quattrocento euro lordi di una perizia giudiziaria e i
“dieci volte tanto” offerti, per una contro-perizia, dai clan. I vantaggi degli
imputati si frastagliano su tre livelli: “proscioglimento” (se un imputato è
riconosciuto incapace di intendere e di volere nel momento del reato);
“sospensione dei processi” (se è riconosciuto incapace di seguire ciò che
accade durante il dibattimento); “uscita dal carcere” (se è riconosciuto
affetto da malattie incompatibili con il regime carcerario).
Una delle tante lezioni che si
ricavano dal libro a quattro mani di De Rosa e Galesi: il vero nodo della lotta alla mafia non è che i
mafiosi facciano i mafiosi (questo è, in un certo senso, il loro ruolo: in ogni
contesto sociale i criminali giocano a fare i criminali), bensì che troppi
cittadini, pur non essendo organici a Cosa Nostra, trovano mille ragioni
(interesse, paura, ignoranza, sete di potere…) per farsene complici. Per alcune
di queste ragioni non c’è rimedio (ci sono e ci saranno sempre avvocati,
medici, chimici, bancari…che vorranno scalare le gerarchie sociali servendosi
di ignobili scorciatoie), ma per altre va approntato: non si può pretendere che
un singolo cittadino, senza la solidarietà della propria categoria
professionale e delle istituzioni statali, si opponga alle minacce mafiose.
Eroi per caso, martiri civili, ne abbiamo avuto abbastanza: è arrivato il tempo
in cui non dovrebbe essere eccezionalmente pericoloso rifiutarsi di firmare una
diagnosi falsa o una prescrizione infondata. Non è solo il sistema giudiziario a essere sotto scacco, ma
la stessa conivivenza democratica del Paese.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
1 commento:
Interessante il libro e ottima la tua recensione. Grazie.
Maria D'Asaro
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