"Bollettino della Società Filosofica Italiana"
n. 207 settembre-dicembre 2012, pp. 107-109
LA SVOLTA PRATICA DELLA
FILOSOFIA CONTEMPORANEA
Un libro
strano, quest’ultimo di Davide Miccione (Ascetica
da tavolo. Pensare dopo la svolta pratica, Ipoc, Milano 2012, pp. 165, euro
18,00). Strano, intrigante, originale. Un po’ come certi cibi siciliani
agrodolci: infatti lo si gusta con piacere immediato perché scorre su un
registro finemente ironico ma, a fine di ogni capitolo, si intuisce che il
nocciolo teoretico più consistente è sfuggito. Era di un sapore tutt’altro. Questa
struttura palinsestica è evidente sin dal primo capitoletto in cui si spiega
che si tratta di un libro di metafilosofia per negare, simultaneamente, che la
metafilosofia esista: mentre, infatti, ha senso distinguere l’epistemologia
della fisica dalla fisica o l’epistemologia della sociologia dalla sociologia,
un’epistemologia della filosofia è già filosofia. Se si preferisce: è una
filosofia della filosofia, dunque in ogni caso di filosofia si tratta.
Quale che lo si voglia nominare, questo punto di vista “meta” è
necessario per riflettere su un mutamento di “paradigma” (p. 21) che, secondo l’autore, si sta
realizzando nel mondo dei filosofi. Mutamento di paradigma, non di metodologie
o di contenuti o di interessi: non l’imporsi di un nuovo sistema, di un nuovo
maestro, di una nuova corrente, bensì il graduale – ma inesorabile – di un
nuovo modo di concepire l’attività filosofica. Ognuno resta a fare ciò che ha
sempre fatto (il logico, l’eticista, il metafisico…), ma lo fa con un altro esprit: per usare un vocabolo caro a
Miccione, con un altro “stile”. Sulla falsariga di altri passaggi nella storia
del pensiero, ma con ben altra radicalità, si può parlare di “svolta pratica”:
un fenomeno talmente vasto che sarebbe riduttivo attribuirne la paternità a un
determinato gruppo di pensatori (fossero pure i numerosi filosofi che, nel
mondo, si riconoscono - per quanto
criticamente – in alcune suggestioni della Philophische
Praxis proposta da Gerd Achenbach). Condivido, per esperienza personale, la
difficoltà di discutere questa metamorfosi persino con studiosi solitamente acuti
nelle analisi storiografiche: ti chiedono con insistenza nomi e cognomi, titoli
di opere, tematiche preferenziali a cui far risalire l’origine di questa
“svolta”, quasi incapaci di focalizzare qualcosa che accade non “nella comunità filosofica internazionale”, ma “alla comunità filosofica internazionale” (p. 14). Per tentare di
vincere questa resistenza (logica, non psicologica) ho pure scritto una lunga
lettera a Mario Trombino ch è diventata un e-book (La filosofia ci farà liberi?
Un’interpretazione delle pratiche filosofiche, Bibienne, Fosdinovo 2011):
ma non saprei valutare i risultati finali dell’operazione. Non è facile
spiegare che, dopo una leggera scossa di terremoto, la città è - nel suo insieme – esattamente la
stessa di prima e pure totalmente differente.
Un primo “equivoco” (per cui è così
difficile comprendere che la svolta pratica “ha a che fare con l’identità
disciplinare della filosofia e non solo con la sua dimensione
contenutistico-descrittiva, non è un’estensione rispetto al territorio solito
della filosofia tradizionale, ma una conversione”, p. 14) può essere evitato concentrando
l’attenzione sul semantema “pratica” non in quanto aggettivo, bensì in quanto
sostantivo: dunque comprendendo che “la filosofia è diventata la sua pratica”
(p. 19). O, meno icasticamente (ma
anche meno cripticamente), cogliendo un dato di fatto oggettivo: la scoperta, o
la riscoperta, del “carattere primario della dimensione processuale” della
filosofia “o, se si vuole, lo sciogliersi della filosofia nel concreto filosofare,
nel suo venire esercitata” (ivi). Una svolta, si potrebbe chiosare in margine,
che - se duratura - contribuirebbe a prevenire la follia da cui sono affetti,
secondo Chesterton, alcuni filosofi: i matti perdono la ragione, questi perdono tutto il resto tranne
la ragione.
Nel terzo capitolo
Miccione propone una sorta di dimostrazione e contrario: se non fosse reale la svolta pratica della filosofia,
avrebbe ragione Manlio Sgalambro nel diagnosticare illegibile e intollerabile
la filosofia contemporanea: essa, infatti, se giudicata con gli antichi
parametri della filosofia tradizionale, produttrice di opere monumentali
destinate a sfidare i secoli, appare piuttosto condannata a un turn over di mode effimere; a
immettere, come nel “mercato informatico” p. 21) , novità filosofiche che “diventano obsolete ben prima di
smettere di funzionare” (p. 22).
Sgalambro constata, con disprezzo, ciò che comunque il filosofo odierno
non può far finta di non vedere: che l’epoca delle dottrine durevoli - nell’intenzione dell’autore, se non
nei fatti – ha ceduto il posto al “mito della infinita ricerca” (p. 25).
Una prospettiva sulla svolta pratica
non meno interessante, ma questa volta simpatetica nei confronti della cosa in esame, viene - secondo Miccione – dal pensiero di
Maria Zambrano. La quale resta fedele all’idea che la filosofia sia una
costruzione in progress di testi
scritti, ma rivendica quella “tradizione apocrifa della filosofia” (la
citazione dalla Zamprano è a p. 28) che viene solitamente trascurata dagli
storici, unilateralmente concentrati sul genere letterario del “trattato”,
costituita da “una serie di generi alternativi, apparentemente laterali e
d’occasione: meditazioni, dialoghi, epistole, consolazioni e anche le più
‘zambraniane’ confessioni e guide” (p. 29). Nonostante la pensatrice spagnola rimanga “all’interno
dell’universo di carta” (p. 32), mostra di anticipare la imminente “svolta
pratica” intuendone e valorizzandone una caratteristica: “la reattività, valore connesso al vedere
come opzioni artificiosamente create le condizioni con cui per secoli si è
amministrato il pensiero: la stanza chiusa, la decisione data al filosofo dei
tempi e dei modi del pensiero, la scelta degli argomenti, il sottrarsi alla domanda ” (ivi).
Da questi
rapidi accenni si potrebbe evincere che la novità non consiste nel cambio
dell’ordine del giorno della discussione, ma in un nuovo modo di discutere (nuovo
quanto ai luoghi, alle regole e soprattutto agli scopi): non in una ennesima
“filosofia- dell’attività”, ma in una “filosofia-come attività”; non in “una minuta attenzione della
filosofia nei confronti della quotidianità”, quanto nella sperimentazione della
“quotidianità come luogo entro cui si svolge la filosofia” (p. 34). E’ una
questione di atmosfera, di Geist (che
permea anche pensatori distanti dal pragmatismo americano, dalla
“wittgensteiniana proposta di vedere la filosofia come attività e non come
dottrina” o dalla “idea di porre il processo del pensiero al posto del pensato
di cui parla Gentile”, p. 37): si potrebbe dire che “il pensatore viva e pensi
‘esposto’ a una filosofia ormai processualmente disposta indipendentemente
dalle sue teorie in merito. Se è onesto [si potrebbe aggiungere: e se non è
intontito dalla frequentazione esclusiva di biblioteche e archivi] se ne
accorge e, dopo, può anche
permettersi di sputarvi
‘teoreticamente’ sopra”
(ivi).
Questa svolta porta dritto, e senza scampo, a esiti
nichilistico-relativistici? Miccione spiega perché la risposta sia negativa e
perché “l’incontro-scontro dialogico (che è magna
pars della filosofia dopo la svolta) […] possa cogliersi come eterno gioco, ironia e conversazione
quanto che esso sia dia come feroce, per quanto eterna,lotta per la verità” (p.
38). Ciò a cui invece si arriva necessariamente è la “apertura alla totalità dei parlanti senza il vincolo
della distinzione tra filosofi e non filosofi”: da intendere, però, non come
licenza caotica, dal momento che, “se tutti possono, a livelli diversi di complessità
[…] accedere all’esercizio di una disciplina chiamata filosofia, allora ognuno
può parlare per sé”, ma “la legittimità la si conquista sul campo onorando il logos nel discorso, non a priori” (p.
40).
“Spostato il baricentro
dell’interpretazione della filosofia dalla produzione di oggetti filosofici
(siano essi i sistemi o i libri) alla mera attività” (p. 42) cadono vecchi – e
difficilmente solubili – problemi: come distinguere il “vero” filosofo dal
“cultore”, autore o destinatario di “divulgazione”? Entrambi infatti sono dediti alla medesima attività
(filosofare), anche se ovviamente non con la stessa profondità né con il
medesimo rigore: la questione diventa analoga all’esercizio di uno sport, nel
cui ambito “ alla domanda ‘cosa
fai domani?’ rivolta al magazziniere-difensore dell’azienda alla vigilia della
semifinale del suo torneo e al centravanti della squadra partecipante a un
mondiale alla vigilia dell’inizio, entrambi possono rispondere a pieno titolo:
‘ho la partita, gioco da titolare’. Difficilmente qualcuno potrà seriamente
eccepire che essi facciano due cose diverse” (ivi).
Ma se la svolta
pratica della filosofia, prima che oggetto di speranza o di timore, è oggetto
di constatazione, va riconosciuto che, “attraverso l’osservazione, senza un
criterio che ordini, quel che si coglie della svolta pratica è più che altro
una grande confusione” (pp. 47- 48). Come trovare, però, in pratica, questo criterio? La difficoltà di trovare un metro in
base al quale separare nettamente il
filosofico dal non-filosofico fa parte del gioco: è un indizio eloquente che
abbiamo abbandonato la prospettiva antica, in cui la filosofia veniva pensata “come dottrina (teoretica) o
come strutturata successione di dottrine (storia)”, e siamo entrati nella nuova
ottica della filosofia “diventata essenzialmente
un’attività” (p. 53). Proprio se
questo “passaggio” è compiuto, bisogna interrogare - più che la letteratura filosofica (magari alla
ricerca, in un profluvio crescente di pubblicazioni cartacee ed elettroniche,
del “tomo ponderoso” capace di compendiare e immortalare una lunga carriera
docente) – il vasto mondo delle
esperienze e delle sperimentazioni pratiche.
In
questa ricerca un possibile filo conduttore orientativo potrebbe essere: è
filosofico ciò che è riconducibile al nucleo generativo della filosofia,
all’incontro dia-logico fra due soggetti concreti. Infatti, “se al centro vi è l’attività filosofica, la dimensione
intersoggettiva naturale sarà il dialogare, così come, se al centro vi è la filosofia come oggetto o prodotto, sarà insegnare. Se la
filosofia è attività, l’incontro tra le persone sarà l’occasione principe di
pensiero e anche il luogo principale dove il pensiero accade, se è dottrina
esso sarà solo una minaccia al filo dei pensieri” (p. 60). Corollario, e riprova, di questa
fedeltà al gesto originario dello scambio fra umani, indipendentemente da
titoli di studio e posizioni sociali, è la cura per la “comprensibilità
linguistica”: “mentre in quella cosa
che è la filosofia il linguaggio tecnico iventa importante per costruire cose più complesse, in quell’attività che è il filosofare saper
essere chiari significa giocare con il più alto numero di persone possibili,
cioè esporsi all’occasione di pensiero in modo integrale” (p. 61).
Importante sottolineatura: l’incontro fra due umani è fondativo del
filosofare in quanto (a prescindere dagli aspetti relazionali, amicali,
affettivi, psicologici, sociali etc.) entrambi si espongono alla vita “per pensare ciò che essa ci propone/impone”
(p. 64). Infatti il “gesto originario” è simboleggiato da “Socrate che esce per
via e non sa quali casi gli verranno incontro” (p. 66) lungo il giorno. Un
gesto così denso di energia e così poci prevedibile da riuscire preoccupante
per chiunque, dopo Socrate, abbia avuto il proposito di fare filosofia; una
sorta di esplosione nucleare così espansiva da imporre, nei successori, una
qualche forma di recinzione cautelativa: “in realtà” – osserva Mario Perniola
citato con approvazione da Miccione – “c’è nella sessualità come nella
filosofia un eccesso che è loro essenziale, che le costituisce in quanto tali,
che […] li rende simili alla schiavitù e alla dipendenza dlla droga. Proprio a
causa del loro eccesso, la sessualità corre verso il matrimonio e la filosofia
corre verso l’università” (p. 67). Addirittura, secondo l’autore, si potrebbe
provare a riscrivere la storia della filosofia occidentale come una storia di
successive perimetrazioni: Platone che costruisce le mura protettive dell’Accademia,
Aristotele del Liceo, Epicuro del Giardino…Di questa storia come “storia
dell’ enclosure della filosofia come bene comune”, che ha l’università
contemporanea come punto di arrivo (ma anche di crisi), una tappa significativa
è “la costruzione medievale del filosofo professore” (p. 73).
L’attuale svolta pratica vuole, dunque, invertire la tendenza e, senza
sterili polemiche, problematizzare “la burocratizzazione dell’insegnamento
della filosofia” di cui ha parlato Hadot (qui citato a p. 73). Non è una svolta da osannare
acriticamente e neppure da vituperare altrettanto aprioristicamente: fuori dai recinti scolastici,
universitari, accademici ci sono vantaggi e svantaggi. Compito che Miccione si
attribuisce è di avvertire che “ ci sia ancora un fuori” (p. 90): che, oltre
l’aula, c’è la piazza; oltre le comunità esoteriche, c’è la strada; oltre i
testi canonici, c’è l’oralità. Dato che
“l’incontro con la filosofia in quanto pratica” è “il cuore di questo libro” (p. 103),
quest’ultimo non poteva che chiudersi con l’invito a mantenere – anche nei
confronti della svolta pratica – un atteggiamento filosofico. Cioè una distanza
critica. Ricucire il nesso fra la vita e il pensiero - che in altri termini significa “lasciarsi del tutto andare
alla vita senza costruire limiti previi” (p. 119) – il filosofo può farlo solo
se riesce, con una vigilanza costante sul suo stesso filosofare, a impedire “la
coincidenza assoluta tra vita e pensiero” (ivi). Insomma: “se il filosofo ha da
essere asceta, potrà esserlo ma proprio come qualcuno sarà imprenditore o
generale o detective in un gioco da tavolo” (p. 120).
Ma quante sono le probabilità che i filosofi del
XXI secolo diventino asceti? Il libro di Miccione, così arguto e così dotto, poggia su un dato
che a me pare molto più opinabile di quanto non ritenga l’autore: che sia in
atto una “svolta pratica” dalla filosofia come produzione di opere e di chiose
di opere al filosofare come modo di essere e di rapportarsi al mondo. Ciò che constato è che il povero Hadot,
come prima di lui Foucault, è diventato un sottoparagrafo della storia della
filosofia occidentale: su entrambi schiere di professorini aspiranti a cattedre
più prestigiose si esercitano come medici legali su cadaveri ancora tiepidi. Sloterdijk , “ormai vera e propria
‘capitale’ moderna dl ripensamento dell’ascetismo contemporaneo così come Hadot
lo è per quello antico” (p. 112) , l’ho conosciuto solo grazie alle ammirate
citazione di Miccione: avrà più fortuna dei suoi immediati predecessori? Eugen Drewermann ha scritto una volta:
“un genio (…) si logora i nervi per la causa in cui crede e che incarna, si
rovina la salute, trascorre notti insonni, dal punto di vista esteriore
fallisce” e “tre, quattro decenni più tardi ecco
storici dell’arte, della letteratura,
della chiesa, buttarsi sulla sua vita e sulla sua opere spiegare con acribia e
diligenza perché Baudelaire, Hoelderlin, Goya, Van Gogh, Savonarola, Giordano
Bruno, Giovanna D’Arco siano stati grandi personaggi. Neanche un briciolo dei
veri conflitti e delle vere lotte di questi ‘grandi’ trova accesso nella vita
personale di questi critici. (…) Ed è proprio questo falsificare la vita
facendola diventare dottrina della vita, questo ribaltare ogni vitalità
spirituale facendola diventare erudizione della vita spirituale, questo
pervertire l’autentico sapere religioso in scienza della religione” (Il vangelo di Marco. Immagini di redenzione,
Brescia, Queriniana, 1995, pp. 333 – 334) che si ripete monotonamente nella
storia. Temo che altrettanto avverrà delle esistenze di quanti, come Miccione,
stanno provando a vivere ciò che pensano e a pensare ciò che vivono. Come
meravigliarsene, d’altronde? Non è successo a Socrate e a Bruno, a
Feuerbach e a Nietzsche? Nietzsche
ha espresso il timore che, dopo morto, i preti lo avrebbero canonizzato. A
giudicare dall’accoglienza grata che ha ricevuto dalla teologia del Novecento,
aveva ragione; ma avrebbe potuto estendere i suoi timori ai colleghi filosofi che, infatti, ne hanno sterilizzato l’impatto
dinamitardo riducendolo a interessante oggetto di analisi filologica.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com