“Centonove” 5.7.2013
LOMBARDO, UN MORTO IN TRIBUNALE
Una giornalista, Daniela
Pellicanò, è attualmente sotto processo a Messina per una denuncia querela
avanzata dai magistrati Gian Carlo
Caselli e Gioacchino Natoli. Tra i testi convocati il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu. L’accusa
si basa sul libro della giornalista calabrese "Uno sparo in caserma. Il suicidio del Maresciallo Lombardo",
del 2006, nelle cui pagine Caselli e Natoli hanno trovato dei passaggi
diffamatori nei loro confronti. Come qualcuno ricorderà, il 4 marzo del 1995 un colpo
di pistola suicida interruppe, inopinatamente, la vita del maresciallo dei Ros
Antonino Lombardo. Era l' atto conclusivo di una serie inquietante di episodi
che segnano uno dei momenti più oscuri della storia dell' antimafia. Infatti: il
23 febbraio, durante la trasmissione di Santoro "Tempo reale",
Leoluca Orlando e Manlio Mele denunziano il «comportamento equivoco di qualche
esponente dell' Arma dei Carabinieri» che, nel recente passato, aveva avuto
responsabilità a Terrasini; il 24 febbraio il maresciallo Lombardo (oggetto,
insieme a un suo superiore gerarchico, della plateale denunzia da parte dei due
politici) presenta querela; il 25 i superiori esonerano Lombardo dalla missione
negli Stati Uniti dove avrebbe dovuto prelevare il boss Badalamenti; poche ore
dopo, lo stesso giorno, Badalamenti comunica di non voler più riconsegnarsi
alle autorità italiane; nella notte fra il 25 e il 26 febbraio viene
incaprettato Francesco Brugnano (confidente di Lombardo); il 2 marzo Lombardo
parte per Milano come caposcorta del collaboratore di giustizia Cangemi; il 4,
in mattinata, torna in Sicilia, incontra alcuni superiori che lo avvertono
della possibilità molto concreta di indagini della magistratura sulla sua
correttezza professionale. Agli stessi interlocutori confida la sua amarezza,
poi scrive una breve lettera di addio e si uccide nella sua auto in caserma. Su
questi fatti si sono aperte inchieste, svolte indagini, celebrati processi: la
questione, dal punto di vista giudiziario, è chiusa. Che nei familiari, negli
amici, in fasce dell' opinione pubblica interessata a queste vicende siciliane
restasse l' ansia di saperne di più, è comprensibile: ed è proprio per rispondere a questa legittima esigenza
che Daniela Pellicanò ha preso in mano tutte le carte disponibili ed ha redatto
la sua accurata ricostruzione giornalistica. Il risultato resta imbracato in
una contraddizione: da una parte si afferma e si ribadisce che «il caso è
aperto», che gli enigmi da sciogliere restano ancora troppi; dall' altra l'
autrice mostra di essere arrivata a delle certezze sulle ragioni del suicidio
di Lombardo, costretto intenzionalmente ad autoeliminarsi dalla scena per
evitare che Badalamenti potesse tornare in Italia. Poiché, in questa ipotesi,
sarebbero individuabili alcuni responsabili - diretti o indiretti - del piano,
alla prima contraddizione se ne intreccia una seconda (certamente non meno
grave). Da una parte, infatti, il libro sembra scritto per difendere la memoria
di un investigatore dal fango con cui è stata imbrattata da accuse fondate su
dati di fatto opinabili o, per lo meno, superficiali. Ma, dall' altra, non
sembra che l' autrice usi lo stesso doveroso garantismo nei confronti di altri
protagonisti della vicenda, per esempio di tre magistrati della Procura di
Palermo accusati - rispettivamente - di aver ostacolato, il primo, il rientro
di Badalamenti (in quanto il vecchio boss di Cinisi avrebbe potuto contestare
l' impianto accusatorio contro Andreotti poggiante sulle dichiarazioni di
Buscetta) e di aver propalato, gli altri due, la notizia di alcune accuse
contro Lombardo formulate dal «pentito» Salvatore Palazzolo. Forse, da parte
dell’autrice, sarebbe stato più
saggio - davanti a una congerie di dati tanto contrastanti – evitare di prendere
posizione così netta: anche perché, in casi del genere, difendere la causa di
qualcuno comporta ledere gravemente l' onorabilità di altri. Perché non
limitarsi a riportare, insieme alle accuse contro Lombardo, le convinte
testimonianze di stima e di fiducia di quanti gli erano a vario titolo vicini
(soprattutto all' interno dell' Arma dei Carabinieri)? In democrazia, criticare nel merito le
sentenze è legittimo. Meno legittimo sparare giudizi sulle intenzioni che
avrebbero ispirato i magistrati in questa o quell’altra decisione: questo è uno
sport che sarebbe più opportuno riservare agli imputati (condannati già in
primo rado) che, usando denaro di dubbia provenienza, si dedicano a comprare
complici e supporter in giro per
l’Italia.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
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