“REPUBBLICA- PALERMO”
SABATO 13 LUGLIO 2013
CHIESA E MAFIA CINQUANT’ANNI DOPO CIACULLI
La
lupara ad personam non è mai stata
l’unica tecnica adottata dalla mafia per imporre il suo violento dominio
territoriale. Già il 26 dicembre del 1920
quattro persone incappucciate, rimaste sconosciute, lanciarono una bomba
all'interno della sezione socialista di Casteltermini, nell’agrigentino,
provocando, oltre a numerosi feriti, la morte del segretario locale e di
quattro contadini iscritti al partito. Altri attentati dinamitardi di matrice
mafiosa (la strage di Partinico con due vittime e la strage di Canicattì con 4
morti e circa 20 feriti) furono consumati nei mesi successivi alla strage di
Portella della Ginestra del 1 maggio 1947 (in cui si contarono, come è noto, 11
morti e 56 feriti ). Probabilmente però la strage di Ciaculli, quartiere periferico di
Palermo, del 30
giugno 1963 ebbe una caratteristica sinistramente originale: l’Alfa Romeo Giulietta imbottita di tritolo fu la
prima strage ‘interna’ a Cosa
nostra. Preparata da mafiosi con l’intento, fallito, di far fuori altri
mafiosi.
Forse per questa caratteristica di
faida tra criminali, l’opinione pubblica non sembrò sconvolta dalla notizia.
Ancora una volta prevalse fra la gente il ritornello, illusoriamente
consolatorio, del “tanto s’ammazzano fra loro”. Eppure si trattava, oggettivamente, di un evento
sconvolgente che anticipava la successiva strategia stragista degli anni
Novanta. A saltare in aria, infatti, non furono – come nei piani – altri
mafiosi, ma sette servitori dello Stato: avvertiti da una telefonata anonima
accorsero artificieri e uomini delle Forze dell’ordine che constatarono
l’innocuità di una bombola che faceva capolino dall’interno della vettura. Si
trattava purtroppo di una trappola. Infatti l’esplosione avvenne dopo, quando
uno dei militi intervenuti aprì il portabagagli per vedere cosa contenesse: a
rimanere dilaniati il tenente dei carabinieri Mario
Malausa, i marescialli Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, gli appuntati
Eugenio Altomare e Marino Fardelli, il maresciallo dell'esercito Pasquale
Nuccio, il soldato Giorgio Ciacci.
Erano gli anni in cui alla stragrande
maggioranza della popolazione la parola ‘mafia’ si fermava in gola per la
paura: solo “L’Ora”, Danilo Dolci e qualche altro “comunista” più o meno
incosciente riusivano a pronunziarla. Gli ambienti religiosi, “moderati” e
perbenisti, poi, erano troppo impegnati a discettare sulle lacrime delle
Madonne in vena di apparizioni per abbassarsi a occuparsi di assassini, bombe e
vittime civili…In campo cristiano,
unica voce a spezzare l’assordante silenzio, il pastore Pietro Valdo
Panascia che dovette vincere le resistenze persino all’interno della sua
piccola chiesa valdese. Di tasca propria, infatti, fece stampare e affiggere un Manifesto (“Iniziativa per il rispetto
della vita umana”) per le vie della città
in cui si appellava, , “a
quanti hanno la responsabilità della vita civile e religiosa del nostro popolo,
onde siano prese delle opportune iniziative per prevenire ogni forma di
delitto, adoperandosi con ogni mezzo alla formazione di una più elevata
coscienza morale e cristiana, richiamando tutti ad un più alto senso di sacro
rispetto della vita e alla osservanza della Legge di Dio che ordina di non
uccidere”.
Ma l’appello cade nel vuoto. Il cardinale
Ernesto Ruffini, a capo della chiesa cristiana più numerosa, tace. Su input dello stesso papa Paolo VI, la Segreteria di Stato vaticana scrive
all’arcivescovo di Palermo per segnalare l’iniziativa della comunità valdese e
per suggerire “un’azione positiva e sistematica per dissociare la mentalità della
così detta ‘mafia’ da quella religiosa”, ma il “principe della Chiesa
cattolica” risponde quasi piccato: “Mi sorprende alquanto che si possa supporre
che la mentalità della così detta mafia sia associata a quella religiosa”. Il
modo in cui la chiesa cattolica si dedica all’educazione morale dei
cittadini “non è eccezionale, come
l’intervento del Pastore Pier Valdo Panascia, ma continuo”. La disistima di Ruffini, capo di una
diocesi di 700.000 fedeli, nei confronti di Panascia, pastore di una comunità
di 700 membri, è palpabile: egli stesso aveva da anni promulgato un decreto per
cui chi fosse entrato, anche solo per curiosità, dentro il tempio valdese di
via Spezio sarebbe stato ipso facto
scomunicato!
Due ecclesiologie erano di fronte:
una concezione della chiesa come istituzione di potere che ritiene l’alleanza
con la Democrazia cristiana e la lotta al comunismo una priorità assoluta
rispetto ai fenomeni mafiosi, ridotti al rango di criminalità comune come se ne
trova in tutto il pianeta; e, dall’altra parte, una concezione della chiesa
come minoranza morale, coscienza critica di una società ormai assuefatta alla
violenza da non avere più neppure la capacità di indignarsi.
Sul momento l’ecclesiologia ruffiniana risultò
vincente, ma i decenni successivi rimetteranno in gioco molti (perversi)
equilibri. I frutti dell’azione pastorale sistematica di Ruffini si
snocciolarono anno dopo anno: una lunga lista di cattolici di indubbia
complicità criminale (da Lima e Ciancimino sino a Cuffaro e Antinoro).
Parallelamente il seme piantato da Panascia è andato crescendo: il Centro
diaconale della Noce (che ha voluto organizzare in questi giorni un convegno
per celebrare il cinquantesimo anniversario del “Manifesto” valdese) è
diventato uno dei punti di riferimento più significativi della città,
soprattutto per la cura dei minori in difficoltà e per l’accoglienza materiale
e spirituale degli immigrati dall’Africa.
Anche da parte cattolica, in questi
decenni, si sono fatti enormi passi in avanti, dei quali la beatificazione per
martirio di don Pino Puglisi ha recentemente segnato una tappa significativa.
Ma cattolici e protestanti, come più in generale credenti e ‘laici’, non
possono rifugiarsi sotto nessuna icona celebrativa: l’unico modo decente di
fare memoria dei pionieri dell’antimafia è di perseverare, se possibile
accentuandolo, nell’impegno per una Sicilia meno corrotta e meno ingiusta.
Impegno di analisi teorica, di progettualità politica, di tensione etica:
insomma qualcosa di più costoso delle generiche dichiarazioni d’intenti di cui
abbiamo ormai le tasche piene.
Augusto Cavadi