“Madrugada”
Giugno 2013
Le vittorie di Pirro del
riformismo
Non so se vedo bene, ma pare che nell’esistenza
dei singoli come nella storia delle società si passi - solitamente – dalla voglia di rivoluzione giovanile alla
rassegnata conservazione senile. E
nel mezzo? Nella piena maturità, quando sono tramontate le illusioni ma
resiste qualche brandello di
speranza, si opta per il
riformismo. Il secolo XX ha costituito, in proposito, una lezione
tragicamente eloquente: il comunismo sovietico (ferocemente averso ad ogni
ipotesi riformista) non è arrivato neppure a sé stesso, fermandosi alla fase
transitoria del socialismo “reale”, ma – secondo lo storico marxista Eric
Hobsbawm - è servito, fungendo da spauracchio, a costringere i governi dei
Paesi liberaldemocratici a dare un volto “sociale” allo Stato (Welfare State). Insomma, ha giovato ai
proletari del mondo più dove non si è insediato che dove ha raggiunto
l’egemonia. Così, in questo primo scorcio di XXI secolo, è sempre più difficile
imbattersi in progetti rigidamente statalisti o altrettanto rigidamente
liberisti: a parole il riformismo
socialdemocratico (o, se si preferisce, liberalsocialista) è deriso da
destra e da sinistra, ma nei fatti è praticato sia in Stati ufficialmente
social-comunisti (Cina e, in parte, Cuba) sia in Stati ufficialmente
liberal-capitalisti (come gli USA e, in parte, la Gran Bretagna).
Tutto bene, allora? Possiamo guardare con
fiducia al futuro del pianeta, gloriosamente in marcia verso un saggio
equilibrio fra tradizione e rinnovamento, fra le ragioni della conservazione e
l’aspirazione al nuovo? Le cose starebbero così se il successo del riformismo
non equivalesse, per troppi versi, a una vittoria di Pirro. Tutti riformisti,
nessun riformista. Già la parola “riforma” contiene un’ambiguità semantica
ineliminabile. Essa, infatti, significa “mutamento della forma”: ma ognuno,
poi, intende a modo suo sia “mutamento” che “forma”.
Ri-formare
significa dare a una struttura organizzativa, istituzionale (come uno Stato o
una Chiesa) una forma diversa
rispetto alla attuale: ma “diversa” può significare inedita, interamente nuova,
e può significare originaria,
antica e perduta. C’è una bella differenza tra ri-formare lo Stato in senso
progressivo, con le opportunità e
i rischi della sperimentazione, e ri-formarlo in senso restaurativo, con
la volontà di restituirlo a una fase storica precedente (che in Italia potrebbe
essere il 1948 per alcuni, il 1922 per altri, il 1861 per altri ancora).
Il quadro si complica ulteriormente a
seconda del significato secondo cui ogni attore politico intende la categoria
“forma”. Nella storia del pensiero occidentale essa infatti oscilla fra due
accezioni profondamente diverse: la forma come configurazione esteriore, apparenza fenomenica, e la forma come essenza intima, struttura ontologica. E’
nel primo senso che la intendiamo quando affermiamo che “Non è una questione di
forma, ma di sostanza”; mentre, nel secondo senso, meno comune ma più fedele al
linguaggio filosofico, la forma -
lungi dall’identificarsi con la pura formalità – è un altro nome per dire la
sostanza di un ente o di una questione.
E’ facile intuire, a questo punto, che
l’etichetta “riformismo” copre progetti socio-politici assai differenti. C’è
chi accetta le ri-forme settoriali per preservare intatta – proprio attraverso
il maquillage della forma esteriore -
la forma costitutiva dell’assetto sociale, la struttura
portante dello status quo; e c’è chi
intende le ri-forme settoriali come tappe graduali di un processo mirante a
mutare la forma della società nel
senso radicale, la sua logica immanente e propulsiva. Martin Lutero, formato al
vocabolario della Scolastica medievale, sapeva cosa metteva in gioco quando,
sotto la bandiera della “Riforma”, lottava per una rifondazione della Chiesa,
per un ripristino del suo DNA costitutivo; per le stesse ragioni (ma da un’ottica opposta) Papa Giovanni
XXIII, non immemore del significato impegnativo del semantema “riforma”, ha
preferito adottare il vocabolo, molto meno scardinante, di “aggiornamento” per
designare l’obiettivo del Concilio ecumnico Vaticano II.
Per questo intreccio di significati,
“riformismo” oggi rischia di denominare molte posizioni e il contrario di esse.
L’uso retorico del vocabolo serve ai partiti per pescare voti a destra e a
manca: a destra, per rassicurare che non si vuole operare nessuna rivoluzione
massimalista; a sinistra, per rassicurare che non si vogliono mantenere intatti
privilegi, ingiustizie e sperequazioni. Perciò occorre, come quando si acquista
la marmellata al supermercato, fare lo sforzo di andare a leggere gli
ingredienti in caratteri minuscoli: vuoi le riforme? Anch’io. Non sono così
stanco da arrendermi alla condizione attuale del mondo né, d’altra parte, così
infantile da pretendere “tutto e subito”. Al “niente e mai” dei conservatori soddisfatti
preferisco di gran lunga il “tutto a poco a poco” dei realisti insoddisfatti. Ma prima di affiancarmi alla
tua impresa, ho l’esigenza che mi spieghi quali
riforme vuoi: perché non ogni cambiamento, settoriale o complessivo, è positivo solo perché è cambiamento
(così, solo per un esempio non del tutto casuale, non ogni riforma
costituzionale potrebbe trovarmi favorevole: e più si presentasse come
radicale, più susciterebbe la mia vigilanza critica). L’inganno è dietro l’angolo, è raro che il più oscuro
reazionario si presenti come contro-riformista: preferirà dichiararsi
riformista al quadrato, propugnatore della riforma delle riforme precedenti. Insomma,
il riformismo vale quanto vale lo scenario generale di società verso cui
procede passo dopo passo: un abisso separa il riformismo temporeggiatore dei
moderati (che, secondo l’ultracitata massima di Giuseppe Tomasi di Lampedusa,
vogliono cambiare tutto con l’intento che non cambi nulla) dal riformismo
strategico di chi vuole mutare l’identità stessa di un sistema per portarlo,
secondo le preferenze soggettive, molto avanti o molto indietro nel percorso
della storia.
Le disavventure dell’ideale riformista hanno indotto Graziella Priulla,
in uno dei suoi testi più recenti, a proporre una sorta di moratoria nei discorsi pubblici e nella
stessa prassi politica: “In un Paese dove i controlli sono sostanzialmente
affidati alla sola azione penale, sarebbe logico attuare il controllismo prima
del riformismo. A che servirà l’ennesima miniriforma inapplicata? Sul lavoro,
sulla pubblica amministrazione, sulla finanza ne abbiamo già viste tante” (Riprendiamoci le parole. Il linguaggio della
politica è un bene pubblico, Di Girolamo, Trapani 2012, p. 98). Parafrasando Pascal, insomma, si
potrebbe dire che le buone riforme ci sono state tutte: si tratta adesso di
metterle in pratica.
Augusto Cavadi
(www.augustocavadi.com)
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