Alle pp. 267 - 279 il mio contributo dal titolo Uno sguardo teologico sulla follia dei "sani", di cui riprendo qui di seguito la struttura ed alcuni passaggi salienti. Buona lettura (del testo integrale) !
Uno sguardo teologico sulla follia dei ‘sani’
Chi
psicanalizza i ‘normali’ ?
La psicanalisi non si lascia ridurre ad una sola concezione, ad una sola
scuola, ad una sola metodica: dunque le battute, più o meno divertenti, alla
Karl Kraus (“La psicoanalisi è quella malattia di cui crede d’essere la
terapia”), restano motti di spirito. Tuttavia chi ha studiato Freud, ne ha
condiviso molte scoperte e l’ha amato come uno dei grandi benefattori
dell’umanità, ha il diritto di
riflettere criticamente sulla psicoanalisi nel suo complesso senza
necessariamente entrare nei dettagli delle controversie interne fra le diverse
correnti. E’ quanto ha fatto negli anni Cinquanta del secolo scorso Erich Fromm
con numerosi libri meritatamente rimasti ‘attuali’ (almeno agli occhi di chi sa
apprezzare il valore intrinseco di uno scritto senza lasciarsi condizionare
dalla giostra delle mode e senza inseguire le ultime novità come se già in
quanto tali meritassero attenzione).
In Psicanalisi
della società contemporanea Erich Fromm sostiene, essenzialmente, questo:
lo psicanalista aiuta il paziente a rientrare nella norma statistica, cioè ad
abbandonare opinioni e comportamenti eccentrici per comportarsi in maniera socialmente accettabile. Bene. Ma
questa operazione presuppone che il deviante sia malato e i conformi siano
sani; in altri termini, che la trasgressione sia patologica e il modo comune di
vivere della società costituisca il metro della fisiologia. Questa
presupposizione è legittima? Davvero la maggioranza statistica, in quanto
maggioranza, può costituire la norma di comportamento della minoranza, solo
perché minoranza? Per rispondere
bisognerebbe sottoporre a verifica la sanità mentale della stragrande
maggioranza dei cittadini (occidentali): realizzare, insomma, una “psicanalisi
della società contemporanea”. Infattti “come c’è una folie à deux, così c’è una folie
à millions. Il fatto che milioni di persone condividano gli stessi vizi non
fa di questi vizi delle virtù; il fatto che essi condividano tanti errori non
fa di questi errori delle verità, e il fatto che milioni di persone condividano
una stessa forma di malattia mentale non fa che questa gente sia sana”.
Chi può assolvere questo compito?
Chi può mettere in crisi l’idea che “la patologia possa esser definita soltanto
nei termini di un mancato adattamento individuale al tipo di vita” dominante in
una società e arrivare a ipotizzare una “patologia della normalità”? (...).
In questa continua verifica del confine fra sanità e follia la
psicanalisi - e più in generale le
arti psicoterapeutiche e psichiatriche – non possono essere lasciate sole. Per
individuare “criteri di giudizio universalmente accettati, validi per giudicare
il genere umano come tale, e secondo i quali si possa giudicare la salute di
una qualsiasi società” - insomma per pervenire a delineare i tratti essenziali di un “umanesimo normativo” che trascenda “le
posizioni del relativismo sociologico”, tutte le altre discipline (a cominciare
dalla filosofia) sono in diritto e in dovere di cooperare, senza escludere la
voce dei poeti, dei registi cinematografici, dei più saggi fra i cittadini
senza titoli scientifici ma con una lunga e meditata esperienza di vita.
Un apporto
teologico?
C’è anche spazio per il contributo della teologia? A prima vista si
risponderebbe di no. La presenza
stessa dei teologi sul pianeta Terra non è forse, sin dai tempi di Erasmo da
Rotterdam, una prova lampante della sovranità della Pazzia sulla storia
dell’umanità? Le teologie
che conosciamo – eccezion fatta per qualche teologia ‘negativa’ basata sulla
convinzione che di Dio sappiamo ciò che non
è piuttosto che ciò che è
- non sono forse perfette manifestazioni di delirio psichiatrico
e, a loro volta, concausa di deliri
patologici? In genere è proprio così. Ma non sempre né necessariamente. Proverò a correre il rischio di essere
annoverato fra i casi di follia più gravi
- i casi in cui il malato di mente non sospetta minimamente di esserlo e
ritiene che invece tutto il resto del mondo lo sia – accennando ad alcuni
apporti che la teologia (un certo modo documentato e sobrio, radicato nella
tradizione ma creativo, di far teologia) potrebbe apportare a una psicanalisi
della società contemporanea. (...)
Dalla diagnosi
alle (possibili) terapie
Ad uno sguardo complessivo sull’Occidente post-bellico, già nel 1950
Erich Fromm aveva formulato una diagnosi di massima: “Abbiamo creato cose
meravigliose, ma non siamo riusciti a fare dell’uomo una creatura degna di
possederle. La nostra vita non si svolge sotto il segno della fraternità, della
pace spirituale, anzi è un vero e proprio caos dello spirito, uno stato di
smarrimento troppo simile a una forma di pazzia: non la pazzia isterica del
medioevo, ma piuttosto una specie di schizofrenia, in cui il contatto con la realtà intima va perduto, e si
verifica una frattura tra i pensieri e gli affetti”.
Alcuni anni dopo Fromm riprende e articola
più dettagliatamente la diagnosi e nel 1955 si chiede quali siano i principali effetti psicologici della
follia lucida e sistemica dell’uomo contemporaneo “alienato dai suoi simili e dalla
natura” e, perciò, da “una vita che abbia un significato”. Sinteticamente:
a)
“l’uomo regredisce ad un
orientamento recettivo e mercantile e cessa di esser produttivo”;
b)
“perde il senso dell’io e
diventa dipendente dall’approvazione degli altri” (sforzandosi di essere
conformista senza liberarsi, per altro, dell’insicurezza);
c)
“insoddisfatto, annoiato e
ansioso”, “impiega la maggior parte delle sue energie nel tentativo di
compensare, o meglio di nascondere, questa ansietà”;
d)
“la sua intelligenza è eccellente,
la sua ragione peggiora”;
e)
grazie ai suoi crescenti
“poteri tecnici”, mette “seriamente in pericolo l’esistenza della civiltà e
persino del genere umano”.
Sulla base di questa diagnosi, Fromm indica delle possibili “vie della
salute”. Egli lo fa in chiave filosofica e socio-psicologica, ma le sue
indicazioni possono essere rafforzate, integrate, da un punto di vista di
teologia ‘laica’. Vediamo come.
1.
Per un’antropologia
moderatamente ottimista
Una prima indicazione la potremmo definire di
carattere antropologico. Una società
basata sulla convinzione che l’essere umano sia radicalmente perverso, incapace
geneticamente di aspirare “alla salute mentale, alla felicità, all’armonia,
all’amore, alla produttività”,
è una società condannata a restare nell’alienazione.
Già qui la teologia ha le sue colpe e i suoi
compiti da assolvere. Tra le colpe più gravi la teologia cristiana ha la
lettura agostiniana dei passi paolini sul peccato di Adamo: in parole povere,
l’invenzione del “peccato originale” (di cui la Bibbia non sa nulla e sul
quale, invece, si è impiantata la catechesi e l’omiletica per almeno quindici
secoli di cristianesimo, dal V secolo a oggi). Tra i compiti in positivo della
teologia l’affermazione, in antitesi all’Original
Sinn, dell’Original Blessing: in
antitesi al ‘peccato originale’, della ‘benedizione originale’. (...)
2.
Per un personalismo fraterno
Una seconda indicazione è di carattere etico-sociale: una società
“equilibrata”, che goda di “salute mentale”, è “innanzitutto una società in cui
nessun uomo sia un mezzo per i fini di un altro, ma sia sempre e senza
eccezione un fine in se stesso; dunque, dove nessuno sia usato, e neppure usi
se stsesso per fini che non siano quelli dello sviluppo dei poteri umani; dove
l’uomo sia il centro e dove tutte le attività economiche e politiche siano
subordinate al fine del suo sviluppo”.
Ad una meditazione attenta, questo secondo punto si rivela legato strettamente
al precedente: se il ‘peccato’ mi capita addosso come una meteora, non posso
far altro che subirlo e portarne con rassegnazione le conseguenze nella mia
carne. Ma se l’uomo nasce all’interno di un cosmo essenzialmente positivo, in
evoluzione creatrice (come amava esprimersi Henry Bergson), il ‘peccato’ è una
scelta libera dell’essere umano che opta per sé contro gli altri, che rifiuta
come Caino di farsi ‘custode’ del proprio fratello Abele, che in preda all’invidia
e alla gelosia - più o meno
fondate – arriva a farsi carnefice dei propri simili…E se il ‘peccato’ è frutto
di scelte umane errate, altre scelte umane (personali e collettive, informali o
progettate, occasionali o sistemiche) possono capovolgerlo in rispetto e cura
dell’altro, in ‘salvezza’. (...)
3. Per una teologia
del lavoro
Una terza
indicazione è di carattere etico-esistenziale:
“una società equilibrata promuove l’attività produttiva di ognuno nel suo
lavoro, stimola lo sviluppo della ragione e rende l’uomo capace di dare espressione
ai suoi intimi bisogni nell’arte e nei rituali collettivi”. Le parole non sono, neppure qui,
gettate a caso. E sono soprattutto quattro: lavoro,
ragione, arte, rituali.
Sul ‘lavoro’ la
teologia può recuperare la memoria della tradizione monacale benedettina che ha
sapientemente trovato la via media fra la demonizzazione aristocratica della
fatica produttiva e la sua idolatria capitalistica. (...)
4. Per
una teologia della ragione
‘Ragione’, nel vocabolario
di Fromm, si oppone a – o per lo meno si distingue da – ‘intelligenza’: questa,
infatti, è agilità nell’ambito dei mezzi, quella penetrazione nell’ambito dei
fini ultimi. La teologia, ondeggiante nei secoli fra razionalismo prometeico e
scetticismo anti-intellettualistico, potrebbe contribuire ad una retta
valutazione del ‘logos’ umano: che non è il Logos divino, ma che pure ne
riflette e ne riproduce analogicamente la luce. (...)
5. Per
una teologia della poesia
Ma l’essere umano non vive di solo pane né di solo
pensiero: egli/ella è anche sentimento, fantasia, fabbricazione di simboli,
poesia. Chi può dei teologi ha contribuito a mortificare questa dimensione
utopica, sognatrice, dell’esistenza terrena? E chi, più dei teologi dovrebbe
invece custodirla e alimentarla dal momento che una fonte primaria (anche se
non esclusiva) della teologia è quella ”foresta di simboli” che chiamiamo
Bibbia? (...)
6. Per una
teologia della religione
Pane, pensiero, poesia: ma anche legami affettivi. Il
campo specifico dei “rituali collettivi” non è forse la religione? E, come
riflessione critica sulla religione, la teologia ha il compito di segnalarne
con severità i rischi quanto di salvaguardarne le potenzialità sociali. Per secoli
abbiamo identificato ‘fede’ e ‘religione’: provvidenzialmente la teologia del
Novecento, a partire da alcuni giganti del mondo protestante come Barth e
Bonhoeffer, ci ha insegnato a distinguerle. La fede è infatti un atteggiamento interiore, anzi intimo, di apertura
al Mistero che ci precede, ci avvolge e ci attende; laddove la religione è la costruzione umana
(“troppo umana”) degli edifici materiali e concettuali mediante i quali la
nostra fede personale trova modo di esprimersi visibilmente e di collegarsi
(‘re-ligarsi’) ai gruppi sociali circostanti. (...)
Per concludere (del tutto provvisoriamente)
La teologia (cristiana) riflette sulla Bibbia,
sulla Tradizione ormai bimillenaria delle chiese, sugli apporti e sulle
obiezioni che le provengono dalle altre religioni, dalle filosofia e di tutte
le scienze: la sua metodologia e i suoi risultati non dipendono dal grado di
fiducia soggettiva che ogni teologo nutre verso le sue fonti. Similmente, un
lettore può recepire le indicazioni teologiche sia se condivide una qualche
forma di venerazione per la ‘sacralità’ delle fonti teologiche sia se le
considera esclusivamente come testi autorevoli ed eloquenti della ricerca
umana. Per i credenti in senso confessionale come per gli spiriti in ricerca (...) Bibbia e Tradizione
ecclesiale ci propongono comunque una “antropologia” altra rispetto
alla cultura disincantata e secolarizzarata dell’Occidente. Alla luce di questa
prospettiva che ci interpella, sia pure a livello di ipotesi, da ‘altrove’, possiamo gettare uno
sguardo diverso sulla nostra concretezza storica e sui nostri assetti sociali.
Uno sguardo che discerne il valido da ciò che è meno valido o, addirittura, dannoso.
E uno sguardo che potrebbe indirizzare verso traguardi di liberazione la fatica
dei nostri piedi e l’energia trasformatrice delle nostre mani.
Augusto Cavadi
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