sabato 4 maggio 2013

Uno sguardo teologico sulla follia dei "sani"

E' in libreria il volume a più voci, curato da M. Geretto e A. Martin, Teologia della follia, Mimesis, Milano 2013, pp. 371, euro 28,00.
Alle pp. 267 - 279 il mio contributo dal titolo Uno sguardo teologico sulla follia dei "sani", di cui riprendo qui di seguito la struttura ed alcuni passaggi salienti. Buona lettura (del testo integrale) !


                      Uno sguardo teologico sulla follia dei ‘sani’

Chi psicanalizza i ‘normali’ ?
    La psicanalisi non si lascia ridurre ad una sola concezione, ad una sola scuola, ad una sola metodica: dunque le battute, più o meno divertenti, alla Karl Kraus (“La psicoanalisi è quella malattia di cui crede d’essere la terapia”), restano motti di spirito. Tuttavia chi ha studiato Freud, ne ha condiviso molte scoperte e l’ha amato come uno dei grandi benefattori dell’umanità,  ha il diritto di riflettere criticamente sulla psicoanalisi nel suo complesso senza necessariamente entrare nei dettagli delle controversie interne fra le diverse correnti. E’ quanto ha fatto negli anni Cinquanta del secolo scorso Erich Fromm con numerosi libri meritatamente rimasti ‘attuali’ (almeno agli occhi di chi sa apprezzare il valore intrinseco di uno scritto senza lasciarsi condizionare dalla giostra delle mode e senza inseguire le ultime novità come se già in quanto tali meritassero attenzione).
     In Psicanalisi della società contemporanea Erich Fromm sostiene, essenzialmente, questo: lo psicanalista aiuta il paziente a rientrare nella norma statistica, cioè ad abbandonare opinioni e comportamenti eccentrici per  comportarsi in maniera socialmente accettabile. Bene. Ma questa operazione presuppone che il deviante sia malato e i conformi siano sani; in altri termini, che la trasgressione sia patologica e il modo comune di vivere della società costituisca il metro della fisiologia. Questa presupposizione è legittima? Davvero la maggioranza statistica, in quanto maggioranza, può costituire la norma di comportamento della minoranza, solo perché minoranza?  Per rispondere bisognerebbe sottoporre a verifica la sanità mentale della stragrande maggioranza dei cittadini (occidentali): realizzare, insomma, una “psicanalisi della società contemporanea”. Infattti “come c’è una folie à deux, così c’è una folie à millions. Il fatto che milioni di persone condividano gli stessi vizi non fa di questi vizi delle virtù; il fatto che essi condividano tanti errori non fa di questi errori delle verità, e il fatto che milioni di persone condividano una stessa forma di malattia mentale non fa che questa gente sia sana”.
      Chi può assolvere questo compito? Chi può mettere in crisi l’idea che “la patologia possa esser definita soltanto nei termini di un mancato adattamento individuale al tipo di vita” dominante in una società e arrivare a ipotizzare una “patologia della normalità”?  (...).
   In questa continua verifica del confine fra sanità e follia la psicanalisi  - e più in generale le arti psicoterapeutiche e psichiatriche – non possono essere lasciate sole. Per individuare “criteri di giudizio universalmente accettati, validi per giudicare il genere umano come tale, e secondo i quali si possa giudicare la salute di una qualsiasi società” - insomma per pervenire a delineare i tratti essenziali di un “umanesimo normativo” che trascenda “le posizioni del relativismo sociologico,  tutte le altre discipline (a cominciare dalla filosofia) sono in diritto e in dovere di cooperare, senza escludere la voce dei poeti, dei registi cinematografici, dei più saggi fra i cittadini senza titoli scientifici ma con una lunga e meditata esperienza di vita.

Un apporto teologico?
    C’è anche spazio per il contributo della teologia? A prima vista si risponderebbe di no.  La presenza stessa dei teologi sul pianeta Terra non è forse, sin dai tempi di Erasmo da Rotterdam, una prova lampante della sovranità della Pazzia sulla storia dell’umanità? Le teologie che conosciamo – eccezion fatta per qualche teologia ‘negativa’ basata sulla convinzione che di Dio sappiamo ciò che non è piuttosto che   ciò che è -   non sono forse perfette manifestazioni di delirio psichiatrico e, a loro volta, concausa di deliri patologici? In genere è proprio così. Ma non sempre né necessariamente.  Proverò a correre il rischio di essere annoverato fra i casi di follia più gravi  - i casi in cui il malato di mente non sospetta minimamente di esserlo e ritiene che invece tutto il resto del mondo lo sia – accennando ad alcuni apporti che la teologia (un certo modo documentato e sobrio, radicato nella tradizione ma creativo, di far teologia) potrebbe apportare a una psicanalisi della società contemporanea. (...)  
Dalla diagnosi alle (possibili) terapie
    Ad uno sguardo complessivo sull’Occidente post-bellico, già nel 1950 Erich Fromm aveva formulato una diagnosi di massima: “Abbiamo creato cose meravigliose, ma non siamo riusciti a fare dell’uomo una creatura degna di possederle. La nostra vita non si svolge sotto il segno della fraternità, della pace spirituale, anzi è un vero e proprio caos dello spirito, uno stato di smarrimento troppo simile a una forma di pazzia: non la pazzia isterica del medioevo, ma piuttosto una specie di schizofrenia, in cui il contatto  con la realtà intima va perduto, e si verifica una frattura tra i pensieri e gli affetti”.
     Alcuni anni dopo Fromm riprende e articola più dettagliatamente la diagnosi e nel 1955  si chiede quali siano i principali effetti psicologici della follia lucida e sistemica dell’uomo contemporaneo “alienato dai suoi simili e dalla natura” e, perciò, da “una vita che abbia un significato”. Sinteticamente:
a)          “l’uomo regredisce ad un orientamento recettivo e mercantile e cessa di esser produttivo”;
b)         “perde il senso dell’io e diventa dipendente dall’approvazione degli altri” (sforzandosi di essere conformista senza liberarsi, per altro, dell’insicurezza);
c)          “insoddisfatto, annoiato e ansioso”, “impiega la maggior parte delle sue energie nel tentativo di compensare, o meglio di nascondere, questa ansietà”;
d)         “la sua intelligenza è eccellente, la sua ragione peggiora”;
e)          grazie ai suoi crescenti “poteri tecnici”, mette “seriamente in pericolo l’esistenza della civiltà e persino del genere umano”.
   Sulla base di questa diagnosi, Fromm indica delle possibili “vie della salute”. Egli lo fa in chiave filosofica e socio-psicologica, ma le sue indicazioni possono essere rafforzate, integrate, da un punto di vista di teologia ‘laica’. Vediamo come.
1.    Per un’antropologia moderatamente ottimista
    Una prima indicazione la potremmo definire di carattere antropologico. Una società basata sulla convinzione che l’essere umano sia radicalmente perverso, incapace geneticamente di aspirare “alla salute mentale, alla felicità, all’armonia, all’amore, alla produttività”, è una società condannata a restare nell’alienazione.
    Già qui la teologia ha le sue colpe e i suoi compiti da assolvere. Tra le colpe più gravi la teologia cristiana ha la lettura agostiniana dei passi paolini sul peccato di Adamo: in parole povere, l’invenzione del “peccato originale” (di cui la Bibbia non sa nulla e sul quale, invece, si è impiantata la catechesi e l’omiletica per almeno quindici secoli di cristianesimo, dal V secolo a oggi). Tra i compiti in positivo della teologia l’affermazione, in antitesi all’Original Sinn, dell’Original Blessing: in antitesi al ‘peccato originale’, della ‘benedizione originale’. (...) 
2.    Per un personalismo fraterno
    Una seconda indicazione è di carattere etico-sociale: una società “equilibrata”, che goda di “salute mentale”, è “innanzitutto una società in cui nessun uomo sia un mezzo per i fini di un altro, ma sia sempre e senza eccezione un fine in se stesso; dunque, dove nessuno sia usato, e neppure usi se stsesso per fini che non siano quelli dello sviluppo dei poteri umani; dove l’uomo sia il centro e dove tutte le attività economiche e politiche siano subordinate al fine del suo sviluppo”. Ad una meditazione attenta, questo secondo punto si rivela legato strettamente al precedente: se il ‘peccato’ mi capita addosso come una meteora, non posso far altro che subirlo e portarne con rassegnazione le conseguenze nella mia carne. Ma se l’uomo nasce all’interno di un cosmo essenzialmente positivo, in evoluzione creatrice (come amava esprimersi Henry Bergson), il ‘peccato’ è una scelta libera dell’essere umano che opta per sé contro gli altri, che rifiuta come Caino di farsi ‘custode’ del proprio fratello Abele, che in preda all’invidia e alla gelosia  - più o meno fondate – arriva a farsi carnefice dei propri simili…E se il ‘peccato’ è frutto di scelte umane errate, altre scelte umane (personali e collettive, informali o progettate, occasionali o sistemiche) possono capovolgerlo in rispetto e cura dell’altro, in ‘salvezza’. (...)
     3. Per una teologia del lavoro
         Una terza indicazione è di carattere etico-esistenziale: “una società equilibrata promuove l’attività produttiva di ognuno nel suo lavoro, stimola lo sviluppo della ragione e rende l’uomo capace di dare espressione ai suoi intimi bisogni nell’arte e nei rituali collettivi”.  Le parole non sono, neppure qui, gettate a caso. E sono soprattutto quattro: lavoro, ragione, arte, rituali.
      Sul  ‘lavoro’  la teologia può recuperare la memoria della tradizione monacale benedettina che ha sapientemente trovato la via media fra la demonizzazione aristocratica della fatica produttiva e la sua idolatria capitalistica. (...)
       4. Per una teologia della ragione
‘Ragione’, nel vocabolario di Fromm, si oppone a – o per lo meno si distingue da – ‘intelligenza’: questa, infatti, è agilità nell’ambito dei mezzi, quella penetrazione nell’ambito dei fini ultimi. La teologia, ondeggiante nei secoli fra razionalismo prometeico e scetticismo anti-intellettualistico, potrebbe contribuire ad una retta valutazione del ‘logos’ umano: che non è il Logos divino, ma che pure ne riflette e ne riproduce analogicamente la luce. (...)
          5.  Per una teologia della poesia
   Ma l’essere umano non vive di solo pane né di solo pensiero: egli/ella è anche sentimento, fantasia, fabbricazione di simboli, poesia. Chi può dei teologi ha contribuito a mortificare questa dimensione utopica, sognatrice, dell’esistenza terrena? E chi, più dei teologi dovrebbe invece custodirla e alimentarla dal momento che una fonte primaria (anche se non esclusiva) della teologia è quella ”foresta di simboli” che chiamiamo Bibbia? (...)
          6. Per una teologia della religione
   Pane, pensiero, poesia: ma anche legami affettivi. Il campo specifico dei “rituali collettivi” non è forse la religione? E, come riflessione critica sulla religione, la teologia ha il compito di segnalarne con severità i rischi quanto di salvaguardarne le potenzialità sociali. Per secoli abbiamo identificato ‘fede’ e ‘religione’: provvidenzialmente la teologia del Novecento, a partire da alcuni giganti del mondo protestante come Barth e Bonhoeffer, ci ha insegnato a distinguerle. La fede è infatti un atteggiamento interiore, anzi intimo, di apertura al Mistero che ci precede, ci avvolge e ci attende; laddove la religione è la costruzione umana (“troppo umana”) degli edifici materiali e concettuali mediante i quali la nostra fede personale trova modo di esprimersi visibilmente e di collegarsi (‘re-ligarsi’) ai gruppi sociali circostanti. (...)
Per concludere (del tutto provvisoriamente)
    La teologia (cristiana) riflette sulla Bibbia, sulla Tradizione ormai bimillenaria delle chiese, sugli apporti e sulle obiezioni che le provengono dalle altre religioni, dalle filosofia e di tutte le scienze: la sua metodologia e i suoi risultati non dipendono dal grado di fiducia soggettiva che ogni teologo nutre verso le sue fonti. Similmente, un lettore può recepire le indicazioni teologiche sia se condivide una qualche forma di venerazione per la ‘sacralità’ delle fonti teologiche sia se le considera esclusivamente come testi autorevoli ed eloquenti della ricerca umana. Per i credenti in senso confessionale come per gli spiriti in ricerca (...) Bibbia e Tradizione ecclesiale ci propongono comunque una “antropologia”  altra rispetto alla cultura disincantata e secolarizzarata dell’Occidente. Alla luce di questa prospettiva che ci interpella, sia pure a livello di ipotesi,  da ‘altrove’, possiamo gettare uno sguardo diverso sulla nostra concretezza storica e sui nostri assetti sociali. Uno sguardo che discerne il valido da ciò che è meno valido o, addirittura, dannoso. E uno sguardo che potrebbe indirizzare verso traguardi di liberazione la fatica dei nostri piedi e l’energia trasformatrice delle nostre mani.

Augusto Cavadi




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