E' in commercio il "Dizionario di bioetica" sfornato dalla coraggiosa, giovane, casa editrice siciliana Villaggio Maori.
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Sono autore di tre voci: Cultura del divieto, Pietà, Superstizione.
Intanto incollo qui la prima delle tre voci (ma spero che acquistiate e leggiate l'intero dizionario).
1. Divieto (cultura del)
Non si conosce nessuna civiltà priva di tabù. Variano, invece, e di molto, gli oggetti che non si possono toccare, guardare né - in molti casi – neppure nominare: i cadaveri, certi cibi, il nome dell’Altissimo etc. Nella tradizione occidentale il divieto riguarda spesso la sfera sessuale e riproduttiva. Interessante in proposito l’etimologia di ‘profano’: ciò che non è ‘sacro’ (dunque la quasi totalità dello spazio e del tempo) è definito, più che in positivo, in negativo. Esso è il pro-fanum: ciò che sta davanti, ma per ciò stesso anche fuori, il tempio. Ciò che lega i due ambiti è identicamente ciò che li separa: il gioco del divieto reciproco. Per chi è dentro il recinto è vietato calpestare il suolo profano, proprio come a chi è fuori dal tempio è vietato violarlo (se non a precise condizioni, con precisi limiti, in occasioni determinate).
A cavallo fra il XIX e il XX secolo, Max Weber osservava per il mondo capitalistico ciò che oggi, nel XXI secolo, vale per il mondo tout court (essendo, dopo l’implosione dell’URSS e la strana conversione a metà della Cina popolare, a impronta essenzialmente capitalistica): esso è ormai ‘disincantato’, ‘secolarizzato’. E’ perciò assai logico che un mondo de-sacralizzato sia un mondo in cui si abbassi inesorabilmente il numero e la gravità dei divieti.
La filosofia, incapace di limitarsi a registrare i fatti, non può non interrogarsi sull’eclissi della cultura del divieto. E coglierne aspetti positivi quanto negativi (misurati, gli uni e gli altri, sulla base di ciò che si potrebbe chiamare, con Martha Nussbaum, “il fiorire della soggettività umana”). E’ sin troppo facile segnalare tutti i vantaggi che comporta una società segnata da pochi ‘no’: se non altro perché significa che pochi hanno l’autorità (o il prepotere) per emetterli e dunque è più facile rispettarli (se ragionevoli) o contestarli (se irragionevoli). Dalle ‘grida’ manzoniane in poi, sappiamo bene che il moltiplicarsi delle proibizioni è sintomo della loro arbitrarietà e, soprattutto, della debolezza istituzionale di chi le emana.
Meno evidenti sono, probabilmente, gli svantaggi che accompagnano gli indubbi pregi di una società in cui sia “vietato vietare”. Già a livello psico-pedagogico sappiamo quanto poco maturi un minore a cui nessuno sa, o vuole, imporre dei limiti fra lecito e illecito. Ma anche fra gli adulti il permissivismo ad oltranza può giocare brutti scherzi-boomerang. Non mi riferisco solo alle varianti del contratto sociale in cui ciascuno pone dei limiti alla propria libertà originaria (e potenzialmente illimitata) pur di fruire della autonomia di movimento all’interno della propria sfera d’azione; né soltanto alla saggezza greca, latina e medievale del “non mai troppo”, per evitare che piaceri e godimenti si capovolgano nel proprio contrario, generando nausea e stanchezza. Mi riferisco, anche, alla curiosa dialettica del desiderio per cui tutto diventa meno appetibile se nessuna barriera – nessun costo finanziario o emotivo – lo protegge dall’abuso. Aragoste e piccioni (o, per chi propende al vegetarianesimo, tartufi e fragoline di campo) risultano così apprezzati anche quando vengano serviti gratuitamente e quotidianamente? Il detto che ascoltavo in Gran Bretagna intorno al ’68 (“Questo è davvero gustoso: sarà certamente qualcosa di proibito!”) può essere letto anche in un’ottica completamente opposta rispetto all’intenzione originaria: se non fosse stato mai proibito da nessuno, e in nessun contesto, sarebbe così gustoso?
Difficile tirare le fila teoretiche (o, più modestamente, prudenziali) da queste considerazioni. A ciascuno il compito – impegnativo - di relativizzare i divieti, come gli imperativi, dominanti nel proprio ambiente sociale. Relativizzarli: non assumerli dogmaticamente come postulati assoluti, senza per questo diffidarne a priori. Ci sono tronchi che vietano ai ruscelli di scorrere vitalmente e di raggiungere fiumi e mari; ma sponde, e persino dighe, evitano ad essi di disperdersi nel terreno circostante, di affievolirsi e di scomparire. Ai ruscelli non è dato scegliere fra tronchi, sponde e dighe: devono accettare supinamente i limiti che altri (dal caso all’artificio umano) stabiliscono. Non così gli esseri umani: almeno in potenza, possono interiorizzare i divieti che irrobustiscono l’energia vitale e, proprio così rinforzati, possono affrontare a viso aperto e mani nude i divieti che reprimono le soffocano. Non esiste alcuna formula magica per distinguere gli uni dagli altri: sinora il regime democratico è il meno peggiore dei metodi sperimentati storicamente per evitare che qualcuno si ritenga detentore monopolista di tale (fantasiosa) formula magica. (A.C.)
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