“Centonove”
2.11.2012
HOBSWAM E LA SICILIA
Erich Hobsbawm è stato uno storico anomalo per almeno due ragioni: è rimasto un marxista, sia pur critico e creativo, sino alla fine dei suoi giorni; ha scritto di storia in maniera così accattivante che alcuni suoi titoli (uno per tutti: Il secolo breve) sono diventati, meritoriamente, dei best seller. Ma questo è noto e in queste settimane, in occasione della sua scomparsa, è stato ricordato da più parti. Meno nota - e mi pare da nessuno ricordata – l’attenzione di Hobswam alle vicende siciliane, soprattutto nel suo I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale (del 1959 e tradotto in italiano dall’ Einaudi nel 1966).
Una prima chiarificazione riguarda la necessità di distinguere ciò che nell’immaginario comune viene troppo spesso – e disastrosamente – confuso: il banditismo sociale con la mafia. Il banditismo è “rurale, non urbano”; si limita a società contadine “profondamente e tenacemente tradizionali, a struttura precapitalista”; è “un fenomeno prepolitico”. La mafia siciliana, al contrario, è tanto rurale quanto urbana; è originata “dalle ambizioni delle classi medie”; è organizzata secondo “vere e proprie ‘catene di comando’ e di iniziativa, forse sul modello degli ordini massonici”. A suo modo - arriva a sostenere Hobsbawm, ma la sua tesi andrebbe ulteriormente precisata – la mafia ha una strategia politica di lunga durata: i suoi alfieri, i “gabellotti”, vogliono e realizzano “il trasferimento del potere dalla classe feudale al ceto medio” (rurale prima, cittadino dopo). Infatti presto gli interessi mafiosi si concentrano su Palermo, la capitale dove “risiedevano gli avvocati (che di solito erano figli o nipoti istruiti della borghesia campagnola), che stipulavano i trasferimeni di proprietà; i funzionari e i tribunali da ‘orientare’; i commercianti che disponevano dei prodotti tradizionali, quali bestiame e grano, e dei nuovi prodotti ad alto reddito quali aranci e limoni”. La svolta decisiva si ebbe con l’avvento al potere della Sinistra storica (dunque all’interno dell’unica ideologia politica dominante, il liberalismo) nel 1876: si instaura “il vero regno della Mafia” che, grazie all’alleanza con la classe politica al governo, diventa “una grande potenza”. Con una coniugazione al passato (che non esclude un prolungamento sino al presente), lo storico inglese annota: “I suoi membri sedevano in Parlamento a Roma e affondavano le mani nella parte più ricca della greppia governativa: grandi banche, scandali nazionali”. Altro che identificazione fra banditismo e mafia, insomma! “La Mafia manteneva l’ordine pubblico con mezzi privati e, generalmente parlando, difendeva la popolazione proprio contro il banditismo”.
Almeno un secondo tema affrontato da Hobsbawm va ricordato: il movimento dei fasci siciliani (1892 – 93) che, a suo avviso, meriterebbe molta più attenzione da parte degli storici (alcuni decenni dopo gliela avrebbe dedicata Umberto Santino). Infatti, nel contesto europeo, “oltre ad essere il più esteso, è anche il primo che possa essere definito come un movimento organizzato con dei capi, un’ideologia moderna e un programma: è questo, in effetti, il primo movimento contadino che si distingua da una semplice reazione spontanea dei contadini” (come quella raccontata da Giovanni Verga nella novella Libertà). Sappiamo come è finito questo movimento di riscossa popolare in cui attese millenaristiche e teorie socialiste si intrecciarono (a Piana degli Albanesi si registrò una originale, “triplice fedeltà: al comunismo, agli albanesi e alla Chiesa greca” che si tradusse in alcune aziende agricole a conduzione cooperativistica capaci di sopravvivere alla reazione padronale e governativae sino agli anni in cui lo storico marxista scriveva). Esso resta, comunque, un possibile modello per il presente: un’esperienza collettiva di mobilitazione per ragioni economiche ma non priva di ideali morali e politici che aiuti la gente, soprattutto i ceti sociali più deboli (come oggi i disoccupati, i sotto-occupati e i precari a vita) , ad uscire da uno stato ibrido di “parassitismo e ribellione”, a convergere su un progetto complessivo minimamente coerente e a scongiurare la tentazione più ricorrente (in queste settimane di scottante attualità): “la mancanza di interesse” da parte dei cittadini, soprattutto dei proletari, “nei confronti della politica”.
Augusto Cavadi
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