Nell’ultimo numero del quadrimestrale “Filosofia e teologia”, dedicato al “Timore di Dio”, è stato ospitato un mio contributo un po’ contro-corrente.Qui riesco a riprodurlo senza le note (per fortuna vostra!).
“Filosofia e teologia”, 2012, 2
TIMOR DOMINI INITIUM STULTITIAE?
Contestare il timor Domini è solo frutto di equivoco?
In più di un’occasione mi è capitato di captare, in ambienti cattolici, la convinzione che la cultura contemporanea abbia emarginato, e poi decisamente contestato, il tema cristiano del timor Domini solo per un colossale fraintendimento. Essa, infatti, avrebbe recepito - anche per responsabilità di teologi e predicatori poco illuminati – la formula in maniera riduttiva, antropomorfica (la paura del servo davanti al Padrone assoluto, al Padrone dei padroni) e, conseguentemente, l’avrebbe rifiutata, senza preoccuparsi di toglierle la polvere dei secoli per riscoprirne il senso e la preziosità originari.
Ma questa lettura è fondata? Davvero chi rigetta come insensata (filosoficamente) e blasfema (teologicamente) la tesi del timor Domini initium sapientiae è solo vittima di equivoci?
Per rispondere dovremmo, preliminarmente, stabilire dove sia custodita l’interpretazione autentica, verace, della formula: senza questo paradigma non avremmo un riferimento rispetto al quale dichiarare inadeguate, devianti, le interpretazioni dei contestatori. Non mi pare che ci siano più di due luoghi in cui cercare l’accezione attendibile: le Scritture e la Tradizione ecclesiale (all’interno della quale, per la Chiesa cattolica, riveste un ruolo primario e decisivo il Magistero). Vediamo, dunque, anche per cenni sommari, cosa ci insegnano queste due fonti della fede ‘confessionale’.
I luoghi biblici
Iniziamo, ovviamente, dalla Bibbia dove (Salmo 111, vv. 9-10) leggiamo: “Santo e terribile è il suo nome! Initium sapientiae timor Domini : hanno il discernimento del bene tutti quelli che lo praticano. La sua lode durerà per sempre”. Uno dei passi paralleli in Proverbi 7 – 10: ”Chi corregge il beffardo ne riceve disprezzo, chi rimprovera l’empio se ne attira l’oltraggio. Non rimproverare il beffardo, altrimenti ti odierà; rimprovera il saggio ed egli ti amerà. Istruisci il saggio ed egli diventerà ancor più saggio, ammaestra il giusto e accrescerà la sua dottrina. L’inizio della sapienza è il timore del Signore, la scienza del Santo è intelligenza”.
Come intendere rettamente questi passaggi? Oserei dire che è quasi impossibile per noi che non siamo orientali e che leggiamo dopo più di due millenni. Assai arduo, infatti, nonostante la finezza degli strumenti filologici odierni, liberarci dai nostri doppi occhiali metafisici (greci) e giuridici (romani). Per decifrare di che genere di timor si tratti bisognerebbe, previamente, intuire cosa intendano gli agiografi - in quella fase del pensiero ebraico – per Dominus. Sappiamo, infatti, che lento e graduale - ma non senza arretramenti e ripartite – è stato il cammino dal politeismo all’enoteismo (esistono molti dei, ma uno solo è il Dio d’Israele) sino al monoteismo ( esiste un unico Dio di tutti i popoli). Nelle distinte fasi storiche, comunque, a parere dei competenti la fede in Jahvè “rappresenta il fondamento costante del popolo di Israele. Egli crede in lui, lo venera, spera in lui. (…) Israele si considera, quindi, il popolo liberato da Dio” . La relazione fra Dio e il suo popolo è insomma costitutiva dell’autocomprensione ebraica: ma che genere di relazione è in gioco? Non ontologica né legale, ma – con una certa approssimazione – potremmo dire storico-etica. Ogni volta che nei secoli successivi si smarrirà questo proprium biblico, si smarrirà l’identità più profonda degli ebrei. I quali, da una parte, ritengono di aver sperimentato Jahvè non “come un despota e un tiranno, bensì come un Dio della liberazione e della salvezza”; dall’altra, ritengono che “all’elezione (unilaterale) da parte di Dio deve corrispondere l’accettazione dell’obbligo da parte di Israele: non dall’orgoglio e dalla presunzione, ma soltanto dall’obbediente adempimento delle condizioni dell’alleanza Israele viene legittimato nella sua elezione a popolo di Dio” . Ecco perché G. Bernini può, opportunamente, chiosare il passo di Proverbi 1, 7 (di cui indica come paralleli Proverbi 9, 10; Deuteronomio 4,6; Giobbe 28,28; Salmo 111, 10; Siracide 1, 14) scrivendo: “Insegnamento basilare dei saggi. Nel linguaggio biblico, temere Dio significa fondamentalmente riconoscere, da parte dell’uomo, la sua condizione di creatura di fronte a Dio, suo creatore e signore. Questa nozione astratta si incarna per l’Ebreo nella conoscenza di Dio che egli aveva dalla sua tradizione religiosa (il Dio delle promesse e dell’alleanza: cf. Genesi 24, 5 – 13; Deuteronomio 26, 5 – 9) e nell’osservanza della Legge, che regolava la sua vita civile e religiosa. Temere Dio significa vivere in conformità con questa fede e questa legge. Ignorare questo rapporto con Dio vuol dire porsi fuori dalla realtà e quindi fuori di ogni sapienza” .
Fermiamoci un po’ su questa categoria biblica del ‘timore’. Per certi versi è la conferma della constatazione fenomenologica di Rudolf Otto, a giudizio del quale il sacro viene percepito, sempre e dovunque, quale “mistero affascinante e tremendo”. Da questa angolazione è una categoria comune a tutte le esperienze religiose (anche fuori dal contesto biblico) ma, per ciò stesso, esposta ai sospetti antropologici di un René Girard che vede nel sacro il prodotto della violenza e il tentativo (destinato all’insuccesso) di eliminarla dalla storia. Per altri versi essa è leggibile quale sentimento di fondo di un popolo che si avverte responsabilizzato da una particolare relazione col Dio vivente: si potrebbe dire che è leggibile dalla prospettiva non più del ‘sacro’ ma del ‘santo’. Questa seconda angolazione evidenzia la categoria del “timore di Dio” in chiave meno problematica e più originale, ma – proprio per questo - non può essere asportata dal contesto biblico e universalizzata senza rimanerne sfigurata. Una cosa è dire “Avevo con mio padre un rapporto speciale di fiducia e di confidenza: temevo con tutta l’anima di arrecargli dispiacere disattendendo un suo desiderio” e tutta un’altra cosa affermare che “Ogni figlio deve, con vivo senso di timore, adempiere ogni desiderio del padre”. Fuor di metafora: initium sapientiae non è “temere” , in senso generico, qualsiasi Dio - neppure il Dio che la ragione può eventualmente ipotizzare a partire dall’osservazione del cosmo e delle sue leggi – bensì ‘temere’, in senso specifico, questo determinato Dio a cui ritengo (realisticamente o illusoriamente) di dovere ogni beneficio sinora sperimentato dal mio popolo, dalla mia famiglia e dalla mia stessa persona. Di più: initium sapientiae può essere imparare a non temere un dio (reale o presunto) che abbia nei confronti degli esseri umani un atteggiamento di distaccata lontananza o di occhiuta sorveglianza (proprio come gli uomini e le donne migliori riescono a fiorire proprio quando tagliano il cordone ombelicale del ‘timore’ reverenziale verso padri e madri troppo autoritari, esigenti o psicologicamente soffocanti).
L’autocritica ebraico-cristiana: timor Domini initium peccati?
Ebbene: che cosa ne è stato del timor Domini biblico? All’interno dell’ebraismo è stato custodito (ovviamente non senza eccezioni deplorevoli) come sentimento ‘cordiale’ sino a esplodere - diventando esplicitamente sentimento filiale - nell’autoconsapevolezza di quegli ebrei eretici in seguito denominati cristiani: “Non riceveste infatti uno spirito di schiavitù da essere di nuovo in stato di timore, ma riceveste lo Spirito di adozione a figli, in unione con il quale gridiamo: Abbà, Padre!” (Romani 8, 15); “Non vi chiamo più servi ma amici, perché il servo non sa ciò che fa il padrone “ (Giovanni 15,15 ).
Occorrerà dunque cancellare la tematica del ‘timore’ in una sorta di marcionismo che veda opposizione e contrasto insanabile fra il Dio severo e malevolo dell’Antico Testamento e il Dio comprensivo e benevolo del Nuovo Testamento? Non è né possibile né necessario.
Non è possibile perché –come ha messo in evidenza ad esempio Giuseppe Barbaglio in diversi studi – il Dio di Gesù, esattamente come il Dio del suo popolo, è un “Giano bifronte”: troviamo durezza e tenerezza materna in Jahvé così come troviamo promessa di perdono e minaccia di castigo nel Padre del Nazareno.
Ma, anche se fosse possibile, non sarebbe necessario ripudiare la tematica del timor Dei: l’essenziale è rispettarla nella sua originalità e lasciarla scorrere nell’alveo biblico in cui si è, originariamente, configurata. Se, per qualche ragione, vogliamo restare fedeli a questa formula biblica, siamo autorizzati: ma a patto di perseverare, sobriamente, in un universo linguistico della espressione affettiva, della allusione simbolica, della fede orante. In un universo linguistico che non è quello della riflessione logica. A patto, insomma, di avere il senso del limite epistemico. A patto di aver chiaro che dislocare il tema del timor Domini fuori dall’angolazione esistenziale - cioè fuori dall’ambito esperienziale di chi parla del proprio Dio, del Dio da cui si ritiene amato e custodito – significa rischiare il non-senso.
Ce lo insegna Kierkegaard, anche nello scritto programmaticamente intitolato Timore e tremore: il timore di Dio che spinge Abramo ad alzare il coltello sino al collo del figlio unico appartiene alla sfera del paradosso . Lungi dal fondare un’etica universale sensata, esso le sottrae ogni legittimazione: “L’ultimo movimento, il movimento paradossale della fede, io non lo posso fare, sia esso ora o non sia un dovere, anche se confesso che lo vorrei fare più che volentieri” . “La storia di Abramo” - del “cavaliere della fede” – contiene “una sospensione teologica dell’etica”: egli “non è perciò in nessun momento un eroe tragico, ma qualcosa di tutt’altro: o un assassino o un credente” . D’altronde - è sempre il teologo luterano Kierkegaard (che non per caso si autodefiniva “scrittore cristiano”, mai filosofo) a suggerirlo – è falso supporre che il timore ispiri automaticamente la buona condotta: se esso non è visitato dalla grazia, ci rende peggiori di chi non prova nessun timore reverenziale. Se siamo in preda al timore e basta, ci comportiamo male. In linguaggio teologico: non ci angosciamo perché pecchiamo, ma pecchiamo perché siamo angosciati . C’è un timore del Signore che è l’inizio - la radice e il principio - del peccato !
Per queste ragioni trovo del tutto condivisibile, per chi voglia dimorare all’interno del registro linguistico biblico, bilanciare la nota del timore ‘di’ Dio (la reverenza dell’uomo verso di Lui) con la nota del timore ‘per’ Dio (la cura dell’uomo per la fragilità di Lui). Provo a spiegarmi con le parole di un credente contemporaneo:
Se Dio è onnipotente bisogna temerlo? Se Dio è onnipotente,
forte e grande e noi deboli e piccoli, perfino minuscoli,
come possiamo difenderci? Se ammettiamo che Dio è
soprattutto Amore, sappiamo per esperienza che chi ama
è vulnerabile, che non può imporsi, per potente che
che sia. Di fronte ad un cuore che si chiude, Dio è
impotente, non può che soffrire. Egli rispetta il suo
interlocutore, per piccolo e fragile che sia. Questo
è il motivo per cui l’amore scaccia il timore (I Gv. 4,18).
Ma, ormai, il Dio onnipotente, con la sua pastorale della
paura, non fa più impressione. Zundel ha fatto spesso
notare come il mondo moderno non possa più accettare
un Dio, che si comporta come un monarca assoluto
o un faraone. Giustamente rifiutiamo un Dio che
limiti l’uomo, che non rispetti la sua inviolabilita’
e che vorrebbe disporne come una merce. Il Dio
vulnerabile merita la nostra attenzione e il nostro rispetto.
Molti contemporanei ne danno testimonianza: Michel
Serra , Emmanuel La Taile , Pierre Talec , Etty
Hillesum , Marguerite Yourcenar . […] Se Dio è
AMORE, è vulnerabile e le nostre relazioni con lui
sono fragili; bisogna fare attenzione a non fargli male
e cercare di proteggerlo dai nostri impulsi, dalle
nostre assenze, dai nostri rifiuti: “Dio è fragile e
disarmato, spetta a noi proteggerlo da noi stessi” .
Zundel aggiunge: “Non è Dio che deve proteggere noi, ma
noi che dobbiamo proteggere lui”.
Ogni teologia del ‘timore’ (quale che sia la valenza semantica del vocabolo) comporta un’antropologia del ‘peccato’. E quanto spiritualmente disastrosa possa risultare una lettura della fede religiosa in generale, e del cristianesimo in particolare, imperniata sulla sottolineatura della peccaminosità dell’uomo e del conseguente bisogno di redenzione, lo ha mostrato – fra gli altri, e in termini particolarmente accessibili anche a un pubblico non introdotto a questo genere di studi – Matthew Fox:
la religione in Occidente deve abbandonare il modello
esclusivistico di caduta e redenzione che ha dominato
la teologia, gli studi biblici,i seminari e i noviziati,
l’agiografia e la psicologia, per centinaia di anni.
E’ un modello dualistico e patriarcale, la cui teologia
inizia con il peccato e con il peccato originale, e finisce
di solito con la redenzione. La spiritualità della caduta
e della redenzione non insegna nulla ai credenti riguardo
alla Nuova Creazione o alla creatività, riguardo alla
costruzione della giustizia e alla trasformazione sociale,
o riguardo all’eros, al gioco, al piacere e al Dio della
gioia. Non riesce a insegnare l’amore per la Terra
o la cura per l’universo, ed è così spaventata dalla passione
che non riesce ad ascoltare il grido addolorato degli anawim,
dei piccoli della storia umana .
Gaudium Dei initium sapientiae, si potrebbe dunque affermare con almeno altrettanta verità: la gioia “di” Dio nel senso del genitivo ‘oggettivo’ (la gioia nei confronti di Dio) come risposta alla gioia “di” Dio nel senso del genitivo ‘soggettivo’ (la gioia da parte di Dio)!
Quanto all’angolazione del “timore di Dio”, personalmente - proprio perché concordo con Kierkegaard nel pensare che “l’etica è come tale il generale e, come tale, è valido per ognuno” ; che essa è il campo della “mediazione” – a differenza di Kierkegaard sto dalla parte dell’etica: se devo scegliere fra una fede-paradosso in cui abbia senso obbedire al Dio sovra-etico e una razionalità-standard che mi filtri le ipotetiche voci sovrannaturali, non ho dubbi. Preferisco correre il rischio di non essere, come il ‘credente’ Abramo, l’eccezione al di sopra dell’etica, pur di evitare il rischio di ingrossare le fila degli ‘assassini’, costituendo una eccezione contro l’etica. La storia attesta sin troppo abbondantemente come 999 volte su 1000 un soggetto, individuale o collettivo, che sospende l’etica in nome di Dio finisce, invece, con lo spalancare le porte alle forze del Male. Senza contare che un’etica davvero razionale è anche ragionevole e, da Aristotele in poi, prevede il ruolo dell’epicheia: dell’elasticità mentale che, “prudentemente”, sa interpretare e applicare le norme senza appiattirsi sul legalismo.
La de-contestualizzazione teoretica: timor Domini initium atheismi?
Se personalmente mi aggrappo all’etica della ragione, provo il massimo rispetto per chi opti per una fede paradossale (vi sono tante altre possibili figure di fede, ma non è questa la sede per meditarvi ). Purché - come ho notato sopra – questo ‘credente’ non abbia l’imprudenza di de-contestualizzare le parole della sua fede sino a farne una dottrina in competizione con altre dottrine di tenore intellettuale, argomentativo. Infatti - per restare esemplificativamente sulla questione che ci interroga qui - fuori dal filone ebraico-cristiano (intendo già a partire dall’ellenizzazione del messaggio biblico in era medievale) il “timore di Dio” perde il significato originario, diventa l’orizzonte e il fondamento di precetti estrinseci da rispettare non più ex abundantia cordis ma per motivazioni di ordine filosofico-ontologico oppure legal-moralistico. Una cosa è parlare di timore sapienziale in un’ottica, come quella profetica, nella quale il mondo è “afferrato e dominato interamente da Dio”, cioè è “un mondo come creazione” , e tutta un’altra cosa è parlarne in un’ottica ‘secolare’ (o ‘secolarizzata’) in cui – a torto o a ragione – l’autonomia del mondo è direttamente proporzionale alla trascendenza del divino.
La Scolastica medievale, la letteratura devozionale ‘moderna’ e il Magistero cattolico, sino ai nostri giorni, hanno tentato l’operazione (a mio avviso destinata al fallimento) di continuare a insegnare il “timore di Dio” – pur identificato come il settimo dono dello Spirito Santo - su un registro razionale, pedagogico, etico.
Il caso più clamoroso è probabilmente costituito da san Tommaso d’Aquino. Il Doctor Angelicus si occupa di elaborare una propria teoria del timor sin da quando, negli anni giovanili, assistente di sant’Alberto Magno a Colonia, legge e chiosa l’Etica nicomachea di Aristotele. Arriva a concettualizzazioni raffinate che hanno una preziosità filosofica ma che , con mossa sorprendentemente ingenua, egli utilizza per decifrare il messaggio biblico del timor Domini. E’ “lo sforzo” – a mio avviso l’errore – “di ogni teologo, particolarmente di coloro che, nel medioevo, applicarono il metodo dell’esegesi dialettica”: “ricondurre l’ondeggiante uso linguistico della Scrittura all’interno di un certo numero di categorie intellettuali, dotate di relativa chiarezza e universalità, anche se della necessaria elasticità”. A nutrire serie perplessità su questa operazione esegetica sono giganti del tomismo come il domenicano p. Chenu: “L’inserzione di una speculazione nel tessuto di un testo: è questo uno dei comportamenti caratteristici del pensiero scolastico. […] (Esso) si presenta come una interpretazione di testi – filosofici, letterari, scritturali, patristici – mediante la riduzione a delle categorie razionali, mutuate, il più delle volte, dall’aristotelismo. Così si passa da un’espressione sperimentale, intuitiva, affettiva, retorica ad una formula intellettualistica, nella quale sono posti in evidenza e organizzati i possibili elementi intellegibili, salvo ad annullare, o quasi, la potenza emotiva o il benefico paradosso del testo primitivo” . Che ne è, per esempio, del timor Dei biblico nella trasposizione eis allon genos tomista? Un ‘prodotto’ quasi irriconoscibile: “Il timore ha di mira il male che intende fuggire e il bene che con la sua forza può infliggere un male. Ed è così che Dio è temuto dagli uomini, perché può infliggere una pena, o spirituale o corporale” . Questa nozione antropomorfica di un Dio giudice sovrano che infligge pene non è la caricatura polemica di qualche ateo moderno: è la formulazione meditata e articolata di un gigante del pensiero che la Chiesa cattolica considera Doctor Communis.
Nulla di sorprendente, perciò, se l’autore anonimo de L’imitazione di Cristo (non un predicatore sprovveduto, ma l’autore di un libro che ha forgiato la spiritualità cattolica molto più profondamente di qualsiasi altro, Bibbia compresa ) scrive ad esempio: “Tutto, dunque, è vanità, fuorché amare Iddio e servire a Lui solo. E perciò, colui che ama Dio con tutto il cuore non ha paura né della morte, né della condanna, né del giudizio, né dell’inferno. Un amore perfetto porta con tutta sicurezza a Dio; chi invece continua ad amare il peccato ha paura – ciò non fa meraviglia – e della morte e del giudizio. Se poi non hai ancora amore bastante per star lontano dal male, è bene che almeno la paura dell’inferno ti trattenga; in effetti, chi non tiene nel giusto conto il timore di Dio non riuscirà a mantenersi a lungo nella via del bene, ma cadrà ben presto nei lacci del diavolo” . (Forse proprio l’avere “timore di Dio” in questo senso moralistico è invece il sintomo più evidente dell’essere già prigioniero dei “lacci del diavolo”!).
Medioevolerie superate? Non mi pare. “Il messaggio del Giudizio finale” – insegna il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 – “ispira il santo timor di Dio”. Tale Giudizio escatologico va atteso con fede e speranza, la quale – virtù teologale – è tanto “l’attesa fiduciosa della benedizione divina e della beata visione di Dio” quanto “il timore di offendere l’amore di Dio e di provocare il castigo”. Su questo registro concettuale-argomentativo le difficoltà teoretiche si moltiplicano né le pur raffinate distinzioni logiche fra timore ‘servile’, timore ‘filiale’ e timore ‘iniziale’ riescono a sormontarle: quale “castigo” può riservare alla creatura mortale l’Assoluta Bontà? La condanna eterna all’inferno (una condanna così contraria alle norme del diritto naturale e delle convenzioni giuridiche internazionali da essere definita “anticostituzionale” da Luigi Lombardi Vallauri)? La condanna ‘a tempo’, in una dimensione senza tempo, in quel luogo non-luogo che il Medioevo teologico ha faticosamente costruito e denominato Purgatorio? Temo che per questo sentiero si arrivi dritto diritto all’ateismo ‘esigenziale’ di un Jean Paul Sartre quando racconta che a cinque anni, al pensiero che Dio lo vedesse e lo giudicasse per le sue marachelle (fosse, insomma, una di quelle divinità inventate - secondo Crizia - dai ricchi per tenere a bada i ladri notturni, in assenza delle guardie dormienti), abbia detto a se stesso: non voglio che questo Dio esista. Dio non deve esistere.
Se vogliamo - e come potremmo non volerlo ? – percorrere non solo il sentiero della fede biblica ma anche (per molti oggi: soltanto) le vie della riflessione filosofica, trovo di gran lunga preferibile abbandonare la categoria “timore di Dio” anziché prodursi in contorcimenti ermeneutici e/o speculativi per farle dire qualcosa di accettabile anche dall’uomo post-rinascimentale e post-illuminista. Non abbiamo forse a disposizione una serie di vocaboli – quali “riconoscimento”, “devozione”, “reverenza”, “rispetto”, “senso” di Dio - meno equivoci e meno lontani da una fede che interpreti se stessa come atteggiamento esistenziale oltre la mera ragionevolezza del dimostrabile piuttosto che smentita e frantumazione di ogni ragionevolezza? E’ già abbastanza duro (anche se saggio e, alla distanza, proficuo) accettare – teoreticamente e soprattutto praticamente - di non essere Dio: perché renderlo ancora più duro aggiungendo che questa condizione mortale va vissuta con “timore” nei confronti di Colui che è ciò che noi non siamo? Teologi e filosofi hanno - abbiamo – il dovere di non frapporre ostacoli superflui alla già tanto travagliata ricerca del vero (quale che sia il significato della parola per ciascuno di noi). Ostinarsi a usare termini desueti, o da intendere in accezioni semantiche insolite, equivale a un atto di violenza nei confronti degli uomini e delle donne che, pur impegnati in altri mestieri, vogliono capire - prima di morire – qualcosa del mistero di Dio e della nostra avventura terrena.
Augusto Cavadi