Dal volume Autori vari, Sofia e polis. Pratica filosofica e agire politico, a cura di S. Zampieri, Liguori, Napoli 2012, pp. 193 – 203.
(Il volume è acquistabile anche come e-book e, se si vuole, solo per singoli capitoli).
La dimensione politica del filosofare.
Qualche esemplificazione autobiografica
Filosofia e politica: una falsa dicotomia
La riflessione senza vita è vuota, la vita senza riflessione è cieca. Cosa può significare, in concreto, questa parafrasi della celebre formula kantiana? Ogni filosofo-in-pratica (direi meglio: ogni filosofo tout court) può dare la propria risposta. Anzi le proprie: perché ogni risposta va declinata e adattata a seconda dei luoghi e dei tempi. La varietà delle versioni è, comunque, attraversata e unificata dal filo rosso di un’idea centrale: al cuore delle crisi epocali (ma ci sono crisi non epocali? Ed epoche che non siano critiche?) cova la divisione del lavoro schizofrenica fra chi studia, pensa, elabora teorie e chi agisce, produce e condiziona la quotidianità. Una divisione di ruoli, di funzioni, che in una certa misura rispetta attitudini naturali e necessità sociali; ma che, oltre un certo limite, diventa patologica. La cura di questa schizofrenia - la riconciliazione di questa frattura - è un anfibio che, visto da un lato, si chiama politica e, dall’altro, si chiama filosofia.
Uso la metafora dell’anfibio per nominare qualcosa che un hegeliano o un marxista (quando queste specie filosofiche non si erano ancora estinte) avrebbero trovato ovvio e che ovvio non è per quanti (come me) non sono né hegeliani né marxisti: che solo l’intreccio di pensiero e azione merita (hegelianamente) il nome di filosofia o (marxianamente) il nome di prassi. Dico subito che non intendo sprecare energie in polemiche: chi vuole continuare a chiamare filosofia una delle molteplici valenze che essa ha dispiegato lungo il corso del pensiero (non solo occidentale), accontentandosi metonimicamente di tecniche logico-argomentative o di raffinate ricostruzione storico-filologiche, è liberissimo di perseverare. Purché non neghi ad altri il diritto di ritenere irrinunciabile, per la nozione di filosofia, il continuo riferimento intenzionale a ciò che è e a ciò che diviene : sia a titolo di ‘materia prima’ che, dando da pensare, alimenta il pensiero sia a titolo di ‘prodotto’ che, una volta ‘metabolizzato’ dal pensiero, viene restituito al fluire concreto della storia. Ancor meno intendo polemizzare con chi si accontenti di ridurre la nozione di politica a mera abilità nell’acquisire e mantenere potere, indifferentemente rispetto ai fini da perseguire (una sorta, insomma, di tecnica amministrativa utilizzabile per qualsiasi strategia progettuale): purché non neghi ad altri il diritto di ritenere non defalcabile, dalla nozione intera di politica, la saggezza di chi sa non soltanto pilotare la nave ma anche ‘vedere’ (theorein) le mete più opportune.
Alcune esperienze effettive
Più che sul registro teorico, la connessione costitutiva di dimensione teorica e di dimensione pratica vorrei analizzarla sul piano esperienziale, iniziando a raccontare alcuni vissuti personali e di gruppo.
a) Contestare il sistema: ma per quale alternativa?
Nell’ottobre del 1968 ho compiuto diciotto anni e ho iniziato a frequentare l’ultimo anno di liceo classico. Ovviamente il vento della contestazione studentesca nel mondo occidentale raggiunse anche la “semiperiferia anomala” dell’impero: a Palermo fui tra i primissimi a organizzare assemblee di base (ovviamente, ai tempi, del tutto illegittime) e quando, con il voto contrario mio e della minoranza studentesca che era d’accordo con me, fu decisa l’occupazione, mi posi il problema di non renderla del tutto infruttuosa. Fra i vari gruppi di studio ne proposi, allora, uno in cui interrogarci criticamente su quali fossero per ciascuno di noi le ragioni della protesta e – soprattutto – con quali prospettive politiche di ordine generale vi partecipasse. Nacque così un laboratorio dal titolo Filosofia e contestazione che il quotidiano ‘comunista’ cittadino dell’epoca guardò con tanto ammirato stupore da decidere di pubblicarne gratuitamente gli atti . A sfogliarli adesso, dopo un po’ più di quarant’anni, rivelano una certa ingenuità: ma restituiscono il senso – originario, originale e tuttora validissimo – dell’operazione. Quegli adolescenti esordivano con una dichiarazione di principio: “Sappiamo già che il fatto di voler fare filosofia a proposito di un processo come la contestazione, in cui siamo tanto impegnati, sarà accolto con sorrisi di scetticismo: in effetti la scuola ci ha dato il quadro meno vitale e più annacquato possibile della filosofia. Noi, invece, ci proponiamo di dimostrare che la filosofia come metafisica - cioè come concezione integrale dell’uomo e delle cose – è stata ed è l’anima di ogni atteggiamento individuale, di ogni concezione socio-politica, di ogni movimento storico. Ora, dal momento che la contestazione è per ciascuno di noi un atteggiamento pratico, per la classe politica la proposta di una nuova strutturazione socio-politica e per gli storici un movimento storico, è necessario vedere quali proposte abbiano influenzato la contestazione e quali debbano essere, agli occhi di chi vuole chiedersi il perché ultimo degli avvenimenti, i metodi e gli scopi della nostra contestazione” (p. 3). E, qualche riga dopo, aggiungevano: “Un uomo che non abbia ben chiara la sua filosofia è soggetto a una doppia schiavitù: nella vita di ogni giorno è spesso incoerente con i suoi principi a sé stesso oscuri, nella vita pubblica è costretto a subire l’influenza delle filosofie imperanti, anche se non da lui condivise (…) E’ chiaro che, se non ci poniamo personalmente il problema filosofico, subiamo passivamente la filosofia dei nostri artisti, dei nostri registi, dei nostri scrittori, dei nostri agenti pubblicitari, dei nostri uomini politici. Ci interessa soprattutto sottolineare a doppio inchiostro che ogni nostro pensiero, ogni nostra parola, ogni nostra azione sono l’espressione di una precisa, anche se incompleta, visione dell’uomo e delle cose. Dunque anche la nostra contestazione studentesca non può prescindere da una sana conoscenza di cosa sia il reale, l’uomo, la società: e questa conoscenza o l’avremo raggiunta criticamente o la subiremo passivamente da altri ” (pp. 3 – 4).
[…]
b) Impegnarsi nel volontariato: ma su quali basi e con quali prospettive?
Il decennio 1968 – 1978 si concluse, simbolicamente, con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Solo osservatori superficiali possono leggere questa fase esaltante e terribile della storia italiana usando l’epilogo tragico come chiave interpretativa degli eventi precedenti: il ’68 ha prodotto anche carrierismo dei demagoghi, esasperazione dei conflitti ideologici, terrorismi di segno opposto (uno dei quali, il più devastante, in nome e grazie alle risorse dello Stato nominalmente democratico), ma ridurlo a questi scarti sarebbe ingiusto. Esso è stato, altrettanto e più, l’avvio di processi planetari di cui è auspicabile il compimento: la rifondazione del sistema scolastico e universitario sulla base della pari dignità fra docenti e discenti (perfettamente conciliabile con la differenza di ruoli); la rivoluzione sessuale; il movimento per i diritti dei lavoratori; il rafforzamento dello Stato sociale; l’autocoscienza e l’emancipazione delle donne; la coscienza ecologica; il rifiuto della guerra…
Dalla fine degli anni Settanta ai nostri giorni si è assistito a un fenomeno tendenziale che potrebbe sintetizzarsi, molto approssimativamente, come sfiducia nei canali tradizionali della partecipazione politica (partiti e sindacati) e sperimentazione di nuove forme d’impegno sociale (volontariato e, più ampiamente, ‘terzo settore’).
Non è questa la sede per analizzare le ambivalenze di queste nuove forme di protagonismo da parte di cittadini che non intendono delegare a nessuno, almeno in maniera totale, la gestione del proprio territorio: ciò che mi preme sottolineare è che alcuni di noi abbiamo cercato di contribuire a questa fase - ormai trentennale – con lo stesso spirito ‘filosofico’ con cui avevamo vissuto il decennio precedente. Una esemplificazione fra tante . A Palermo esiste un centro studi dei padri gesuiti intitolato a un coraggioso ‘papa nero’ degli anni conciliari, Pedro Arrupe. Gianni Di Gennaro, uno dei direttori che si sono avvicendati alla guida di questo centro (reso noto in Italia dalla presenza di alcuni gesuiti, come p. Bartolomeo Sorge, che avevano avuto un certo ruolo come consiglieri di giovani generazioni di politici e che avevano fondato anche un Istituto di formazione politica), nel 1997 ha accolto la proposta ad alcune associazioni - sia cattoliche sia aconfessionali – di creare l’Università della strada, una struttura permanente di formazione per volontari.
Ovviamente una simile agenzia educativa doveva essere imperniata su obiettivi didattici funzionali all’attività sociale: dalla psicologia alla sociologia, dalla storia locale al diritto costituzionale, dalla metodologia per ricercare finanziamenti pubblici alle tecniche di animazione dei gruppi. Bene. Ma in sede di progettazione ho proposto - ottenendo convinto e operativo consenso – che, prima di qualsiasi altra tematica, si offrisse agli iscritti un breve ciclo di seminari filosofici sul ‘senso’ della loro decisione di intraprendere una collaborazione stabile con organizzazioni di volontariato. Se infatti diventare volontari - ben oltre gli stereotipi culturalmente ormai desueti della ‘beneficenza’ pelosa - significa scegliere di diventare cittadini adulti, critici, competenti e responsabili, chi si orienta in questa direzione deve aver consapevolezza che si tratta di una decisione esistenzialmente, eticamente e politicamente rilevante. In concreto, il filosofo s’incarica di creare uno spazio di silenzio, di meditazione, di riflessione e di confronto in cui a ciascuno sia possibile affrontare due ordini di interrogativi: su quali motivazioni ‘filosofiche’ sto basando la mia scelta di vita? E in quali prospettive politiche di ordine generale inserisco tale scelta personale? Per favorire tale riflessione ho sperimentato il metodo che Wilhelm Schmid denomina “optativo” : presentare, cioè, a titolo di ipotesi, alcuni ‘scenari’ ai partecipanti alla sessione sì che essi possano o riconoscersi in uno di questi o, meglio ancora, elaborarne un ennesimo alternativo. Vediamo, in concreto, sia pur per sommi capi, di cosa si tratta.
[…]
c) Acquistare viveri, cucinarli, consumarli: con quale consapevolezza?
Il passaggio dalla rivoluzione francese alla rivoluzione industriale si è identificato con il passaggio da cittadini a consumatori. Dico subito che questo processo ha comportato numerosi aspetti evolutivi (assopire la fame significa rinunziare a uno stimolo molto potente, ma non altrettanto illuminante, all’impegno politico) come pure regressivi: la situazione attuale in Occidente evidenzia questi aspetti regressivi , senza bisogno di molti commenti, ad abundantiam. E’ un dato storico indiscutibile e incoraggiante il percorso inverso, intrapreso da milioni di soggetti nel pianeta, da consumatori a cittadini. Fare compere al mercatino rionale o all’ipermercato megagalattico smette, gradatamente, di essere un gesto meccanico per diventare una mossa strategica, politica. Che significhi essere un consumatore critico sotto questa angolazione politica ce lo insegnano ormai intere biblioteche e vasti, meritori, movimenti sociali. Ma questa dimensione critica può essere talmente ‘critica’ da attraversare per intero lo spessore politico sino a toccare il versante filosofico? E’ esattamente quanto è capitato, nell’autunno del 2010, nella piccola comunità di ricerca che dal 2002 si riunisce ogni quindici giorni sotto la denominazione, un po’ autoironica, di “cenette filosofiche per non…filosofi”. Su suggerimento di un membro del gruppo che lavora in banca, quando si è trattato di scegliere un nuovo testo che facesse da base per le discussioni, si è adottato il volume Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?, scritto da J. S. Foer nel 2009 e tradotto in italiano nel 2010 dalla Guanda di Parma. E’ stato davvero come maneggiare un arnese ritenuto innocuo, addirittura marginale rispetto al taglio filosofico del gruppo, che ha finito con l’esploderci in mano: creando scompiglio mentale, accendendo scambi dialettici fra noi come mai era capitato negli otto anni precedenti, incrinando convinzioni radicate e abitudini consolidate. Per restituire, in poche parole, qualcosa di ciò che è successo, può essere istruttivo premettere un chiarimento sul sottotitolo (Se niente importa) del volume. La nonna dell’autore, ebrea di nazionalità russa, nel primo capitolo racconta un episodio autobiografico della Seconda guerra mondiale: “ ‘Durante la guerra ci fu l’inferno in terra e io non avevo niente. Avevo lasciato la mia famiglia, sai. Scappavo sempre, giorno e notte, perché i tedeschi mi stavano alle calcagna. Se ti fermavi eri morto. Il cibo non bastava mai. Mi ammalavo sempre più a forza di non mangiare. Non solo ero pelle e ossa. Avevo piaghe in tutto il corpo. Facevo fatica a muovermi. Non era un granché mangiare dai bidoni della spazzatura. Mangiavo quello che gli altri non erano disposti a mangiare. Se ti adattavi, potevi sopravvivere. Io prendevo tutto quello che riuscivo a trovare. Mangiavo cose che non ti direi mai. Anche nei periodi peggiori c’erano persone buone. (…) Il peggio arrivò verso la fine. Moltissime persone morirono proprio alla fine, e io non sapevo se avrei resistito un altro giorno. Un contadino, un russo, che Dio lo benedica, vide in che stato ero, entrò in casa e ne uscì con un pezzo di carne per me’. ‘Ti salvò la vita’. ‘Non lo mangiai’. ‘Non lo mangiasti?’. ‘Era maiale. Non ero disposta a mangiare maiale’. ‘Perché?’. ‘ Che vuol dire perché?’. ‘Come? Perché non era kosher?’ ‘Certo’. ‘Ma neppure per salvarti la vita?’ ‘Se niente importa, non c’è niente da salvare’ ” (pp. 24 – 25).
Il brano può dare, spero, l’idea del livello in cui l’autore pone la discussione: pur considerando gli aspetti sanitari, economici, ecologici e politici (che nessun filosofo può permettersi di snobbare), egli ha presente il livello etico-filosofico: il piano dei principi, dei ‘valori’, di ciò che tocca la dignità di un’esistenza nel mondo. Mangiare gli animali o no?
[…]
Augusto Cavadi