“Centonove”
2.3.2012
TRA IO E DIO NON METTERE IL DITO (FILOSOFICO)?
Chiedersi che ne è dei miliardi di umani che sono passati, che passiamo e che passeranno su questo pianetino disperso nel multiverso, chiedersi il senso di “questa vita che se ne va, nessuno sa dove” , significa porsi la domanda su Dio – intendendo con questo nome convenzionale il “fondamento” e la “direzione” della totalità dell’essere, “principio e fine di tutte le cose”. Ma “oggi non solo il parlare, ma lo stesso pensare Dio è diventato quasi impossibile, soprattutto se, parlandone e pensandolo, non lo si vuole fare contro, o a prescindere dal mondo”. Consapevole della difficoltà dell’impresa, Vito Mancuso (già noto a un vasto pubblico per il best seller L’anima e il suo destino) prova ad affrontarla con la sua ultima fatica: Io e Dio. Una guida per i perplessi (Garzanti, Milano 2011). Si tratta di un libro di “teologia fondamentale” (da non equivocare nel senso che si tratti, enfaticamente, di un libro ‘fondamentale’ - cioè capitale, decisivo, indispensabile – di teologia): un libro, piuttosto, che appartiene a quella disciplina che, nel curriculum degli studi teologici, si situa a cavallo fra il biennio filosofico e il triennio teologico e che si occupa dei ‘fondamenti’ (cioè delle condizioni di possibilità) della teologia. Ci sono delle questioni che fanno da ponte fra la filosofia e la teologia: esiste Dio? Se esiste, ha parlato di sé nella storia dei profeti e in Gesù di Nazareth? Se ha parlato (rivelazione) ha affidato questa rivelazione a un organismo storico infallibile e indefettibile (magistero cattolico)? Sono i problemi pre-liminari (ante limen): grosso modo i preambula fidei di Tommaso d’Aquino, l’apologia del cristianesimo di un Pascal, l’apologetica moderna di un Lang, di un Falcon, di un Adam, di un Tresmontant. E’ in questa zona di confine fra filosofia, storia, letteratura, esegesi biblica e teologia vera e propria che si pone il volume di Mancuso.
• Ragioni di condivisione
Come ho avuto modo di dichiarare al Palazzo Steri di Palermo, nel corso della presentazione pubblica, con Mancuso, di Io e Dio, ho trovato molte ragioni di consenso. Essenzialmente tre. Innanzitutto sono convinto che ci sia bisogno in tutte le aree disciplinari (filosofia, letteratura, fisica, psicologia…dunque anche teologia) di evitare i castelli separati dal resto del mondo da fossati incolmabili. Come da decenni mi sforzo di divulgare una “filosofia per non…filosofi” (che, almeno nelle intenzioni, non è meno rigorosa della filosofia liceale e universitaria, ma certamente meno tecnica e più orientata a sostenere gli interrogativi sinceri dell’uomo della strada), così trovo preziosissima una “teologia per non… teologi” quale definirei il tipo di teologia di Mancuso, di cui questo libro costituisce un altro importante tassello che ne mostra la praticabilità effettiva.
Il successo editoriale di questo genere di teologia - imparagonabile con i testi accademici, pesanti, autoreferenziali della media dei teologi ‘istituzionali’ – potrebbe contribuire a superare, nel tempo, un divario ormai secolare fra sapere teologico e saperi laici. E’ noto che nel 1861 lo Stato liberale ha stipulato con la Chiesa cattolica un contratto apparentemente conveniente per entrambi, in realtà disastroso: la Chiesa avrebbe mantenuto il monopolio delle facoltà teologiche e lo Stato non avrebbe speso una lira per cattedre di teologia nelle università statali. Risultato: la cultura cattolica si è chiusa a riccio, auto-riproducendosi come se la storia della scienza e della filosofia e delle arti non andasse avanti; la cultura laica, da parte sua, si è privata degli stimoli (anche solo a livello di informazione) che le sarebbero potuti arrivare da uno studio serio della Bibbia e della tradizione cristiana. Contribuire a sanare questa frattura è un secondo, notevole merito dell’attività teologica di Mancuso (e, in particolare, di questo suo libro).
Almeno un terzo motivo di consenso vorrei infine segnalare. Ci sono molti cattolici, più svegli e più onesti dei confratelli, che lavorano per la riforma della Chiesa cattolica in un’ottica interna: hanno il mio affetto ammirato, ma temo che siano impegnati in una fatica di Sisifo senza alcuna possibilità di successo. Ormai la Chiesa cattolica, dopo duemila anni di pietrificazione dottrinaria e istituzionale, non è riformabile: o sopravviverà così com’è (attirando le persone in cerca di certezze paternalisticamente somministrate) o si romperà. Perciò non vale la pena perdere tempo per tentare di convincere papi e cardinali, vescovi e teologi di corte, sulla necessità di rivedere i dogmi più inverosimili (dalla verginità biologica della Madonna “prima, durante e dopo il parto” all’infallibilità del romano pontefice quando parla ex cathedra): mentre si discute del sesso degli angeli, Costantinopoli brucia. Meglio occuparsi di problemi più vasti rispetto all’ambito ecclesiale cattolico: i problemi della cristianità. Anzi, più ampiamente ancora: i problemi del monoteismo (ebraico, cristiano, islamico). Anzi, più fondamentalmente: i problemi della religiosità naturale o, se si preferisce, della spiritualità umana. Le questioni intra-ecclesiali cattoliche si possono risolvere – o dissolvere – solo se si aprono le finestre della Chiesa e si lasciano entrare i venti della storia culturale contempomporanea. E’ su questa ampiezza di orizzonti, ben oltre le logiche tribali e le diatribe parrocchiali, che Vito Mancuso ci invita ad affacciarsi.
• Ragioni di perplessità:
Come tutti i libri importanti, anche questo suscita interrogativi e “perplessità”. Mi limito ad una sola osservazione di fondo. L’autore sostiene che la fede (e dunque la teologia, fede pensata) si basa sul sentimento (inteso non come stato emotivo, ma come coinvolgimento interiore e globale del soggetto). Benissimo. Ma egli aggiunge - sulla scia di Kant, di Fichte e di James – che anche per la filosofia sia così. Egli sostiene che, in ultima analisi, le opzioni filosofiche di fondo sono opzioni: cioè decisioni esistenziali, scelte etiche. Ebbene, su questo punto non sono d’accordo. Infatti ritengo che , di fatto, spesso è così: spesso, certamente, i pensatori prima si orientano sentimentalmente verso una soluzione (teoretica o etica o politica) e poi cercando di giustificarla razionalmente. Ma questa non è la fisiologia, bensì la patologia della filosofia. Di diritto, per principio, il criterio ultimo per il filosofo (a differenza del teologo, suppongo) dev’essere il ragionamento. Intendiamoci: c’è una filosofia che si illude di essere solo cerebrale e, quando ci riesce, diventa sintomo di quella follia (di cui parlava Chesterton) consistente perdere tutto, tranne la ragione. Ma, esclusa questa idea (purtroppo egemone fra i filosofi di professione odierni) , dobbiamo essere più precisi: la filosofia è ‘anche’ - non ‘solo’ o ‘prioritariamente’ - espressione del sentimento e degli orientamenti etici. Sul piano personale, delle storie soggettive, ha ragione Rousseau: prima vengono i sentimenti, poi i pensieri. Prima avverto il fascino della giustizia, poi scrivo un trattato sulla preferibilità della giustizia rispetto all’ingiustizia; prima avverto il fascino dell’amicizia, poi rifletto sulla preferibilità dell’amicizia all’isolamento egoistico. Ma sul piano oggettivo, dei ‘prodotti’ filosofici finali, non può andare così: se ragionando non trovassi argomenti validi a favore della giustizia rispetto all’ingiustizia, o dell’amicizia rispetto all’isolamento egoistico, non potrei dire di aver compiuto un lavoro filosofico. Potrei dire che ho ‘fede’ nella giustizia o nell’amicizia: ma non che ‘so’ cosa siano e soprattutto perché siano da preferire ai loro contrari. Nell’ipotesi - assai poco gradevole – che il ‘cuore’ mi portasse verso la giustizia e l’amicizia e la ‘mente’ mi convincesse che hanno ragione gli ingiusti e gli egoisti, dove dovrei orientarmi? Il teologo non ha dubbi e va dove porta il cuore. Il filosofo non se lo può permettere senza il lasciapassare della mente che preferisce la più amara delle verità ‘oggettive’ alla più dolce delle illusioni ‘soggettive’.
Augusto Cavadi
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