Il blog di Augusto Cavadi, filosofo-in-pratica di Palermo, con i suoi appuntamenti pubblici in Italia e i suoi articoli.
venerdì 30 marzo 2012
giovedì 29 marzo 2012
Chichibio, autobiografia intellettuale di un docente
“Repubblica – Palermo”
19.3.2012
Franco Marchese
NELLA CUCINA DI CHICHIBIO
Palumbo
Pagine 148
euro 15
Da dodici anni un editore palermitano, molto affermato nel mondo della scuola, pubblica una rivista cartacea ormai nota su tutto il territorio nazionale: “Chichibio” (raggiungibile on line all’indirizzo www.palumboeditore.it). Il bimestrale è di insegnanti (di ogni ordine e grado) e per insegnanti: uno strumento di aggiornamento sulle politiche scolastiche, di scambi didattici, di approfondimenti culturali disciplinari. La dirigono Romano Luperini, Cinzia Spingola e Franco Marchese. Quest’ultimo - valente e stimatissimo docente del liceo scientifico “Cannizzaro” – ha curato in questi mesi il primo dei Quaderni che si intendono affiancare periodicamente alla rivista: Nella cucina di Chichibìo. In esso l’autore raccoglie - riproducendoli in sequenza cronologica – alcuni dei molti articoli da lui pubblicati, costruendo così una sorta di autobiografia intellettuale e pedagogica che è anche un segmento tormentato della storia della scuola pubblica in Italia. Un libro da raccomandare a tutti gli insegnanti (di materie umanistiche, ma non solo) per i quali la cattedra non è un palco da dove tenere comizi elettorali, ma neppure un proscenio dove soddisfare narcisismi esibizionistici: bensì una trincea dove, con pazienza e speranza, testimoniare che il sapere può regalare senso, ben al di là della barbarie politica e civile che stiamo attraversando.
mercoledì 28 marzo 2012
Anche in periferia si combatte il dominio dei mafiosi
“CENTONOVE”
23.3.2012
FINALMENTE CANDIDO
Non è stata una manifestazione oceanica, anzi neppure lacustre. Ma quel centinaio di persone che giovedì sera ha sfilato per le vie di Partanna Mondello, in solidarietà con Giovanni Candido e i suoi soci imprenditori, ha segnato una data importante nella più che secolare storia di contrasto al dominio mafioso. E’ giusto che la città sappia, è giusto che se ne conservi memoria.
Chi conosce le borgate palermitane sa che tutto è là maledettamente più difficile che nei quartieri residenziali. Nell’ambito della legalità, ad esempio, ogni iniziativa contro la ‘mafia’ (in quanto fenomeno anonimo) si trasforma facilmente in protesta contro ‘mafiosi’ in carne ed ossa (con volti e nomi che anche i bambini conoscono): meritorio e necessario organizzare convegni all’università e fiaccolate per le vie del centro storico, ma tutta un’altra cosa è stringersi attorno ad uno sparuto gruppetto di cittadini - che si sono rifiutati di pagare il pizzo per poter continuare a gestire un negozietto di servizi postali privati – sapendo che qualcuno sta registrando la tua presenza e non la dimenticherà facilmente.
L’eccezionalità dell’evento - prontamente colta da Addio Pizzo, Libero Futuro, Professionisti Liberi e Confindustria, che hanno contribuito a promuoverlo - è dovuta ad un secondo fattore: la fiaccolata è stata organizzata, in primis, dalla parrocchia di Santa Maria degli Angeli con la piena e convinta partecipazione del pastore, don Pasquale Viscovo. E’ un segnale raro, prezioso, che potrebbe scatenare una vera e propria rivoluzione mentale e pratica. Dopo lunghi decenni di ignavia, di distrazione, di devozionismo alienante, cosa succederebbe se le parrocchie e le altre comunità religiose decidessero di uscire dall’equilibrismo, ipocrita e deleterio, del “né con la mafia né con l’antimafia” (ma magari solo con gli amici dei mafiosi in carriera politica, sino a Palazzo d’Orleans)? Sappiamo benissimo che, al di là della facile retorica, sarebbe intraprendere un cammino faticoso e non privo di rischi. Don Pino Puglisi a Brancaccio, don Peppino Diana a Casal di Principe - per limitarci ai casi più recenti – lo hanno percorso sino alla croce. Ma altri preti - a Palermo, in Sicilia, nel Meridione – resistono e sopravvivono, sopravvivono e coinvolgono altri nella resistenza. E forse un giorno ci sarà qualche vescovo e qualche cardinale in più che - sull’esempio di monsignor Bregantini in Locride - uscirà dai palazzi un po’ troppo protetti e affiancherà i preti di periferia e i loro parrocchiani, indifesi ma coraggiosi. Forse questo genere di iniziative comporterà la rinunzia a qualche rosario in chiesa o a qualche novena di preghiere in onore di santa Rita per far trovare marito alle ragazze che rischiano di restare ‘zitelle’; forse qualche dotto professore di teologia si affretterà a mettere in guardia dai rischi dell’ “orizzontalismo” laicista ai danni del “verticalismo” mistico…Ma la questione radicale resta la medesima: se il vangelo di Gesù Cristo chiede ai credenti di alimentare l’industria del sacro o di impegnarsi, sino in fondo, per la libertà, la giustizia e la fraternità.
Augusto Cavadi
lunedì 26 marzo 2012
Cos’è davvero l’ebraismo?
“Repubblica – Palermo”
11.3.2012
Dante Lattes
APOLOGIA DELL’EBRAISMO
La Zisa
Pagine 106
euro 9,90
“Catanesi cani ed ebrei!”: la scritta, per anni campeggiante su diversi muri della Palermo bene, sintetizza efficacemente il livello culturale di certi strati della tifoseria palermitana. A questo genere di ‘sportivi’ bisognerebbe spiegare, sia pur con scarsissime probabilità di riuscirvi, che ai cani non scappano mai simili scivoloni. Quanto agli ebrei, poi, che si tratta di uno dei popoli di più fertile creatività dell’unica grande razza umana. Per cominciare a capirne qualcosa - liberando la mente dai veli che la politica dei governi israeliani moltiplica fastidiosamente – si può partire da un opuscolo di Dante Lattes, Apologia dell’ebraismo, edito nel 1923 e meritoriamente ripubblicato . L’autore (noto come scrittore e rabbino) focalizza quattro temi centrali della sua confessione religiosa: Dio (non di un popolo, ma di tutti gli uomini, anzi di tutto il cosmo); i profeti (per i quali la conversione autentica è “la giustizia e l’amore in luogo della prepotenza e dell’avidità”); il Messia (concepito non come un uomo che è già venuto una volta, ma come il continuo avvento di Dio nella storia umana); il fariseismo (diventato sinonimo di ipocrisia e di legalismo, ma solo perché si è voluto assolutizzare una caricatura della corrente farisaica e dimenticare la sua fisionomia autentica di fedeli rispettosi del Volere divino).
Augusto Cavadi
sabato 24 marzo 2012
Nino Cangemi sulla presentazione imminente de “Il Dio dei leghisti”
“Sicilia Informazioni” del 24.3.2012
OGGI SI PRESENTA “IL DIO DEI LEGHISTI” DI AUGUSTO CAVADI
Appuntamento da non perdere sabato 24 marzo a Palermo: nell’Aula magna dello Steri si presenta l’ultimo saggio di Augusto Cavadi, “Il Dio dei leghisti”.
Diciamocelo senza ipocrisia: le presentazioni di libri sono il più delle volte noiose, si limitano a promuoverli elogiandone gratuitamente i pregi senza soffermarsi sui contenuti e senza, soprattutto, alimentare dibattiti. Servono a raggiungere, nell’avaro mercato editoriale, il “quorum”: i 25 lettori (acquirenti) di manzoniana memoria.
Non sarà così per il libro di Cavadi, e perciò si segnala l’evento. A discutere “Il Dio dei leghisti”, assieme a don Cosimo Scordato, e con il coordinamento di Andrea Cozzo, saranno presenti due senatori della Lega Nord, Angela Maraventano e Giuseppe Leoni. E stando alle polemiche, anche veementi, che il libro ha già sollevato tra i leghisti e nella stampa simpatizzante del movimento-partito creato da Bossi il dibattito questa volta è assicurato. Ed è un dibattito ricco di stimoli per chi ha a cuore i temi della religione, della fede, del presente e del futuro del cattolicesimo. Sì, perché il saggio di Cavadi edito da San Paolo, oltre a analizzare il codice culturale leghista nei suoi molteplici aspetti (sociologici, antropologici, ideologici), nell’indagare sulla concezione religiosa dei “nordisti” pone questioni fondamentali su come vivere la fede ed essere cattolici.
Gli interrogativi e le provocazioni di Cavadi contrappongono due modelli di Chiesa: uno custode della tradizione, “depositario della verità integrale sull’uomo, sul cosmo e sulla storia”, ancorato a una missione salvifica che mira a convertire l’umanità anche a costo di considerare “valori negoziabili” quelli della solidarietà, dell’amore per il prossimo nella sua interezza, della difesa dei deboli; l’altro incentrato sul messaggio evangelico, sulla “tenerezza del Padre”, sulla misericordia divina rivolta a chi ha più bisogno.
Con il primo modello di Chiesa la Lega è conciliabile, e ciò spiega come il 39 per cento dei suoi sostenitori sono cattolici praticanti. E spiega pure la comunanza della Lega con ambienti ecclesiastici conservatori nella difesa di identità culturali occidentali da preservare dai “pericoli” provenienti da altre religioni, la musulmana in particolare: si pensi alle posizioni di Baget Bozzo, paladino di una teologia conciliante col berlusconismo, e alla “battaglia” per il crocifisso nelle scuole.
Col modello evangelico la sottocultura leghista configge in modo stridente. L’accoglienza degli “altri”, la tolleranza, la vicinanza verso ogni forma di sofferenza, la condanna della xenofobia e del razzismo sono valori irrinunciabili per un cattolicesimo fedele al Vangelo e al suo messaggio rivoluzionario.
Il libro di Cavadi perciò non può piacere ai leghisti, che dell’integralismo chiuso all’accettazione di culture diverse, siano esse quelle dei musulmani, dei zingari, dei rumeni o degli extracomunitari, hanno fatto la loro bandiera. E però va detto che se l’autore denuncia, senza fare sconti, la contraddizione dell’essere cattolici e leghisti, conduce la sua disamina senza acrimonia. Il suo non è un libro contro il Carroccio: la critica muove da un esame scientifico e l’intento è costruttivo. Il messaggio che Cavadi lancia col suo saggio è rivolto al mondo cattolico prima ancora che alla Lega. E’ un invito a seguire il Vangelo, ascoltando col cuore i suoi precetti ecumenici, profetici e di apertura, a riformulare le priorità, non abbandonando mai “alcuni principi essenziali e indiscutibili (quei principi enunciati, con la solennità di una carta d’intenti, nel discorso della montagna: le beatitudini evangeliche”).
Si può essere certi perciò che il confronto allo Steri sarà acceso e propositivo, non solo con i senatori della Lega presenti, ma anche, e soprattutto, con le diverse “anime” della Chiesa.
venerdì 23 marzo 2012
Ci vediamo a Palermo sabato 24 marzo alle 17 (in punto)?
Sabato 24 marzo 2012 alle ore 17.00 nell’Aula Magna di Palazzo Steri (sede del Rettorato dell’Università di Palermo), piazza Marina 61, Augusto Cavadi discuterà del suo libro
Il Dio dei leghisti
(Edizioni San Paolo, Milano 2012)
con Giuseppe Leoni, senatore della Lega Nord, e don Cosimo Scordato, docente presso la Facoltà Teologica di Sicilia. Introdurrà l’incontro e modererà il dibattito con il pubblico il prof. Andrea Cozzo, docente presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo.
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Dalla rivista “Jesus” (marzo 2012):
Il dio dei leghisti: spiritualista ed egoista
Il libro che tutti i leghisti e tutti i parroci dovrebbero leggere lo ha scritto un professore di liceo palermitano, scrittore, saggista, teologo, studioso di mafia. Augusto Cavadi, autore del recente Il dio dei leghisti (San Paolo), pone «una questione teologica cruciale». E cioè: non farebbe meglio la Chiesa cattolica a «riformulare la sua scala di priorità, ricalibrandola con maggiore attenzione sul messaggio evangelico?». In concreto ciò significherebbe «chiarire (a sé stessa, e conseguentemente ai partiti e all’opinione pubblica) che prima di tutto vanno individuati, abbracciati e difesi in maniera efficace e verace alcuni principi essenziali e indiscutibili (quei principi enunciati, con la solennità di una carta di intenti, nel discorso della montagna: le beatitudini evangeliche)». Quella di Cavadi è una cavalcata ella storia della Lega, ricca di spunti e aneddoti, con particolare attenzione ai eghisti cattolici e alla loro ideologia, dalla fase panteista bossiana a quella dello «scontro di civiltà» e alla loro strenua difesa del crocifisso. La scrittura è accattivante e non ci si annoia mai. Anche quando si solcano profondità teologiche, si ride, si sorride e si piange. Se il saggio spiega con nettezza gli errori di chi crede in Dio e nella Lega, interroga e provoca soprattutto i non leghisti, credenti e non, a cominciare dai sacerdoti. Cosa può fare la Chiesa per non indulgere nell’errore e non incoraggiare «una generazione di leghisti che si sentono superiori perché il pane l’hanno in casa e non sentono più la necessità di provvedere al povero, allo straniero?». E quanto alla Chiesa, quale strada percorrere, si chiede Cavadi, tra «l’integralismo aggressivo e invadente da una parte e, dall’altra, un intimismo spiritualistico che preveda solo atti di beneficenza diretta, di assistenzialismo corto?». La risposta sta nella ricalibratura dei cosiddetti «principi non negoziabili» del Vangelo. Per far questo «non è necessario andare lontano: basta aprire gli occhi e leggere il cuore dell’annunzio biblico. Che Dio ci ama gratuitamente, anticipatamente rispetto ai nostri meriti e ai nostri demeriti, creativamente, testardamente: questo è per il cristiano l’unico valore assoluto rispetto al quale tutto il resto – appartenenza ecclesiale, adesione dottrinaria, osservanza morale, pratica sacramentale, militanza politica, testimonianza professionale – è irrimediabilmente relativo. Ma su questa centralità dell’agape divina non si riflette mai abbastanza». In tal caso, se tutto ciò venisse ribadito, come scrive Augusto Cavadi «l’incompatibilità tra i discepoli di Gesù e gli eredi di Alberto da Giussano risulterebbe evidente». Basterebbe questo accenno per intuire quanto lontano fuggirebbero da una simile Chiesa «ri-centrata su un Dio così concepito, tutti coloro che parlano di scontro di civiltà». Molto netta la conclusione inevitabile della concezione di Dio come Dio dell’amore: «Europa, vuoi essere davvero la prima di tutti i continenti? Sii allora la serva di tutti. Lava i piedi dei tuoi ospiti che, sporchi di sabbia del Sahara, bussano sgarbatamente alle tue porte o, ancor meno educatamente, si abbandonano sugli scogli e sulle spiagge delle tue coste meridionali».
Francesco Anfossi
domenica 18 marzo 2012
Leontine Regine intervista Adriana su “Mezzocielo”
Non è facile comunicare, a chi non la vive, l’atmosfera che si respira nella casetta di Adriana sulla spiaggietta sotto casa nostra (vedi in facebook: Casa Rotolina): laboratorio artigianale di riciclo; luogo di incontro con i bambini del quartiere, con le loro madri, con i loro padri; covo di rivoluzionari disarmati e nonviolenti dove si preparano i manifesti, i cartelloni, gli striscioni per le manifestazioni di protesta o di solidarietà…Non è facile rappresentare tutto questo, ma Leontina Regine c’è riuscita egregiamente sull’ultimo numero di “Mezzocielo” (febbraio 2012).
Con gratitudine verso il trimestrale di donne siciliane, e con la comprensibile fierezza di chi ormai da dieci anni condivide la vita con Adriana, ho la gioia di socializzare con “i venticinque lettori” del mio blog il pezzo giornalistico.
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“Mezzocielo”, febbraio 2012
Quando gli oggetti e gli spazi si trasformano
Per molte persone gli oggetti di scarto hanno un potenziale estetico infinito, una di queste è Adriana Saieva. Cerniere rotte, cartoni, mollette, vecchi elettrodomestici, cose ormai inservibili e abbandonate sono pronte, tra le sue mani, a riacquistare nuova vita e a trasformarsi in giochi, collane, piccole sculture.
L’attenzione verso un nuovo uso dei tanti oggetti destinati a finire nella pattumiera nasce, per Adriana, nella scuola dove insegna, l’Istituto Arenella a Vergine Maria. Ha iniziato a creare i primi oggetti con gli alunni della sua classe, un modo per avvicinare i piccoli studenti, oltre che al significato, anche all’applicazione pratica delle “3R”: Ridurre, Riusare Riciclare. A poco a poco, però, l’armadio della scuola non è stato più sufficiente a contenere i materiali raccolti e il luogo in cui dare spazio alla creatività collettiva non era sempre disponibile, i laboratori scolastici, si sa, hanno degli orari oltre i quali non è consentito fermarsi. Tra l’altro, nella borgata, così come in tanti altri luoghi della città, non esistono spazi aggregativi per i ragazzi, centri in cui incontrarsi, creare, leggere insieme.
E così Adriana ne inventa uno. Si chiama Spazio Rotolina, nome che trova ispirazione dalla via in cui si trova ubicato l’appartamento che ha preso in affitto l’anno scorso: “Via Nostra Donna del rotolo”. Per tutta l’estate i bambini, tre a volte a settimana, hanno partecipato ai laboratori del riciclo sperimentando e inventando, sollecitati dalla loro maestra impegnata a scoprire, insieme a loro, le potenzialità degli oggetti considerati inservibili.
Giocando con loro al gioco del riuso creativo è cominciata per Adriana anche una sua ricerca personale, la voglia di tirare fuori oggetti da indossare: collane sculture, anelli, spille e anche pannelli composti dai materiali più svariati. Tutte creazioni ancora in divenire che rendono le mille cose raccolte e ammonticchiate nelle stanze del piccolo appartamento, tanti piccoli tasselli che aspettano soltanto di trovare il posto giusto in cui essere collocati per riacquistare un nuovo splendore. E così, appoggiati alla rinfusa, trasformano la stanza in una miniera da cui estrarre la gemma giusta da incastonare nel posto che le spetta.
Nello Spazio Rotolina , nella terrazza di fronte al mare, ad un passo dalla tonnara, Adriana non è mai sola. Quando non ci sono i bambini arrivano le mamme del quartiere, donne piene di voglia di fare e di sperimentare. Oppure si svolgono riunioni per parlare insieme di quello che si può fare per migliorare la qualità della vita della comunità di questo piccolo borgo vicino Palermo.
Una bella, piccola ma importante realtà, nata da una persona appassionata del suo lavoro e delle tante nuove esistenze nascoste dentro oggetti a prima vista insignificanti, trasformate dalla creatività di chi osserva con altri occhi. Un piccolo spazio privato che Adriana trasforma in qualcosa di grande e prezioso: in un dono per la collettività, in un regalo per le persone e il posto in cui vive e lavora.
Leontine Regine
sabato 17 marzo 2012
La situazione a Palermo dopo le primarie del centro-sinistra
“Repubblica – Palermo”
16.3.2012
UNA SQUADRA DIVISA VA VERSO LA SCONFITTA
Le primarie sono state importate dagli USA e, come spesso accade, senza tener conto di radicali differenze storiche e politiche. Oltre l’Atlantico, infatti, servono a scegliere il candidato di uno schieramento omogeneo (Repubblicani) contro il candidato dell’altro schieramento, altrettanto omogeneo (Democratici). Da noi servono a contare i voti di partiti diversi all’interno di uno schieramento tutt’altro che omogeneo; anzi, come se questa anomalia non fosse sufficiente, anche a contare i voti di correnti diverse all’interno degli stessi partiti (nel nostro caso, al di là di comunicati firmati più o meno ipocritamente, fra il PD filo-lombardiano e il PD anti-lombardiano). Con queste premesse e in queste condizioni, altro che festa di popolo: le primarie sono duello all’ultimo sangue. Non un gioioso confronto fra concorrenti accomunati dal medesimo progetto politico, piuttosto una dolorosa resa di conti fra avversari incompatibili.
Le conseguenze della battaglia (nominalmente fratricida, in effetti fra lontani cugini che si frequentano solo per battesimi e funerali) sono sotto gli occhi di tutti. L’osservatore, al pari dell’elettore progressista deluso e smarrito, non può che fotografare il quadro attuale, sperando che possa modificarsi. Da una parte, Ferrandelli e i suoi sponsor palesi (Cracolici e Lumia): politici in carriera per i quali vincere è talmente prioritario da relegare in secondo, o ultimo, piano ogni altra considerazione sui princìpi per cui si combatte e sui metodi di lotta. Sono gli eredi di un’illustre tradizione che risale agli splendori del Rinascimento: la lezione machiavellica del fine che giustifica i mezzi. Ricordo una lunga chiacchierata in treno con il compianto, illustre, storico Paolo Viola: in occasione di certe primarie, sostenevo di non potermi riconoscere in un candidato progressista a cui non avrei affidato la gestione del condominio; ma lui mi obiettava, alla luce di dotte considerazioni storiche, che politici poco limpidi moralmente erano stati di gran lunga più efficaci di altre anime belle sognatrici. E che perciò avrebbe affidato volentieri la città a quello stesso candidato a cui non si sarebbe sognato di consegnare l’amministrazione condominiale.
Nell’altra metà del campo Rita Borsellino e i suoi sponsor palesi (Idv, Rifondazione comunista, Sel, Verdi): politici che ambiscono a vincere non meno degli altri, ma non a qualsiasi prezzo. Che non ritengono accettabile, né allo Zen né altrove, che militanti un po’ troppo zelanti gestiscano in prima persona i certificati elettorali altrui. Che non vogliono piegarsi all’esistente, rassegnarsi al deja vu, perché ci sarebbro momenti in cui “non si può andare troppo per il sottile”. Che vogliono immaginare un modo diverso di fare politica, senza accordi – né palesi né sottobanco – con quelle stesse forze partitiche, come l’Mpa, contro cui ci si era battuti alle ultimissime elezioni regionali. Che vogliono sognare un altro modo di governare nel Mezzogiorno, al punto - per esempio – che chi vinca le elezioni non aiuti, per riconoscenza, le cooperative amiche ma spiazzi l’opinione pubblica fissando delle regole uguali per tutte le cooperative, anche per quelle che in campagna elettorale si fossero schierate nel campo degli avversari.
Per il futuro, dunque, sarà bene valutare con attenzione l’opportunità di convocare o meno delle primarie in contesti non abbastanza omogenei. Ma oggi si deve trovare una soluzione. Solo un miracolo può aiutare il centrosinistra ad uscire dal pantano in cui si è cacciato da solo. Un miracolo difficile quanto necessario. Difficile perché un ruolo decisivo spetta proprio a un dirigente regionale che ha dimostrato, senza più ombre di dubbio, la sua totale inadeguatezza. Lupo, infatti, è arrivato alla segreteria del Pd appoggiato dalla Borsellino condividendone la linea anti-lombardiana; l’ha stravolta cambiando idea dopo pochi mesi; ha di nuovo sconfessato la linea Cracolici-Lumia quando Bersani gli ha imposto di appoggiare la Borsellino…Insomma un andamento pendolare buono a scontentare tutti gli interlocutori e, soprattutto, a disorientare gli elettori del Pd. Necessario: se tale difficile miracolo non si realizzasse, si creerebbero tutte le condizioni per fallire quel calcio di rigore a porte vuote di cui tutti hanno parlato al momento della fuga da Palazzo delle aquile di Cammarata e dei Pdl. La ricaduta psicologica, direi morale, su tutti i cittadini desiderosi di voltare pagina sarebbe pesante. E i suoi effetti depressivi potrebbero durare altri dieci anni.
Augusto Cavadi
mercoledì 14 marzo 2012
Gino Adamo su “Il Dio dei leghisti”
Dal blog “Panta rhei” di Gino Adamo (che ringrazio per la recensione e per la segnalazione):
- UN METICCIO CHIAMATO TROTA -
E’ appena uscito (per le ediz. San Paolo) il brillante saggio del prof. Augusto Cavadi su un tema - la compatibilità dell’ideologia leghista con il vangelo cristiano - che, pur se impostato e trattato con civilissimo piglio critico, ha già suscitato vivaci polemiche e plateali levate di scudi nell’arena leghista, assieme, invero, a crescenti voci di consenso e di schietta solidarietà, sia di comuni lettori sia di autorevoli recensori.
Anche quest’opera di Cavadi non è destinata certo a passare inosservata e sotto tono, in quanto tocca un nervo scoperto non solo della Lega, ma anche, per dolente riflesso, in taluni ambienti della Chiesa, che, sia concesso dirlo francamente, di questo solido e agile volumetto (di appena 192 pagine dense e godibilissime) avrebbero fatto volentieri a meno.
Eppure non credo che si possa rimproverare all’Autore una qualsivoglia presa di posizione pregiudiziale nei confronti della Chiesa, che in quanto istituzione che rappresenta (bene o male) oltre un miliardo di fedeli, egli ha sempre mostrato di rispettare, anche se non sempre - da laico devoto e pensante - di riverire pedissequamente.
Peraltro, il prof. Cavadi non fa mistero di considerare degne di rispetto (e fors’anche di studio!) altre confessioni (dall’Islam al Buddismo). Ma non è questo il discorso che qui al momento può interessarci. In discussione dovrebbe essere, a mio avviso, un unico assunto: se il saggio del Cavadi sia ben argomentato sulla scorta di indagini e documenti seri, chiari e condivisibili o se - viceversa - si debba imputare all’Autore una trattazione intossicata dalla prevenzione, debolmente sostenuta da fatti e idee prive di sufficiente e vero riscontro, e dunque, in coscienza (se da qualche parte ancora esiste) non condivisibile.
Ma la forza del Cavadi sta proprio tutta qui: le sue carte sono esaustive, ineccepibili, i suoi giudizi sia storici che politici, sobri e puntualmente evidenziati, chiariti, giustificati grazie ad una bibliografia essenziale (oltre settanta i testi richiamati). Mai asserzioni arbitrarie, nella misura in cui ogni elemento di giudizio sorge, direi a fortiori, da dichiarazioni ufficiali, da leggi approvate dalla Lega, che in qualche caso, fino al giorno prima, includeva il tal beneficio nel gran magna magna dei terroni o di “Roma ladrona”. In questi casi la onnipresente domanda leghista: chi paga? non viene pronunciata. Il che lascerebbe sospettare una occhiuta capacità di deroga quando fa comodo, che induce a concludere che anche la virginale Lega non resiste dinanzi a qualche inconfessabile appetito; l’importante è, s’intende, che essa - come le “svergognate” di una volta - sappia poi rifarsi la verginità perduta: cioè ricucire il lembo di un imene infranto, per dimostrare al fessacchiotto di turno d’essere fisiologicamente integra.
Il libro di Cavadi non é piaciuto - fra gli altri (comprensibilmente!) - ad un europarlamentare della Lega, tale Lorenzo Fontana, che - dopo aver leggiucchiato le note in fascetta pubblicitaria - ha dato di piglio alla sua terribile penna corrosiva lanciandosi in singolar tenzone contro il placido professore di liceo, palermitano, che con molta bonomia (com’è nel suo carattere) ha cercato di consolare l’afflitto esortandolo anzitutto a farsi un’idea corretta del libro, che pretende di giudicare senz’averlo letto: sfogliato almeno? Improbabile, ma non lo escluderei. Inoltre, si sa, è un libro ben scritto e di stile argomentativo alquanto sostenuto, talchè, diciamo la verità, riesce improbabile supporre che se l’avesse letto, potrebbe averlo anche compreso: una cosa per volta, giusto? Niente di strano, intendiamoci, nella Lega, esiste una casistica di individui molto più patetici di questo. Basta ascoltare un paio di volte - nella vita - il degno reggente, tal Bossi Umberto, e anche qualcuno dello staff maggiore, che so: dal vivace e ben nutrito Calderoli al buon Borghezio (che si stenta a credere a piede libero), ma ovviamente non ci permettiamo di sottovalutare tanti altri, che sappiamo abbisognano anch’essi di una comprensione, che non si nega a nessuno.
In fondo, vedete, in questa Lega fanno a gara ad atteggiarsi a cattivi ragazzi, ma, ormai lo sappiamo, intimamente sono di gran lunga peggio. Debbo fare una confessione. Dico il vero: fin qui ho nutrito una riserva, che non ho mai confidato a nessuno. Neanche in famiglia. Ho sempre creduto che il buon Maroni fosse, per morale e doti intellettuali nel complesso un tantino al di sopra della dolorosa media del popolo padano. Si, Maroni: lui, lo spauracchio delle mafie del Sud. Quelle del Nord, no! asserisce: non esistono e, se per caso, dovesse trovarvisi una labile traccia, non riguarderebbe certo la Lega. Ci mancherebbe.
E’ bello che ci sia qualcuno che dica queste cose. Altrimenti non ci crederebbe nessuno. Ma quel che mi sembra veramente toccante è l’ispirazione cristiana che guida la Lega. Pensate che Bossi - mi dicono - non esce mai di casa senza portar seco i quattro Vangeli, stampati in unico volume, in elegante brossura a caratteri argentati. Soprattutto da quando ha superato l’ictus: è più fervente, più sensibile, più fraterno. Il dolore converte al bene! Durante la malattia si dice che sia stato sfiorato dal dubbio, poverino: lui che di dubbi in vita sua non ne ha mai avuto. Non si spiegherebbe, d’altronde, diversamente la cordiale simpatia che tanti autorevoli rappresentanti di santa romana Chiesa, dimostrano verso la Lega. Mons. Fisichella appare il più equilibrato e bonario, ma non è il solo. Si sarebbe verificato finanche un caso subito messo a tacere. Comprensibilmente. Secondo voci vicine all’éntourage del leader, Bossi sarebbe entrato in rotta di collisione con la moglie, peraltro, una meridionale riciclata, per amore, al leghismo. Si sarebbe trovato ad un passo dal divorzio, poi però, dando ascolto agli amici e sodali verdi, si è ravveduto. In fondo la terrona tutto sommato è la madre del Trota, che com’è risaputo non pare un modello di ingegno. Per cautelarsi Bossi può sempre affermare che metà del patrimonio genetico del rampollo non appartiene alla razza Nordica, cioè al ceppo Ariano: pardon “padano”.
A rigore “il trota” è un ibrido: mezzo padano, mezzo terrone. Doloroso per un padre di famiglia che ha sempre creduto nel carisma della razza eletta ritrovarsi con un figlio meticcio.
lunedì 12 marzo 2012
Il voto della Curia alla morale dei professori di religione
“Repubblica – Palermo”
11.3.2012
Il voto in condotta ai docenti di religione
Il filosofo greco Zenone deve la celebrità all’aver inventato la dimostrazione per assurdo: partire da una premessa che non si condivide e mostrare che – se si arriva a conclusioni assurde - tale premessa era falsa. La vicenda della Curia arcivescovile di Palermo che, unica in Italia, chiede ai parroci un certificato di buona condotta per tutti i docenti di religione è un’interessante applicazione del metodo dialettico di Zenone. La premessa: lo Stato democratico deve farsi carico dell’educazione cattolica di tutti gli studenti di ogni ordine e grado (a meno che qualcuno non faccia esplicita richiesta di esonero). E’ una premessa logica, condivisibile? Pare che nessun ragionamento diretto riesca a dimostrarne l’insostenibilità: né la necessità di uno Stato sempre più laico a fronte di una società etnicamente e religiosamente sempre più pluralista né la necessità di concentrare le risorse finanziarie su insegnamenti di base destinati all’universalità degli alunni. L’alternativa a questo stato di cose irragionevole non sarebbe, ovviamente, l’eliminazione tout court delle tematiche religiose dai curricula scolastici. Si tratterebbe piuttosto di trasformare l’insegnamento della religione cattolica in insegnamento di storia delle religioni (al plurale) affidato a docenti che abbiano superato un concorso statale pubblico esattamente come i colleghi che insegnano storia della filosofia o matematica.
Ma se non è facile dimostrare direttamente l’insostenibilità della normativa attuale, la Curia palermitana si sta preoccupando di dare una mano preziosa, portandola alle estreme conseguenze logiche: sino a evidenziarne l’assurdità. Infatti non basta che l’insegnante di religione cattolica sia competente in teologia cattolica (pur ignorando, in ipotesi, le basi essenziali dell’islamismo o dell’induismo), deve essere anche praticamente in linea con le esigenze della morale ecclesiastica. I colleghi di religione, in questi anni, mi hanno ripetutamente confidato l’elenco dei requisiti etici che vengono loro richiesti. Devono brillare per puntualità nel lavoro e per spirito di cooperazione? Devono essere esenti da favoritismi in sede di scrutini finali? Devono mostrare particolare attenzione agli alunni meno favoriti intellettualmente o socialmente? Devono esercitare senso critico nei riguardi delle eventuali malefatte di politici corrotti? Devono testimoniare netta distanza dalla mentalità e dalla prassi mafiosa? Devono manifestare in parole e opere la sobrietà nell’uso delle ricchezze e la bellezza della condivisione con gli sfruttati della società ? Niente di tutto questo. Né di altri principi tipicamente evangelici. Essi sinora sono stati ‘monitorati’ sulla base di altri criteri (più o meno opportuni ma che certamente non si trovano nel messaggio originario evangelico né nel solco della grande tradizione della santità cristiana): se si è eterosessuali o omosessuali; se si vive da sposati, separati, divorziati o conviventi; se si frequentano più o meno noiose attività parrocchiali; se si partecipa o meno a movimenti di riforma della chiesa cattolica; se si appartiene o meno a gruppi di ricerca religiosa di stampo orientale; se si esprimono pubblicamente, sulla fecondazione artificiale o sull’eutanasia, idee in contrasto con la dottrina del papa e dei vescovi…
Il quadro complessivo è tre volte paradossale. Infatti porta ad avere insegnanti di religione allineati e coperti con le direttive di un organo istituzionale (la Chiesa) diverso da chi li stipendia (lo Stato). Quando qualche docente non si sente in sintonia con il magistero ufficiale - per esempio perché convive con un compagno dell’altro sesso o del proprio – deve imparare a camuffarsi e ad attivare strategie ipocrite di mascheramento. Qualora, infine, né si è sinceramente fedeli alle direttive vaticane né si accetta di vivere clandestinamente, si può fare tranquillamente outing: tanto, da alcuni anni in qua, chi perde l’autorizzazione ecclesiastica ad insegnare religione cattolica, purché abbia una laurea di riserva, ha diritto di restare nella scuola come titolare di altra cattedra. Niente male! Sino a due secoli fa la scomunica comportava il rogo in piazza: oggi si rischia soltanto la condanna di fare il professore a vita.
Augusto Cavadi
L’eurodeputato della Lega Nord, Fontana,
su “Il Dio dei leghisti”
Ho inviato all’edizione veronese del “Corriere della sera” questa nota (rimasta debitamente inedita):
Con sincera gratitudine ho accolto l’attenzione del parlamentare europeo Lorenzo Fontana al mio recente volume dedicato alla teologia leghista. La mia gratitudine sarebbe stata completa se l’esponente della Lega Nord non si fosse limitato a leggere la fascetta pubblicitaria (e forse, ma non ci giurerei, a sfogliare velocemente l’indice): infatti ciò gli avrebbe consentito di rivolgermi delle critiche altrettanto pesanti, ma sulla base di ciò che ho veramente scritto. Nella speranza di un eventuale confronto pubblico con l’illustre interlocutore mi limito a due o tre flash.
Il primo riguarda le imbarazzanti analogie che ho trovato fra Cosa nostra e Lega: la questione non è se il parallelo sia “squallido” o meno, ma se sia fondato oppure no. Qualora infatti la Lega Nord si comportasse, un po’ troppo spesso, come una cosca mafiosa e Bossi come un boss, la colpa sarebbe di chi nota simili comportamenti o di chi li pratica? Il secondo flash riguarda le edizioni cattoliche che hanno ospitato il libro di Bertezzolo e il mio: devono scegliere i propri autori in base alle possibili ricadute elettorali o, invece, seguendo il criterio della serietà scientifica e del rigore argomentativo? Provi Fontana o qualche suo sodale di partito a scrivere un testo ben documentato e a inviarlo all’Emi o alla San Paolo: sono certo che sarebbe ospitato con altrettanta disponibilità. E’ un po’ la vecchia questione dei comici di sinistra e di destra: che ci possiamo fare se un comico arguto e di successo non riesce a dirsi mussoliniano o berlusconiano? Ma il punto decisivo è il terzo ed ultimo. L’europarlamentare della Lega sostiene che il suo partito è perfettamente congeniale alla Chiesa cattolica: quando leggerà il mio libro, anche a saltare da palo in frasca, capirà che è esattamente ciò che scrivo io. Dov’è la differenza? Che a lui le simpatie leghiste del vescovo Maggiolini o del cardinale Biffi risultano gradite e incoraggianti, a me preoccupanti e scandalose. Queste affinità elettive infatti mi suscitano il sospetto che quelle aree cattoliche che trovano accettabili certe politiche nei confronti degli immigrati - o delle coppie di fatto o dei malati terminali desiderosi di vedersi staccare la spina – siano un travisamento, o un tradimento, del vangelo di Gesù. Cattolici e leghisti lo si può essere? Evidentemente sì. I dati che riporta Fontana (il 39% dei leghisti si dicono cattolici praticanti) sono presi dal mio libro. La vera questione è un’altra (ammesso che non si identifichi l’essere cristiani con il dirsi cattolici): si può essere anche cristiani e leghisti? Ho scritto il libro per dimostrare, da teologo laico, perché i primi cristiani avrebbero ritenuto da folli farsi seguaci di Bossi, del dio Po e del cerchio magico di un padre-padrone e perché i leghisti sarebbero i primi a mandare a morte Gesù qualora ritornasse per qualche giorno in mezzo a noi a sconvolgerci con la sua parola spiazzante e universale. Se questa inconciliabilità fra messaggio evangelico e cattolicesimo identitario, piccolo-borghese, non è vera, sarò felice che qualcuno me lo dimostri. Con fatti e ragionamenti, preferibilmente.
Augusto Cavadi
domenica 11 marzo 2012
“Io e Dio” di Vito Mancuso
“Centonove”
2.3.2012
TRA IO E DIO NON METTERE IL DITO (FILOSOFICO)?
Chiedersi che ne è dei miliardi di umani che sono passati, che passiamo e che passeranno su questo pianetino disperso nel multiverso, chiedersi il senso di “questa vita che se ne va, nessuno sa dove” , significa porsi la domanda su Dio – intendendo con questo nome convenzionale il “fondamento” e la “direzione” della totalità dell’essere, “principio e fine di tutte le cose”. Ma “oggi non solo il parlare, ma lo stesso pensare Dio è diventato quasi impossibile, soprattutto se, parlandone e pensandolo, non lo si vuole fare contro, o a prescindere dal mondo”. Consapevole della difficoltà dell’impresa, Vito Mancuso (già noto a un vasto pubblico per il best seller L’anima e il suo destino) prova ad affrontarla con la sua ultima fatica: Io e Dio. Una guida per i perplessi (Garzanti, Milano 2011). Si tratta di un libro di “teologia fondamentale” (da non equivocare nel senso che si tratti, enfaticamente, di un libro ‘fondamentale’ - cioè capitale, decisivo, indispensabile – di teologia): un libro, piuttosto, che appartiene a quella disciplina che, nel curriculum degli studi teologici, si situa a cavallo fra il biennio filosofico e il triennio teologico e che si occupa dei ‘fondamenti’ (cioè delle condizioni di possibilità) della teologia. Ci sono delle questioni che fanno da ponte fra la filosofia e la teologia: esiste Dio? Se esiste, ha parlato di sé nella storia dei profeti e in Gesù di Nazareth? Se ha parlato (rivelazione) ha affidato questa rivelazione a un organismo storico infallibile e indefettibile (magistero cattolico)? Sono i problemi pre-liminari (ante limen): grosso modo i preambula fidei di Tommaso d’Aquino, l’apologia del cristianesimo di un Pascal, l’apologetica moderna di un Lang, di un Falcon, di un Adam, di un Tresmontant. E’ in questa zona di confine fra filosofia, storia, letteratura, esegesi biblica e teologia vera e propria che si pone il volume di Mancuso.
• Ragioni di condivisione
Come ho avuto modo di dichiarare al Palazzo Steri di Palermo, nel corso della presentazione pubblica, con Mancuso, di Io e Dio, ho trovato molte ragioni di consenso. Essenzialmente tre. Innanzitutto sono convinto che ci sia bisogno in tutte le aree disciplinari (filosofia, letteratura, fisica, psicologia…dunque anche teologia) di evitare i castelli separati dal resto del mondo da fossati incolmabili. Come da decenni mi sforzo di divulgare una “filosofia per non…filosofi” (che, almeno nelle intenzioni, non è meno rigorosa della filosofia liceale e universitaria, ma certamente meno tecnica e più orientata a sostenere gli interrogativi sinceri dell’uomo della strada), così trovo preziosissima una “teologia per non… teologi” quale definirei il tipo di teologia di Mancuso, di cui questo libro costituisce un altro importante tassello che ne mostra la praticabilità effettiva.
Il successo editoriale di questo genere di teologia - imparagonabile con i testi accademici, pesanti, autoreferenziali della media dei teologi ‘istituzionali’ – potrebbe contribuire a superare, nel tempo, un divario ormai secolare fra sapere teologico e saperi laici. E’ noto che nel 1861 lo Stato liberale ha stipulato con la Chiesa cattolica un contratto apparentemente conveniente per entrambi, in realtà disastroso: la Chiesa avrebbe mantenuto il monopolio delle facoltà teologiche e lo Stato non avrebbe speso una lira per cattedre di teologia nelle università statali. Risultato: la cultura cattolica si è chiusa a riccio, auto-riproducendosi come se la storia della scienza e della filosofia e delle arti non andasse avanti; la cultura laica, da parte sua, si è privata degli stimoli (anche solo a livello di informazione) che le sarebbero potuti arrivare da uno studio serio della Bibbia e della tradizione cristiana. Contribuire a sanare questa frattura è un secondo, notevole merito dell’attività teologica di Mancuso (e, in particolare, di questo suo libro).
Almeno un terzo motivo di consenso vorrei infine segnalare. Ci sono molti cattolici, più svegli e più onesti dei confratelli, che lavorano per la riforma della Chiesa cattolica in un’ottica interna: hanno il mio affetto ammirato, ma temo che siano impegnati in una fatica di Sisifo senza alcuna possibilità di successo. Ormai la Chiesa cattolica, dopo duemila anni di pietrificazione dottrinaria e istituzionale, non è riformabile: o sopravviverà così com’è (attirando le persone in cerca di certezze paternalisticamente somministrate) o si romperà. Perciò non vale la pena perdere tempo per tentare di convincere papi e cardinali, vescovi e teologi di corte, sulla necessità di rivedere i dogmi più inverosimili (dalla verginità biologica della Madonna “prima, durante e dopo il parto” all’infallibilità del romano pontefice quando parla ex cathedra): mentre si discute del sesso degli angeli, Costantinopoli brucia. Meglio occuparsi di problemi più vasti rispetto all’ambito ecclesiale cattolico: i problemi della cristianità. Anzi, più ampiamente ancora: i problemi del monoteismo (ebraico, cristiano, islamico). Anzi, più fondamentalmente: i problemi della religiosità naturale o, se si preferisce, della spiritualità umana. Le questioni intra-ecclesiali cattoliche si possono risolvere – o dissolvere – solo se si aprono le finestre della Chiesa e si lasciano entrare i venti della storia culturale contempomporanea. E’ su questa ampiezza di orizzonti, ben oltre le logiche tribali e le diatribe parrocchiali, che Vito Mancuso ci invita ad affacciarsi.
• Ragioni di perplessità:
Come tutti i libri importanti, anche questo suscita interrogativi e “perplessità”. Mi limito ad una sola osservazione di fondo. L’autore sostiene che la fede (e dunque la teologia, fede pensata) si basa sul sentimento (inteso non come stato emotivo, ma come coinvolgimento interiore e globale del soggetto). Benissimo. Ma egli aggiunge - sulla scia di Kant, di Fichte e di James – che anche per la filosofia sia così. Egli sostiene che, in ultima analisi, le opzioni filosofiche di fondo sono opzioni: cioè decisioni esistenziali, scelte etiche. Ebbene, su questo punto non sono d’accordo. Infatti ritengo che , di fatto, spesso è così: spesso, certamente, i pensatori prima si orientano sentimentalmente verso una soluzione (teoretica o etica o politica) e poi cercando di giustificarla razionalmente. Ma questa non è la fisiologia, bensì la patologia della filosofia. Di diritto, per principio, il criterio ultimo per il filosofo (a differenza del teologo, suppongo) dev’essere il ragionamento. Intendiamoci: c’è una filosofia che si illude di essere solo cerebrale e, quando ci riesce, diventa sintomo di quella follia (di cui parlava Chesterton) consistente perdere tutto, tranne la ragione. Ma, esclusa questa idea (purtroppo egemone fra i filosofi di professione odierni) , dobbiamo essere più precisi: la filosofia è ‘anche’ - non ‘solo’ o ‘prioritariamente’ - espressione del sentimento e degli orientamenti etici. Sul piano personale, delle storie soggettive, ha ragione Rousseau: prima vengono i sentimenti, poi i pensieri. Prima avverto il fascino della giustizia, poi scrivo un trattato sulla preferibilità della giustizia rispetto all’ingiustizia; prima avverto il fascino dell’amicizia, poi rifletto sulla preferibilità dell’amicizia all’isolamento egoistico. Ma sul piano oggettivo, dei ‘prodotti’ filosofici finali, non può andare così: se ragionando non trovassi argomenti validi a favore della giustizia rispetto all’ingiustizia, o dell’amicizia rispetto all’isolamento egoistico, non potrei dire di aver compiuto un lavoro filosofico. Potrei dire che ho ‘fede’ nella giustizia o nell’amicizia: ma non che ‘so’ cosa siano e soprattutto perché siano da preferire ai loro contrari. Nell’ipotesi - assai poco gradevole – che il ‘cuore’ mi portasse verso la giustizia e l’amicizia e la ‘mente’ mi convincesse che hanno ragione gli ingiusti e gli egoisti, dove dovrei orientarmi? Il teologo non ha dubbi e va dove porta il cuore. Il filosofo non se lo può permettere senza il lasciapassare della mente che preferisce la più amara delle verità ‘oggettive’ alla più dolce delle illusioni ‘soggettive’.
Augusto Cavadi
sabato 10 marzo 2012
Ci vediamo oggi, anzi “da” oggi... a Capaci?
BREVE CORSO PER ANALFABETI (DELLA POLITICA)
La democrazia non è un sistema di governo perfetto. Come è noto, il suo pregio migliore è che le alternative sinora sperimenatte sono peggiori. Come fruire dei vantaggi di un regime democratico senza subirne le conseguenze negative? La risposta non è semplice, è la somma di molti segmenti. Ma una cosa è certa: la democrazia funziona se chi vota è libero. Se si vota sotto la minaccia di un datore di lavoro che può licenziarti o sotto il ricatto di un mafioso o sotto l’ipnosi di una propaganda a reti unificate…non si è liberi: il risultato, alla fine, sarà un parlamento senza dignità e un governo fuori controllo. Ma a vanificare la democrazia non sono solo nemici ‘esterni’ a noi, in carne e ossa: spesso il virus che ci stordisce è dentro di noi. Si chiama pigrizia, ignoranza, menefreghismo. E’ la malattia tipica del qualunquista che prima non si impegna né a candidarsi né a scegliere i candidati giusti (o, per lo meno, i meno peggiori) e, poi, a cose fatte, si lamenta perché va tutto a catafascio.
Per chiunque - giovane o meno giovane – volesse qualche strumento di prima alfabetizzazione per orientarsi in politica, la nostra rivista (in collaborazione con l’associazione Helios e con la Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” di Palermo) proverà ad offrire una serie di incontri seminariali. Non conferenze unilaterali, ma luoghi di scambio, di riflessione e di confronto sull’abc delle pratiche politiche. Il piano di lavoro è talmente elementare che costituisce una piattaforma preliminare a qualsiasi ulteriore scelta partitica: dunque chi si iscrive può essere sicuro che nessuno cercherà di agganciarlo a questo o a quell’altro schieramento. L’obiettivo degli organizzatori non è di raccogliere consensi elettorali per la destra, il centro o la sinistra: più modestamente, o forse più ambiziosamente, è che - al termine del corso – chi voterà a destra, a centro o a sinistra sappia perché lo ha fatto. E chi non voterà, abbia la consapevolezza che anche l’astensione è un modo di condizionare gli esiti elettorali.
Il corso inizia oggi con una tavola rotonda alle 16,30 e proseguirà secondo il calendario pubblicato sul blog: http://www.scuolafalcone.it/
mercoledì 7 marzo 2012
Intervista a “Il fatto quotidiano” su “Il Dio dei leghisti”
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/05/leghisti-fede-militanti-chiesa-secondo-carroccio/195640
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“Il dio dei leghisti”: la fede dei militanti e la Chiesa secondo il Carroccio
Un’inchiesta di Augusto Cavadi analizza come possa conciliarsi la fede cristiana con un movimento portavoce di messaggi xenofobi che ha costruito il mito del dio Po
“Il dio dei leghisti” (Edizioni San Paolo)
“Noi, come molti fondamentalisti cattolici, pensiamo che la nostra fede sia tutt’uno con la nostra identità. E non dimentichiamo mai che è stata il sostegno più grande nella lotta di sempre: quella contro gli islamici”. Angelo Alessandri, presidente federale della Lega Nord, esprimeva così nel 2007 la visione cristiana del Carroccio. Nel partito di Bossi il 39% dei militanti è cattolico praticante e una percentuale ancora superiore è credente. Ma come può conciliarsi la fede con un movimento che ha costruito il mito pagano del dio Po e che si è fatto portavoce di messaggi xenofobi e feroci attacchi ai musulmani?
Augusto Cavadi, membro dell’Associazione teologica italiana e tra i maggiori esperti del rapporto fra cattolicesimo e associazioni criminali, indaga il rapporto tra Lega Nord e Chiesa nel suo libro “Il dio dei leghisti” (Edizioni San Paolo), per capire “se sia la tradizione cattolica ad avere prodotto le menti leghiste o se siano state le menti leghiste ad avere stravolto la dottrina cattolica”.
“La questione identitaria è centrale – spiega l’autore – perché la religione è interpretata come fattore di unità etnica e di identificazione simbolica. Poi, diventa quasi marginale se a rappresentarlo è il Po o il crocifisso”. Il diritto e il primato delle proprie radici, garantito dalla tradizione, si traduce anche nella costruzione del senso di comunità definita per comunanza di lingua, razza e colore della pelle. E in cui il ‘prossimo’ evangelico è identificato solo nel ‘padano’. Per il senatore Piergiorgio Stiffoni, ad esempio, “l’immigrato non è mio fratello, ha un colore della pelle diverso. Cosa facciamo degli immigrati che sono rimasti in strada dopo gli sgomberi? Purtroppo il forno crematorio di Santa Bona non è ancora pronto”. Dichiarazioni contrarie allo spirito di accoglienza e uguaglianza di Cristo.
“Quello leghista è un cattolicesimo che definisco ‘anticristiano’ – puntualizza Cavadi-, ma è necessario distinguere il piano della militanza da quello della dirigenza”. Gli elettori leghisti infatti, “sono sinceramente convinti che la difesa del crocifisso e il contrasto all’avanzata dell’Islam siano dimostrazioni di fede. I vertici invece cercano di attrarre l’elettorato cattolico moderato e la frangia più integralista attraverso temi bioetici, da Eluana Englaro alla Ru486”. Battaglie legittime, ovviamente, “ma strumentalizzate dal Carroccio che intravede in alcuni rappresentanti più tradizionalisti della fede, come il cardinale Biffi e monsignor Maggiolini, la garanzia della civiltà occidentale”.
Un cattolicesimo ad hoc voluto dalla la Lega che, come propose Mario Borghezio, auspicava la nascita di una Chiesa del Nord “autonoma da Roma, che avrebbe gestito per sé il proprio otto per mille, i propri fedeli, i propri santi” e “a sei minuti di macchina dal Parlamento di Mantova”. Un uso per fini politici divenuto ancora più evidente dopo la malattia di Umberto Bossi. “Prima del 2004 il Senatùr era più vicino a posizioni pagane, tra il mito della Padania e il dio Po. Per lui il crocifisso era l’equivalente di un amuleto e il papa ‘straniero’ Woytyla, secondo lui, era venuto per ‘rubare il lavoro’ ad altri eventuali pontefici italiani”. A seguito dell’ictus si è compiuta la svolta, incentivata dall’avvento di Ratzinger “con cui la narrazione leghista si avvicina al cattolicesimo più tradizionalista”. Lontano, però, dal messaggio evangelico.
“Eppure questo non è un libro contro i leghisti che si dicono cattolici – puntualizza Cavadi – Esprime piuttosto una critica nei confronti della Chiesa che non trova incoerenze a sponsorizzare un leghismo dalla parte del potere, del profitto e favorevole alla caccia allo straniero. Contraddizioni evidenti chi è fedele al messaggio di Cristo. “Per quanto mi riguarda – conclude l’autore – se il dio dei leghisti è garante delle tradizioni, baluardo contro gli stranieri, assicuratore contro le incertezze della storia, posso dichiarare serenamente che è un dio in cui non credo”. Perché creato a immagine e somiglianza del Carroccio.
martedì 6 marzo 2012
Francesco Azzarello su “Il Dio dei leghisti”
Dall’ex-alunno, e adesso fraterno amico, Francesco Azzarello (che insegna filologia romanza all’università di Friburgo in Br.), ho ricevuto una interessantissima recensione che pubblico con qualche mia considerazione supplementare.
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Augusto Cavadi, Il dio dei leghisti, San Paolo, Cinisello Balsamo 2012
È da pochissimo uscito presso la casa editrice lombarda “San Paolo” Il Dio dei leghisti del filosofo consulente, teologo, attivista antimafia e noto editorialista palermitano Augusto Cavadi. La collaborazione fra l’autore e l’editore rimonta invero a tre anni fa, alla pubblicazione di Il Dio dei mafiosi in cui Cavadi si interrogava sul paradosso dei padrini teologi, quello dei preti mafiosi e più in generale sulla conciliazione dell’inconciliabile: il vangelo e la lupara. Buona parte del Dio dei leghisti si rifà al Dio dei mafiosi. Il materiale d’analisi (dichiarazioni ufficiali, interviste), gli strumenti interpretativi (codici culturali, teologie implicite ed esplicite, diagnosi e terapie) e gli intenti dei due libri sono gli stessi: 1) individuare un gruppo di “pecore” francamente improbabili e chiarire (diagnosticare) come mai questi e la loro teologia implicita o esplicita abbiano trovato fra i pastori non solo un orecchio accogliente ma addirittura complicità, simpatia e affinità teologica; 2) proporre alla Chiesa una terapia a base di principi teologici oggettivamente antimafiosi/radicalmente evangelici, che rendesse l’aria delle sagrestie irrespirabile per certi soggetti.
Ne Il Dio dei leghisti l’assetto teorico viene, con qualche rimando al Dio dei mafiosi, più o meno dato per scontato. In effetti, chiarisce subito Cavadi, l’idea di scrivere un libro sul Dio dei leghisti gli è venuta su richiesta di vari lettori del Nord che gli avevano addirittura assicurato che sarebbe bastato cambiare lievemente il titolo e risparmiarsi ulteriori fatiche. La genesi del libro spiega così la scelta (metodologicamente immotivata) di dedicare il primo capitolo del libro ad affinità e differenze fra mafia e Lega. È vero che Cavadi minimizza e sottolinea più volte che Lega e Mafia non sono fenomeni “identificabili” ma l’accostamento è stato fatto e non c’è poi tanto da meravigliarsi se i leghisti hanno reagito al libro con lo stile diretto (che spesso sacrifica la profondità della riflessione all’efficacia illocutiva del messaggio) tipico del loro movimento. Per di più il capitolo si conclude con una frase estremamente chiara: Cosa Nostra e Lega non sono la stessa cosa ma le affinità sono più delle differenze. Il ricorso al metodo della violenza (fisica o verbale, verso fuori e/o dentro) è dimostrato in modo così solido da potersi dichiarare certamente comune a entrambi i fenomeni. Ma, mi permetto di notare — affinché i leghisti schiumino un po’ meno rabbia —, il fine dell’accumulo di potere e ricchezze (evidente nella mafia) è per quanto riguarda la Lega abbastanza labilmente motivato (relativamente all’accumulo di ricchezze; l’accumulo di potere è chiaramente dimostrato).
Ma a far arrabbiare i leghisti devoti (già sbugiardati nel primo capitolo), con molta più ragione, dovrebbero essere i tre robusti capitoli sul codice culturale del loro movimento, definitivamente smascherato come tutt’altro che evangelico. Con uno stile molto semplice e senza sommergere il lettore in sottili distinguo teorici Cavadi snocciola le idee politiche della Lega in pochi (ma buoni) tratti: stile reattivo, intangibilità delle proprie radici, razzismo regionalistico, tribalismo ipermoderno, concezione dello Stato come superfetazione artificiale e concezione leninista temperata del partito.
Il capitolo relativo ai principi etici della Lega segue sullo stesso registro ma regala al lettore anche una nutrita carrellata di pittoreschi dicta leghisti, di cui fornisco qui di seguito una selezione personale (fra parentesi): familismo amorale, idiotismo politico, laboriosità eroica, perbenismo moralistico, xenofobia provinciale (Mario Borghezio: La lega non cambia linea. Vogliono l’8 per mille? Noi ai clandestini bastardi gli diamo il mille per mille di calci in culo con la legge Bossi-Fini), maschilismo esibizionistico (Leghista bresciano anonimo: Non sono e non sono mai stato razzista: per me anche le bianche sono, in fin dei conti, delle puttane), omofobia ossessiva (Giancarlo Gentilini, sindaco di Treviso: Darò subito disposizioni alla mia comandante dei vigili del fuoco affinché faccia pulizia etnica dei culattoni), populismo cacofemico, orgoglio dell’ignoranza.
Le concezioni teologiche della Lega si riassumono in una sorta di panteismo naturalistico (Il Dio Po) in cui Gesù diventa un mero simbolo di appartenenza etnica, la chiesa “una cosa nostra” e la religione un collante sociale identitario, dove il sacro è ridotto al “socialmente programmato” e il prossimo di evangelica memoria è, con miopia più o meno innocente, interpretato come chi al leghista è familisticamente (o utilmente) più prossimo.
Se con i leghisti l’analisi condotta nel libro non è stata tenera, il cattolicesimo, nel suo prosieguo, non se la passa tanto meglio. Come mai un movimento così poco affine al Vangelo come la Lega riscuote simpatie fra cattolici fuori o dentro alla Lega stessa (pare che il 39% dei leghisti si dichiari cattolico praticante)? Nel capitolo diagnostico (Quale cattolicesimo va bene alla Lega?) compare la tesi di fondo di Cavadi: la Lega si sente in diritto di rivendicare e cavalcare un certo tipo di cattolicesimo, quello che s’infiamma per banalità identitario-territoriali (crocifissi ai muri delle scuole, proibizione di moschee in città ecc.), perché alcuni cattolici pensano identitariamente. Perché lo fanno? Non perché sono cattivi e in mala fede (come il sentire comune — che fa dei cattolici non religiosi dei fanatici e dei chierici una banda di camorristi in gonnella — vorrebbe) chiarisce Cavadi ma perché credono che questo atteggiamento sia stato legato loro niente meno che da Gesù stesso, per cui il fine della salvezza giustificherebbe tutti i mezzi e le peggiori frequentazioni (p.e. quelle democristiane un tempo, quelle mafiose talora, quelle dittatoriali ieri e quelle leghiste oggi).
Alla diagnosi segue, come è tipico nei libri di questo autore, anche una terapia che prende molto sul serio il concetto dei “valori non negoziabili” (nemmeno a prezzo della salvezza) tanto caro ai fondamentalisti. Ed è una terapia all’insegna della riscoperta del Vangelo: del Dio agapico (fonte di amore gratuito e inesauribile per tutte le sue creature), del logos universale (declinato e declinabile cioè da tutte le sue creature), della Chiesa sacramento (capace cioè di annunciare in segni chiari a tutti, non solo al suo gregge culturalmente alfabetizzato dal catechismo, la buona novella), di una spiritualità laica (meno preoccupata di questioni burocratiche e organizzative interne e più di annunciare il Vangelo), della fede intelligente (probabilmente il capitolo più divertente di un libro che senza rinunciare al rigore analitico ricorre spesso all’umorismo di fronte all’orrore della xenofobia e della violenza), della martiría (politica e non-violenta) cristiana e in generale contrapporre all’identità stantia e materialista di una casta sociale quella proteiforme cristiana, consapevole di non corrispondere a un documento prefabbricato ma a un progetto esistenziale, in cammino verso tutto il genere umano e verso il Regno che era e (per i cristiani) è vicino, dove non ci sarebbero stati né ebrei né gentili ma ci saranno solo e semplicemente figli e figlie di Dio. Tutte posizioni che una parte consistente (ma per nulla cacofemica e forse per questo meno percepita di altre retoricamente più colorite) del Cattolicesimo contemporaneo sposa e considera già non negoziabili.
Cavadi — ci mancherebbe altro — non chiede alla Chiesa degli apparati scomuniche ma una sorta di esame di coscienza (di cui lui, appoggiandosi ad altri teologi cattolici, delinea i tratti essenziali) che produca intorno alla Chiesa un’atmosfera irrespirabile per leghisti e simili. Credo che qui — lo dico con preoccupazione e nello spirito di dialogo che anima il libro — si inizi a vedere il primo dei due limiti teologici del libro. Limiti non in senso filosofico ma proprio fisico, di limiti invalicabili cioè, e non solo per quella parte di cattolici identitario-territoriali che vorrebbe rendere irrespirabile l’aria a musulmani, omosessuali, divorziati ed extracomunitari ma anche per quel settore illuminato di cattolici (che Cavadi cita in dettaglio nell’ultimo capitolo del libro e nomina più velocemente nel divertentissimo paragrafo sulla riscoperta della fede intelligente) che hanno già riscoperto i valori di cui sopra. Spero di mostrare qui di seguito che questi limiti sono tutt’altro che invalicabili, anzi che la storia del cristianesimo pratico li ha già valicati e quindi devono essere superati anche da chi fa teologia cristiana.
Il primo limite non è poi così arduo da superare. Certo è difficile che la chiesa si faccia volontariamente irrespirabile, insopportabile per qualcuno perché Gesù sedeva a tavola coi peccatori e con i giusti, con i poveri ma anche con i ricchi, con gli ebrei di tutte le categorie ma anche con i gentili (mi risparmio i rimandi evangelici perché so che non interessano a nessuno e i teologi a cui mi rivolgo li conoscono meglio di me). Ai sacerdoti e agli scribi dice con chiarezza quel che pensa, toglie sì loro il respiro ma solo dopo esserglisi seduto accanto. Certo non ne ha mai sposato opportunisticamente alcuna tesi (come fanno quei cattolici che per appendere qualche croce di legno su un muro osannano politici violenti e xenofobi). La questione per la Chiesa quindi non è tanto come rendere l’aria irrespirabile per qualcuno quanto, nello spirito di un’apertura universale, come si faccia a parlare chiaramente e coerentemente con i propri principi anche con i peccatori contro la carità (sacerdoti, scribi, dittatori, mafiosi, leghisti ecc.), ascoltando e facendosi ascoltare ma senza farsi strumentalizzare. Penso che le ricette antropologico-teologiche che al riguardo il Vangelo ci regala siano: il nomadismo, la semplicità e la povertà, la fiducia nel Padre, l’uso dell’intelligenza e l’anticonformismo. Tutte cose che la terapia di Cavadi peraltro, anche se con altri termini e per una via (come vedremo) un po’ diversa, propone così che, se c’è un limite da valicare fra i cattolici (illuminati e non) e la terapia di Cavadi, si tratta di un limite retorico e formale più che di una vera divisione sostanziale.
Un ostacolo più serio all’accoglienza da parte dei teologi cristiani della proposta terapeutica di Cavadi (e preciso a beneficio di chi non è cristiano, che si tratta di accoglienza discorsiva, che è poi quella che interessa a Cavadi e alla lunga dovrebbe interessare tutta la società, laici compresi) è costituito (che sorpresa!) dal problema dell’identità di Gesù. Cavadi non fa mistero che l’irrinunciabile del Cristianesimo (p. 130) è la concezione agapica del Padre. Il Figlio (pp. 140 s. e 144) non soltanto è rinunciabile ma, pur essendo esemplare, non accampa pretese di unicità filiale. Io non sono un teologo ma non credo ci voglia molto per comprendere che qui ai cattolici (anche a quelli illuminati; per le altre confessioni non lo so) cominci a entrare qualche dubbio che Cavadi sia tutto fuorché un cristiano. Sulle formulette del Credo (unigenito, non creato, di che sostanza è ecc.) non credo sia umanamente serio discutere e spero che i teologi mi perdonino. È che l’obiezione che vedo sorgere fra i cattolici illuminati alla terapia di Cavadi sta in qualcosa di molto più radicale: la fede nel valore dell’evento Cristo. Che vuol dire credere in Gesù? Credere che sia stato l’unico capace di incarnare fino in fondo l’amore agapico del Padre o credere che (anche) qualcun altro l’abbia fatto o possa farlo (meglio, o peggio) di lui? Al buon senso di Cavadi, che fiducioso nella straripante pienezza del Logos (141), vede sorgere Cristi dovunque si manifesti, anche solo (per) un po’, l’amore agapico del Padre nella vita di tutta l’umanità, la memoria cristiana contrappone la storicità della vita crocifissa e resuscitata di Gesù di Nazareth (almeno di quella che si conosce) che non si considerava certo l’unico figlio di Dio ma che Dio lo ha narrato come nessun altro prima e dopo di lui e — per usare una formula cara al Priore della Comunità di Bose Enzo Bianchi, cattolico illuminato —definitivamente. Ma se non si traduce questa fiducia nell’evento Cristo in buon senso agapico, non si rischia di mancare la lezione di quello stesso evento? Non ci vorrebbe poi tanto e del Cristianesimo non si perderebbe la memoria: basterebbe giustapporre alla fiducia nel buon senso (che dona valore a grandi movimenti spirituali ma anche ad eventi con meno sostanza, come un testo o un evento storico puntuale), la fiducia nell’incarnazione (che il cristiano considera testimonianza duratura, fedele, radicale e salvifica dell’amore del Padre).
Per me che non sono teologo, come molti dei lettori, il limite fra fiducia nell’incarnazione e nel buon senso sembra molto sottile ma chi ha un po’ di dimestichezza con le dinamiche comunicative (scientifiche e non) sa che su queste sottigliezze si costruiscono torri di Babele e steccati retorici di infauste conseguenze. Mi auguro che quanto io ho intravisto non releghi la riflessione di Cavadi (espressa anche in altri libri e in diversi articoli) fra quelle proposte talmente rivoluzionarie da essere considerate irrespirabili e quindi passate sotto silenzio dopo essere stigmatizzate come non cristiane. Lo auguro a me e a chi mi sta intorno perché sarebbe un’occasione di chiarezza perduta, e il Cristianesimo lungi dal perdere il suo sapore e la sua identità straniera alla logica del mondo, mancherebbe una possibilità intelligente di trovare una linea retorica che lo rendesse capace di parlare con tutti, anche con chi (per motivi confessionali o meno) proprio non se la sente di credere alla divinità di Cristo. E se l’evento Bossi-a-braccetto-di-un-vescovo-cattolico dice qualcosa al nostro tempo, è che di Cristianesimo c’è molta urgenza.
Ad ogni modo, mi conforta pensare che la riflessione scientifica arriva sempre più tardi e segue sempre la coda delle comete storiche. Penso che in un passato non troppo recente la traduzione dalla fiducia condizionata all’evento in quella incondizionata dell’amore è di fatto già stata compiuta da alcuni umili cristiani. I monaci trappisti di Tibhirine (Algeria), memori di un evento vecchio di duemila anni e fiduciosi nel suo valore, hanno creduto tanto all’amore del Padre da saper vivere cristianamente in un paese musulmano senza cadere in proselitismi programmati e ipocrisie: dicendo chiaramente chi erano e cosa credevano, a parole e a fatti, restando fedeli alle loro tradizioni culturali ma soprattutto ai fratelli di un’altra religione, testimoniando l’amore del Padre e dei fratelli fino alla fine. Spero che la memoria di quest’altro evento cristiano ispiri buon senso e fiducia a chi vorrà decidere se discutere, o meno, seriamente la proposta di Cavadi.
Francesco Azzarello
Caro Francesco,
come nel tuo stile, la recensione che mi hai generosamente dedicato è attenta, documentata, argomentata. Te ne sono sinceramente grato.
Sulle due osservazioni critiche, desideravo avanzare altrettante considerazioni.
a) La prima vuole segnalare un equivoco che, probabilmente, è da addebitare a poca chiarezza da parte del mio testo. Tu, giustamente, sostieni che i teologi cattolici e le gerarchie cattoliche non accetteranno con facilità che “la chiesa si faccia volontariamente irrespirabile, insopportabile per qualcuno perché Gesù sedeva a tavola coi peccatori e con i giusti, con i poveri ma anche con i ricchi, con gli ebrei di tutte le categorie ma anche con i gentili”. Il fraintendimento sta nell’interpretare l’aggettivo “irrespirabile” in un senso differente dalle mie intenzioni: quando l’ho usato, infatti, pensavo non a provvedimenti disciplinari, intimidazioni autoritarie, scomuniche…(tutte cose che ritengo inaccettabili verso qualsiasi credente), bensì a un clima spirituale così serio, così aperto ai deboli, così diverso rispetto ai criteri mondani, da risultare inaccettabile ai leghisti (come – ne “Il Dio dei mafiosi” – auspicavo per i criminali in doppio petrto). Insomma pensavo ad una chiesa così fedele al vangelo da risultare paradossale, indigeribile, agli occhi di chiunque ragioni secondo la logica dominante del denaro e del potere.
b) Molto più calzante ho trovato invece la tua osservazione sulla difficoltà da parte dei teologi di condividere la cristologia che contrappongo alla cristologia leghista. In effetti, rispetto al magistero ufficiale cattolico, le mie posizioni sono eretiche, inaccettabili. Come sai bene, se devo scegliere su una questione fra ciò che pensano i papi e ciò che pensava Gesù e la comunità cristiana dei primi secoli, non ho dubbi per chi propendere: dunque, anche in questo caso, preferisco credere secondo la fede degli evangelisti e di Paolo anziché dei padri di Nicea spalleggiati, contro Ario, dall’Imperatore (pagano !) Costantino.
Mi sembra di aver capito, fra le tue righe, che tu metti in dubbio la corrispondenza fra la cristologia neotestamentaria e le concezioni teologiche di un Kueng o di un Panikkar o di un Drewermann, insomma con le concezioni teologiche in cui, nel mio piccolo, anch’io mi riconosco. Ma questa sarebbe una discussione che ci porterebbe assai lontano dalla …Padania (e che, come ricoderai, ho affronato più accuratamente ne “In verità ci disse altro”).
Un abbraccio affettuoso e un arrivederci a Friburgo o a Palermo,
Augusto
sabato 3 marzo 2012
Bruno Vergani su “Il Dio dei leghisti”
La recensione di Bruno Vergani a “Il Dio dei leghisti”
è pubblicata sul suo blog
(http://www.brunovergani.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=3394:il-dio-dei-leghisti),
su “Cronache laiche”
(http://www.cronachelaiche.it/2012/03/il-dio-dei-leghisti/)
e sul blog di don Giorgio De Capitani
(http://www.dongiorgio.it/pagine.php?id=2771&nome=prima)
I politici giovani sono migliori degli anziani?
“Repubblica – Palermo”
19.02.2012
LARGO AI GIOVANI PURCHE’ NON SIANO VECCHI
Con molto garbo, Francesco Renda suggerisce di incoraggiare il ricambio dei dirigenti nelle organizzazioni politiche e – conseguentemente – nelle istituzioni. L’invito , che discende dalla sua esperienza biografica e dalla sua competenza di storico, merita di essere raccolto con attenzione.
La prima considerazione è che si tratti di un invito opportuno, anzi urgente: la mentalità dominante, non solo in Sicilia, è ancora feudale. Basta comparare l’età media della classe dirigente italiana con il resto del mondo per avere la prova matematica di vivere in regime gerontocratico. Con le crescenti difficoltà di entrare nel mondo del lavoro e delle professioni, questa tendenza statistica andrà ad aumentare: se entri in banca o in ospedale dopo i trent’anni, è difficile diventare direttore o primario prima dei sessanta.
Questa prima considerazione sarebbe però monca senza almeno altre due. Innanzitutto che ai tempi di Francesco Renda un ventenne poteva diventare dirigente di partito o di sindacato perché, pur privo di esperienza, non era un analfabeta di diritto, di economia e di politologia. Oggi la situazione è disastrosamente mutata. Anche per responsabilità delle agenzie educative (scuola in primis) i nostri ventenni non distinguono la destra dalla sinistra; né in senso metaforico né in senso letterale. Ignari di cosa significhi Csm o Welfare State, della differenza fra deputato e ministro, non sono in grado né di leggere un giornale né di decifrare una notizia di telegiornale. La loro preparazione media gli consente, al massimo, di applaudire alle bordate contro la Corte Costituzionale sparate dal palco di Sanremo dall’icona dell’ignoranza nazionale. Dunque: andiamoci piano. Apriamo le porte ai giovani, ma che abbiano un minimo bagaglio di competenze. Altrimenti rischiamo di aggravare la malattia illudendoci di curarla.
Da aggiungere, infine, un’ultima notazione. Tra i giovani che hanno una discreta – o addirittura buona – conoscenza dei meccanismi istituzionali, ognuno è legittimamente portatore di una filosofia politica. C’è chi è progressista e chi è conservatore; chi ritiene insopportabile lo status quo attuale e chi lo difende con altrettanta passione; chi è disposto a pagare di persona per rompere vecchie logiche di potere e chi si trova a proprio agio nell’ereditare i metodi tradizionali di raccolta del consenso; chi persegue anticonformisticamente il bene comune e chi è sinceramente convinto che la politica serva a scalare i gradini del controllo sugli altri. Dunque non sempre la giovinezza anagrafica coincide con la giovinezza intellettuale, psicologica e morale. Di contro – è una conseguenza logica – può benissimo accadere che una persona anagraficamente matura, o addirittura anziana, sia ideologicamente ed eticamente più giovane di un’altra nata trent’anni dopo. Probabilmente il sindaco di Cagliari o il sindaco di Napoli costituiscono un esempio incoraggiante di novità politica supportata da novità anagrafica: ma ciò significa che Pisapia a Milano o Doria a Genova non lo siano altrettanto? Ogni politico - potremmo aggiungere per Palermo: ogni candidato a sindaco – ha una sua identità culturale, una sua mentalità e un suo stile. E su questi dati va giudicato. Altrimenti si cade dalla padella della gerontocrazia alla brace del giovanilismo di maniera.
Augusto Cavadi
venerdì 2 marzo 2012
Il Dio dei leghisti sul numero di “Jesus” in edicola
Sul mensile dei Paolini “Jesus”, in edicola nel corso di marzo, è stata pubblicata questa recensione di Francesco Anfossi:
Il dio dei leghisti:
spiritualista ed egoista.
Il libro che tutti i leghisti e tutti i parroci
dovrebbero leggere lo ha scritto un professore
di liceo palermitano, scrittore, saggista,
teologo, studioso di mafia. Augusto
Cavadi, autore del recente Il dio dei leghisti
(San Paolo), pone «una questione teologica
cruciale». E cioè: non farebbe meglio
la Chiesa cattolica a «riformulare la sua
scala di priorità, ricalibrandola con maggiore
attenzione sul messaggio evangelico?».
In concreto ciò significherebbe «chiarire (a
sé stessa, e conseguentemente ai partiti e
all’opinione pubblica) che prima di tutto
vanno individuati, abbracciati e difesi in
maniera efficace e verace alcuni principi
essenziali e indiscutibili (quei principi enunciati,
con la solennità di una carta di intenti,
nel discorso della montagna: le beatitudini
evangeliche)».
Quella di Cavadi è una cavalcata
nella storia della Lega, ricca di spunti e
aneddoti, con particolare attenzione ai
leghisti cattolici e alla loro ideologia, dalla
fase panteista bossiana a quella dello «scontro
di civiltà» e alla loro strenua difesa del
crocifisso. La scrittura è accattivante e non
ci si annoia mai. Anche quando si solcano
profondità teologiche, si ride, si sorride e si
piange. Se il saggio spiega con nettezza gli
errori di chi crede in Dio e nella Lega, interroga
e provoca soprattutto i non leghisti,
credenti e non, a cominciare dai sacerdoti.
Cosa può fare la Chiesa per non indulgere
nell’errore e non incoraggiare «una generazione
di leghisti che si sentono superiori
perché il pane l’hanno in casa e non sentono
più la necessità di provvedere al povero,
allo straniero?». E quanto alla Chiesa, quale
strada percorrere, si chiede Cavadi, tra
«l’integralismo aggressivo e invadente da
una parte e, dall’altra, un intimismo spiritualistico
che preveda solo atti di beneficenza
diretta, di assistenzialismo corto?».
La risposta sta nella ricalibratura dei
cosiddetti «principi non negoziabili» del
Vangelo. Per far questo «non è necessario
andare lontano: basta aprire gli occhi e
leggere il cuore dell’annunzio biblico. Che
Dio ci ama gratuitamente, anticipatamente
rispetto ai nostri meriti e ai nostri demeriti,
creativamente, testardamente: questo è
per il cristiano l’unico valore assoluto rispetto
al quale tutto il resto – appartenenza
ecclesiale, adesione dottrinaria, osservanza
morale, pratica sacramentale, militanza
politica, testimonianza professionale – è
irrimediabilmente relativo. Ma su questa
centralità dell’agape divina non si riflette
mai abbastanza».
In tal caso, se tutto ciò venisse ribadito,
come scrive Augusto Cavadi «l’incompatibilita’
tra i discepoli di Gesù e gli eredi di
Alberto da Giussano risulterebbe evidente».
Basterebbe questo accenno per intuire
quanto lontano fuggirebbero da una simile
Chiesa «ri-centrata su un Dio così concepito,
tutti coloro che parlano di scontro di
civiltà». Molto netta la conclusione inevitabile
della concezione di Dio come Dio
dell’amore: «Europa, vuoi essere davvero la
prima di tutti i continenti? Sii allora la serva
di tutti. Lava i piedi dei tuoi ospiti che, sporchi
di sabbia del Sahara, bussano sgarbatamente
alle tue porte o, ancor meno educatamente,
si abbandonano sugli scogli e sulle
spiagge delle tue coste meridionali».
f.a.
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