“REPUBBLICA – PALERMO”
28.12.2011
SE LE FESTE CI RIVELASSERO IL SEGRETO DELLA MESCOLANZA
Natale, capodanno, epifania: feste in fila, inanellate, che ciascuno vivrà a modo suo. Secondo la propria visione del mondo che può implicare una delle molte fedi religiose presenti ormai in Sicilia (dall’ebraismo al cattolicesimo, dal protestantesimo all’islamismo, dall’induismo al taoismo, al buddhismo, al confucianesimo, al baha-i) o nessuna (anche l’ateismo, non necessariamente suggerito da furie consumistiche, ma meditato e degno di rispetto, è ampiamente rappresentato nella nostra regione come nel resto dell’Europa contemporanea). Che nel cuore del Mediterraneo via sia un’isola dove questa convivenza di credi e di filosofie sia quotidiana è già una buona notizia: tanto più apprezzabile se comparata a secoli e secoli - sino all’avvento della Repubblica italiana – di diffidenze e persecuzioni (almeno da quando, nel 1492, la regina Isabella di Castiglia non spezzò la pacifica convivenza fra le tre religioni del Libro intimando la cacciata degli ebrei e dei musulmani). E se comparata alla ventata di razzismo xenofobo che - alimentato da nostalgici del nazifascismo, dalla Lega e da frange ringalluzzite di cattolici reazionari – ancora in questi giorni è esploso in città di gloriose tradizioni civiche come Torino e Firenze.
Se la tolleranza è un passo importante - una conquista da presidiare per renderla irreversibile – non è ancora una meta. Nel futuro dell’Europa mediterranea (in cui il ruolo della Sicilia non è certo storicamente trascurabile) c’è ancora molto cammino da compiere: c’è da passare dalla tolleranza (dalla sopportazione, dal permettere che anche l’intruso mangi le briciole che cadono dalla nostra tavola) alla cooperazione, alla sinergia. La memoria del passato ce lo insegna senza equivoci: i vertici della nostra civiltà sono stati toccati quando le culture più distanti (come ad esempio i Normanni di lingua francese e gli Arabi), invece di tentare di distruggersi sulla base di rapporti di forza militare, hanno imparato a contaminarsi e a impegnarsi nella produzione di opere comuni. Cosa sarebbe Palermo senza la Cattedrale, il Palazzo reale, S. Maria dell’Ammiraglio, S. Giovanni degli eremiti e tanti altri gioielli dell’arte arabo-normanna? Cosa sarebbe la Sicilia privata da gemme uniche al mondo come il Duomo di Monreale e la Cattedrale di Cefalù?
Al di là della facile retorica parolaia, queste feste potrebbero costituire un’occasione di riflessione e soprattutto di progettazione per la società civile, per le organizzazioni politiche, per i candidati a sindaci delle nostre città: come trasformare il disagio dell’immigrazione, più o meno clandestina, in risorsa economica e morale? Quali settori (dall’agricoltura al turismo) potrebbero trovare nelle energie fresche, e spesso assai qualificate, degli immigrati una possibilità di rilancio e di potenziamento? Sarei tentato di rispolverare un mio vecchio pallino, solo apparentemente provocatorio: perché non imitiamo l’elasticità mentale e la duttilità operativa delle cosche mafiose che sanno intrecciare abilmente le proprie strategie con le criminalità internazionali con cui le vicende storiche e i fenomeni sociologici le mettono in contatto?
Certo, per far questo in maniera costruttiva e durevole occorre avere la predisposizione culturale adatta. Gli studiosi di scienze umane, di filosofia e di teologia dovrebbero contribuire - molto più vivacemente di quanto accada per ora – a un mutamento di mentalità: aiutando noi occidentali a liberarci dal pregiudizio eurocentrico, dal complesso di superiorità nei confronti dei popoli che per secoli abbiamo bollato come ‘infedeli’ e ‘primitivi’. Se i Bambin Gesù dei nostri presepi non avessero le fattezze di rubicondi biondini con gli occhi azzurri, ma più realistici tratti di neonati bruni dagli occhi scuri (come tutti i bambini nordafricani che nascono in Palestina), sarebbe una prima, preziosa, inversione di tendenza. E la Sicilia potrebbe ritornare a essere ciò che è stata in altre sue epoche gloriose: un’anticipazione profetica di ciò che dovrà essere l’umanità futura se non sceglie il suicidio collettivo.
Augusto Cavadi
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