“Repubblica” - Palermo
12.11.2011
Con Roberto Tripodi, nonostante un antico rapporto di stima e di comune militanza nel movimento antimafia, mi è capitato di polemizzare anche da queste colonne. Non è certo, dunque, per solidarietà “a prescindere” che ritengo meritevole di attenzione una sua iniziativa coraggiosa e preveggente. Mi riferisco, come sanno i lettori dell’edizione di giovedì 27 ottobre, alla circolare sui provvedimenti disciplinari nei confronti degli studenti che, occupando i locali della scuola, impediranno di fatto a tanti altri lo svolgimento regolare delle lezioni. Una iniziativa che merita di essere discussa in un dibattito pubblico a cui non possono continuare a sottrarsi (come è avvenuto negli ultimi decenni) gli adulti a qualsiasi titolo responsabili dell’educazione delle giovani generazioni, dai genitori ai politici, dai docenti ai dirigenti dell’amministrazione pubblica. Capisco che si possa dissentire, o in buona fede o per evitare astutamente l’impopolarità; ma non capisco perché questo dissenso non debba diventare argomentazione logica e controproposta pratica.
Nell’attesa che gli adulti si pronunzino apertamente (sottovoce lo fanno, sinceramente o ipocritamente, tutti i genitori quando vengono a colloquio con gli insegnanti e dichiarano la loro impotenza pedagogica nei confronti di decisioni dei figli che non condividono) possiamo solo tentare di dialogare con i giovani che, in varie modalità (anche rispondendo alle domande del cronista), sostengono le proprie ragioni. Che sono sintetizzabili in due punti cruciali.
Primo: il governo italiano ha demolito, nell’ultimo ventennio, la scuola statale. In queste condizioni, la protesta - anche formalmente illegale – è l’unico strumento per esprimere dissenso. Secondo: a decidere la sospensione delle lezioni e l’occupazione dei locali è sempre una maggioranza di studenti che si contano in assemblea, dunque è in nome delle procedure democratiche che la minoranza deve adeguarsi.
Che cosa opporre a queste due argomentazioni, apparentemente ineccepibili? Allo stato attuale della scuola, temo che non ci sia nulla da obiettare. Infatti un confronto su questioni così cruciali presupporrebbe un linguaggio comune, una base concettuale e valoriale condivisa: ma è proprio tale presupposto che manca. Manca perché gli studenti sono totalmente all’oscuro dei principi e delle regole della Costituzione; perché non hanno gli elementi storici e teorici per distinguere la lotta politica che distrugge, con la violenza emotiva, dalla lotta politica che costruisce, con la forza delle proposte e della partecipazione attiva; perché ignorano i nessi fra i diversi progetti di società (di destra, di centro o di sinistra) e le rispettive, conseguenti, concezioni di scuola.
Sarebbe troppo comodo, però, fermarsi a questo stadio della riflessione. Gli studenti si illudono che, facendo parlare di sé per qualche settimana i giornali e i talk show televisivi, stanno davvero modificando la politica scolastica dei governi in carica e che l’alzata di mano di mille studenti con la voglia di anticipare le vacanze natalizie sia esercizio di democrazia (anche se novecento resteranno a casa per tre settimane lasciando ai duri e puri di presidiare i locali scolastici da fantomatiche irruzioni della polizia): verissimo. Ma sono essi stessi i principali responsabili di queste convinzioni infondate, di queste scelte autolesionistiche? Che cosa abbiamo fatto noi adulti - che cosa stiamo facendo – per orientarli nella direzione della coerenza, dell’impegno metodico, del cambiamento strutturale e duraturo? Non ci sono scorciatoie. La società si trasforma con la forza delle idee e con la pazienza della mobilitazione politica. Ed è su entrambi i fronti che abbiamo tradito i bisogni dei nostri ragazzi.
Dal punto di vista della formazione culturale, con il pretesto che “a scuola non si fa politica” (divieto sacrosanto) non gli diamo nessuna formazione politica (omissione imperdonabile). Sforniamo intere generazioni analfabete dal punto di vista dei principi elementari della politologia (relegando ai margini, o espellendo del tutto, persino l’ora settimanale di educazione civica). Dal punto di vista, poi, degli spazi di aggregazione politica, con il pretesto che “i giovani devono autogestirsi” , nella vita dei partiti e dei sindacati li manteniamo a debita distanza, concedendogli solo il diritto di fare il tifo per questo o quell’altro leader maturo (e non di rado appassito). Così, senza idee e senza canali di partecipazione effettiva alla determinazione delle scelte politiche, i giovani si avviano al destino amaro della maggior parte dei loro padri: dalla fase rivoluzionaria dell’adolescenza a una quotidianità adulta fatta o di rassegnazione o di complicità con chi ha in mano, di volta in volta, qualche brandello di potere.
Le prossime scadenze elettorali potrebbero costituire un’occasione per invertire la tendenza se i partiti tradizionali e le nuove aggregazioni cittadine provassero (come hanno provato, negli ultimi tre anni, le associazioni palermitane aderenti ai “Movimenti civici siciliani” che sabato 29 ottobre hanno presentato, a Palazzo delle Aquile, i lavori svolti e i progetti futuri) a inquadrare il dibattito - pur necessario – sui nomi dei candidati e sulle alleanze tattiche nel più ampio orizzonte della formazione intellettuale, etica e metodologica dei cittadini. Lo so che è banale ripeterlo, ma è ancora più irritante che tale ripetizione sia ancora necessaria: ogni città avrà gli amministratori che si merita.
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