lunedì 3 ottobre 2011

Meditazioni filosofiche sulla morte e la mortalità


“Phronesis”, 14 - 15, ottobre 2010
(Versione cartacea: acquistabile via internet www.ipoc.it;
versione telematica gratuita: www.info.phronesis)

R. Bodei – E. De Monticelli – V. Mancuso – G. Reale – A. Schiavone – E. Severino, Che cosa vuol dire morire, a cura di D. Monti, Einaudi, Torino 2010, pp. 171, euro 15,00.

Se comparato con testi analoghi, questo può vantare almeno tre pregi peculiari: la polifonicità (vengono ‘intervistati’ sei pensatori italiani di diversa estrazione culturale), l’attenzione a cosa significhi morire nel XXI secolo (quando l’apparato scientifico-tecnologico condiziona decisamente i dati naturali) e il coinvolgimento esistenziale dei co-autori (ai quali la curatrice del volume chiede non solo ciò che pensano in generale della morte ma come si pongono, in prima persona, davanti ad essa) nella convinzione che “ogni pensiero sul mondo, per essere autentico, debba partire dalla vita” (p. VIII).
Ovviamente ogni lettore potrà individuare, in dipendenza dalla sua ottica, tanti altri aspetti positivi, anche se meno evidenti. Uno dei quali, nella mia prospettiva, è lo scompaginamento di un cliché dominante : che per il credente in senso confessionale la vita sia un valore indisponibile e che per il non-credente - o, come puntualizza opportunamente Bodei, per chi “crede in altre cose” (p. 77) – essa sia priva di valore intrinseco e in balìa esclusiva dell’autodeterminazione soggettiva. Il libro, invece, attesta che il panorama è molto più articolato e, per certi versi, sorprendente. Da una parte, infatti, non regge l’identificazione fra matrice cattolica e difesa a oltranza della sopravvivenza biologica. Sarebbe troppo facile mostrarlo nel caso di Vito Mancuso (teologo cattolico considerato eretico dalla maggior parte dei doctores cattolici) o di Roberta De Monticelli (che, proprio in seguito all’intransigenza della Chiesa cattolica su queste tematiche, ha deciso di proclamare ufficialmente, in un articolo su “Libero”, la sua estraneità al mondo ecclesiale, “sulla soglia” del quale le era “a volte avvenuto di sostare”). Assai più significativa, invece, la posizione di Giovanni Reale, unanimemente riconosciuto come uno dei tre o quattro più prestigiosi filosofi cattolici viventi. L’ex-docente dell’Università Cattolica di Milano, infatti, arriva ad accusare “la Chiesa, sì anche la Chiesa” di essere vittima (inconsapevole) del paradigma scientistico da cui vorrebbe prendere le distanze: “un paradigma culturale dominato da un’idea della tecnologia così invasiva, così totalizzante, così gonfia di sé e dei suoi successi da volersi sostituire alla natura” (p. 25). Il professor Reale non si limita a ribadire principi generali, ma - quando apprende che alla famiglia di Piergiorgio Welby viene negata la possibilità di funerali in chiesa - mostra anche il senso pratico di prendere carta e penna e di indirizzare alla vedova Mina una bella lettera (che nel libro viene riprodotta per intero insieme alla risposta ricevuta): “La terapia imposta a suo marito e la nutrizione artificiale imposta per diciassette anni alla Englaro rientrano, a loro modo, in forme di accanimento terapeutico. Chiedere la loro sospensione, pertanto, non ha nulla a che vedere con l’eutanasia, ma rientra in quella libertà che non può essere negata a nessun uomo (…). Io, come credente, sono sicuro che questo sia lecitissimo e giustissimo: la natura l’ha creata Dio, la tecnologia è opera dell’uomo: se io preferisco, alla fine, della mia vita (che Dio stesso mi ha dato9 lasciare alla natura (che lui stesso ha creato) il suo corso, e non alle tecniche messe in atto dall’uomo, sono ben lontano dal commettere un atto irreligioso, anzi addirittura mi sento molto religioso, in quanto dico a Dio: è venuta per me la fine, sia fatta la tua volontà (come vuole la natura), senza bisogno che intervenga l’uomo con le sue tecniche” (p. 30).
Ma neanche dal mondo laico, abbondantemente rappresentato nel volume, mancano le sorprese. Certo, non stiamo considerando laici barricaderi, come li definisce – prendendone le distanze – Remo Bodei, bensì dei laici come lui che si ritiene tale in quanto per principio non “rifiuta la religione”, bensì la confusione “fra Stato e Chiesa e tra morale e diritto” sì che “si può essere laici e religiosi allo stesso tempo, se si mantengono queste distinzioni” (p. 58). Ebbene, questi laici ragionevoli - e come potrebbero non esserlo, se davvero filosofi ? – ritengono, ad esempio con Aldo Schiavone, che “l’affermazione che la vita sia un bene di cui non possiamo totalmente disporre può essere sostenuta anche nella prospettiva di un non credente. Si può pensare che essa esprima un valore e una potenzialità sociali di significato talmente alti, da non poter essere affidati, in particolari circostanze, unicamente a chi quella vita la vive. (…) Ogni vita è di chi la vive, ma questa appartenenza è socialmente condivisa. Entra in gioco quello che potremmo chiamare un principio generale di etica della specie” (pp. 13- 14). Infatti - come spiega più dettagliatamente ancora Bodei – “la nostra vita non appartiene soltanto a noi, ma ai familiari, agli amici, alla comunità. Una certa cultura laica vorrebbe trasformare la morte in un evento banale, ma la morte non è mai banale: è solennità, è mistero. Ogni volta che muore qualcuno, un intero mondo scompare e si perde per sempre. Io difendo quel mistero. Viviamo come ospiti grati che cercano di capire perché sono finiti in questo mondo e quanto durerà. Vivere con un margine di incertezza non toglie la responsabilità delle proprie azioni, ma lascia aperta la porta al dubbio che le cose, alla fine, possano rivelarsi diverse da come le abbiamo pensate. E’ il contrario delle fedi rigide, sia laiche che religiose, dentro le quali ci si mura per non avere paura” (p. 57).
Come se questi accenti non fossero abbastanza imprevisti, Bodei si spinge oltre, sino a suggerire agli orfani delle ideologie del Novecento (“non solo nel campo degli eredi del marxismo, ma in quello del pensiero liberale e democratico”) di “distinguere “le religioni storiche dal senso del sacro. Credo che il senso del sacro è presente in tutti noi, a meno che non vogliamo affogarlo nell’ottusità e nell’egoismo. Il senso del sacro implica il riconoscimento di qualcosa più grande di noi, che ci sovrasta e che riguarda tutti” (p. 73).
Ma se è vero che non vale più la “vecchia contrapposizione fra i laici che difendono la qualità della vita, e i credenti, che pensano invece che la vita non ci appartiene” (p. 59), non significa che siano evaporate altre differenze, talora vere e proprie polarizzazioni. Ad esempio: è vero, come scrive Aldo Schiavone, che “in breve l’intervento della tecnica sarà di una invasività e forza da modificare radicalmente la qualità ‘naturale’ di questi cruciali avvenimenti” e che, “per quanto attiene in particolare alla morte, saremo sempre più noi stessi a decidere quando, come, e, in un futuro più lontano, addirittura se morire” (p. 6)? O, al contrario, ha ragione Vito Mancuso quando scrive: “Molti si illudono che presto riusciremo a non morire mai? Lasciamoli illudere” (p. 128)?
La questione è più complessa di ciò che appare agli occhi di chi non è aggiornato sulle prospettive della cibernetica. Infatti Schiavone non parla solo di una immortalità biologica (resa possibile dall’ingegneria genetica in sede preventiva e, successivamente, dal continuo trapianto di organi, man mano che si vanno consumando), ma soprattutto di quella immortalità - o, per lo meno, lunghissima sopravvivenza – possibile in “ ‘forme intermedie’ - le chiamo così in attesa di trovare un’espressione migliore – nelle quali sarà possibile mantenere le funzioni di un pensiero e di una personalità individuali entro strutture parzialmente o quasi completamente extrabiologiche, risultato di tecniche di ‘bioconvergenza’, che conserveranno ben poco del nostro piano anatomico originario. Forme in cui la nostra esistenza si prolungherà, ma non più nei termini in cui l’abbiamo conosciuta, verrà ricacciata indietro, sempre più indietro e lontana. Fin dove spingere la propria vita - nel senso della propria autocoscienza – diventerà probabilmente una scelta umana, in cui dovranno incontrarsi volontà differenti, e sarà compiuta anche in rapporto ai costi sociali del suo prolungamento, alle possibilità cognitive e affettive nelle condizioni concrete che di volta in volta si daranno, e alle responsabilità che ne discenderanno” (p. 6). Ha ragione Schiavone: “Evocare simili scenari apre orizzonti sconfinati, che implicano problemi di socialità, di eguaglianza nelle possibilità di accesso alle nuove tecnologie, di rapporti fra tecnica, vita e mercato, di adeguamento culturale, che appena riusciamo a immaginare. Però tanto vale cominciare a parlare di queste cose, e non fingere che non stia succedendo niente” (pp. 6 – 7). Con tutte le riserve del caso, perciò, ci si potrebbe chiedere: la sintesi fra la memoria del soggetto e un supporto artificiale sino a che punto potrebbe garantire “un pensiero e una personalità individuali”? Il software che immagazziniamo nella mente ‘funziona’ indifferentemente in un corpo organico e in un hardware costruito dall’uomo? E’ ammissibile questa ri-edizione del dualismo anima-corpo in una sorta di ‘tecnognosticismo’ ? O non ha ragione Alberto Giovanni Biuso quando, riflettendo su queste prospettive, avverte che, se “l’umanità contemporanea sembra correre verso l’obiettivo di riprodurre tecnicamente se stessa sia nelle modalità biologiche che in quelle del computazionale, tali pretese mostrano in realtà contraddizioni profonde e un limite costitutivo: la corporeità umana, infatti, non è mai semplice corpo –inanimato ma sempre corpo vivente e auto consapevole. Aver abbandonato i significati, i fini, il limite come semplici scorie teoriche, astratte, metafisiche, ha condannato gran parte dell’esperienza contemporanea a non sapere più quale sia il posto dell’umano nel mondo e quindi a non saperci più stare” (Cyborgsofia. Introduzione alla filosofia del computer, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2004, p. 102)?
Comunque, pur nella disparità dei punti di vista, i vari contributi a questo volume lasciano individuare importanti fili comuni. Come nota, nell’Introduzione, Daniela Monti, “l’indicazione che sembra emergere con maggior forza è quella di un nuovo personalismo fondato sull’etica della libertà: riconoscere a ogni uomo l’autorità morale per scegliere, anche nell’ultimo tratto di strada, significa conferire di nuovo dignità alla morte, strappandola dalla terr di nessuno in cui è stata confinata” (p. IX).
Se urge “costruire una cultura della morte, che non sia dominio esclusivo della medicina né rimozione di un evento inevitabile”, e se “per questo è necessario che la filosofia scenda in capo e faccia la sua parte” (p. VIII), l’incrocio di idee - più di una volta spiazzanti come deve avvenire fra filosofi di qualità - che si realizza in questo volume è un piccolo ma significativo segnale nella direzione giusta.

Augusto Cavadi

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