venerdì 30 settembre 2011

Esiste una spiritualità filosofica?


“Phronesis”, anno VII, 14 - 15, Ottobre 2010

La spiritualità filosofica come humus nel giardino delle spiritualità contemporanea

La globalizzazione delle spiritualita’
Sappiamo in tanti – ma purtroppo fra questi sono pochi i padroni attuali delle sorti del mondo – che la globalizzazione si ripresenta ciclicamente (dal XV secolo ad oggi) come forma mascherata di occidentalizzazione del mondo. E che solo una differente circolazione non solo delle finanze e delle merci, ma anche degli uomini e delle idee, potrà liberare il pianeta dall’egemonia attuale di una cultura sulle altre senza necessariamente sostituirla con l’imperialismo monopolistico di altre culture, sino ad ora mortificate, come la cinese o l’indiana. Là dove questa globalizzazione pulita e arricchente si va facendo strada, anche le tradizioni sapienziali e spirituali vanno entrando in rapporto reciproco. Sarà un incontro, uno scontro, una gelida compresenza? Si può ipotizzare una qualche funzione di servizio, da parte della filosofia-in-pratica, rispetto all’obiettivo di celebrare – secondo l’espressione cara a don Tonino Bello – “la convivialità delle differenze”? E - prima ancora e più radicalmente – esiste una dimensione spirituale della filosofia? Domande forse premature, o troppo impegnative. Ma qualcuno, da qualche parte, deve pur cominciare a osare delle ipotesi di riflessione.

Uno sguardo alla storia
Per liberare la categoria ‘spiritualità’ da vincoli ideologici e monopoli confessionali, una strada eccellente può essere costituita dalla memoria storica (limitatamente, solo per limiti soggettivi di competenza, alla storia occidentale). Non sarebbe il primo caso in cui la riscoperta di radici legittimi l’apertura di cammini nuovi. Gli studi di Pierre Hadot ci facilitano immensamente il compito: “molto significativa la presenza nel mondo antico di esercizi spirituali, vale a dire di pratiche che potevano essere di ordine fisico, come la dieta alimentare, o discorsivo, come il dialogo e la meditazione, o intuitivo, come la contemplazione, tutte però destinate a operare un cambiamento e una trasformazione nel soggetto che le praticava. Il discorso stesso del maestro di filosofia poteva del resto assumere la forma di un esercizio spirituale, nella misura in cui il discepolo, ascoltandolo o partecipando a un dialogo, poteva progredire spiritualmente e trasformarsi interiormente” .
Quando il cristianesimo esce dalla ristretta area palestinese, e si diffonde nel più vasto mondo ellenistico, avverte l’esigenza di ritagliarsi uno spazio fra le tradizioni filosofiche egemoni (platonica, stoica, epicurea e così via): dunque di accreditarsi come una proposta spiritualmente rilevante in quanto filosofica. Sappiamo bene che di questa identificazione del cristianesimo con una filosofia si è persa la memoria (anche perché, se intendiamo filosofia nel senso moderno e contemporaneo del termine, si tratterebbe di una identificazione mortale sia per il cristianesimo che per la filosofia), ma ciò non toglie che sia un dato storico inoppugnabile: “Dato che esistono esercizi spirituali cristiani, si crede che gli esercizi spirituali siano di ordine religioso. Invece gli esercizi spirituali cristiani sono apparsi nel cristianesimo a partire dal II secolo proprio come conseguenza della volontà del cristianesimo di presentarsi come una filosofia sul modello della filosofia greca, cioè come un modo di vivere, che comportava esercizi spirituali tratti dalla filosofia greca” .
Per alcuni secoli, dunque, chi aveva desiderio di coltivare la dimensione spirituale dell’esistenza poteva optare per due strade principali: la spiritualità filosofica e la spiritualità cristiana. Questo felice pluralismo, però, non è durato abbastanza: l’imperialismo teologico (di cui ha parlato a suo tempo Jacques Maritain) ha finito con l’appropriarsi in maniera esclusiva dell’offerta di spiritualità. Il cristianesimo, grazie alla potenza politica raggiunta nel Medioevo dalla Chiesa cattolica, ha preteso di essere non ‘un’ canale della spiritualità, ma ‘il’ canale, relegando ogni altra modalità spirituale a sottoprodotto, quando non addirittura a contraffazione o veleno da evitare.
Bisogna aggiungere che nella Modernità i filosofi, pur impegnati vittoriosamente a riconquistare spazi culturali e sociali, non sempre hanno mostrato interesse a riappropriarsi anche di un diritto alla spiritualità: protagonisti di primo piano, da Hobbes a Hume, dai materialisti del Settecento ai positivisti dell’Ottocento, dalle varie interpretazioni del marxismo sino ai neopositivisti del XX secolo, sono stati quasi orgogliosi di non occuparsi di tematiche riguardanti lo ‘spirito’ (che, in qualsiasi senso venisse inteso, evocava comunque qualcosa di impalpabile, evanescente, opinabile, se non addirittura illusorio e alienante). Si potrebbe obiettare: ma, dai neoplatonici del Rinascimento sino agli idealisti post-kantiani e, nel XX secolo, a Heidegger e Jaspers, non ci sono sempre stati pensatori per i quali la filosofia ha mantenuto il diritto, e in buona misura il dovere, di occuparsi della vita spirituale ben al di là della sfera puramente intellettuale? Tutto vero. Purtroppo, però, persino i pensatori che hanno evidenziato la dimensione spirituale dell’esistenza e della vita collettiva sono stati letti, recepiti, in contesti tendenti a filtrarli selettivamente, trasformando la globalità della vita in concetti ordinati, ma asettici. Mi riferisco alle strutture accademiche su cui più di uno studioso ha attratto l’attenzione. Per esempio, quanto Hadot fa notare a proposito dell’abbandono dello stile ‘orale’ del filosofare antico calza a pennello anche per capire l’abbandono della dimensione ‘spirituale’: “nella prospettiva ristretta dell’Università, dato che si tratta di preparare gli allievi allo studio di un programma scolastico che consentirà loro di ottenere un diploma di funzionario e l’avvio di una carriera, il rapporto personale e comunitario deve necessariamente scomparire per cedere il posto a un insegnamento che si rivolge a tutti, cioè a nessuno” . E’ lo stesso storico francese a collegare la perdita dell’ “aspetto personale e comunitario della filosofia” con il fatto che essa “si è sempre più inoltrata in questa via puramente formale, ricercando a qualunque costo la novità in quanto tale: si tratta per il filosofo di essere il più originale possibile, se non creando un nuovo sistema, quanto meno producendo un discorso che, per essere originale, tende a essere molto complicato. La costruzione più o meno abile di un edificio concettuale finisce col diventare fine a se stessa. E così la filosofia si è allontanata sempre di più dalla vita concreta degli uomini” . Non dissimili le considerazioni, a più ampio spettro, di Eugen Drewermann sul paradosso per cui “un genio (…) si logora i nervi per la causa in cui crede e che incarna, si rovina la salute, trascorre notti insonni, dal punto di vista esteriore fallisce” e “tre, quattro decenni più tardi ecco storici dell’arte, della letteratura, della chiesa, buttarsi sulla sua vita e sulla sua opera e spiegare con acribia e diligenza perché Baudelaire, Hoelderlin, Goya, Van Gogh, Savonarola, Giordano Bruno, Giovanna D’Arco siano stati grandi personaggi. Neanche un briciolo dei veri conflitti e delle vere lotte di questi ‘grandi’ trova accesso nella vita personale di questi critici. (…) Ed è proprio questo falsificare la vita facendola diventare dottrina della vita, questo ribaltare ogni vitalità spirituale facendola diventare erudizione della vita spirituale, questo pervertire l’autentico sapere religioso in scienza della religione” , che isterilisce il mondo della cultura e lo rende irrilevante agli occhi dei ‘comuni’ mortali.
Non è azzardato ipotizzare che l’arretramento della speculazione filosofica – e più in generale dei ceti intellettuali - dall’ambito ‘spirituale’ abbia favorito il successo della psicoanalisi e, più ampiamente, della psicologia. Quando il pubblico colto occidentale ha avvertito l’esigenza di indicazioni sulla vita interiore, sulle pratiche ascetiche, sulle esperienze meditative, sugli stati di unione mistica con gli strati più profondi della realtà, sulle modalità di relazionarsi agli altri, agli animali, alle bellezze naturali…, deluso dal taglio troppo ‘cerebrale’ dei pensatori ‘ufficiali’, ha potuto optare fondamentalmente fra tre direzioni: la spiritualità cristiana tradizionale, sia cattolica che protestante (specie se rinverdita da tematiche a lungo represse come l’irruzione dello Spirito Santo e della sua azione imprevedibile nei cuori e persino nei corpi dei fedeli); la spiritualità orientale (anche adottata in misura riduttiva, come per esempio in alcune scuole dove è possibile praticare yoga o altre tecniche corporee di danza, di lotta, di concentrazione mentale); la psicologia (sia attraverso il contatto diretto con uno psicoterapeuta sia, più ampiamente, attraverso la letteratura). Con Freud, Adler, Jung, Frankl, Fromm - ma la lista sarebbe interminabile – l’uomo della strada, specie se geloso della sua ‘laicità’, ha ritrovato il sapore di interrogativi ed ipotesi che la filosofia (sulla scia delle scienze) sembrava aver cassato definitivamente: cosa possiamo scoprire nel vasto e enigmatico mondo dei sogni, dei simboli, delle fiabe, dei miti, dei sentimenti viscerali, della follia? Che indicazioni ci possono venire dall’esperienza devastante dei gulag e dei lager? Come possiamo uscire dall’analfabetismo emotivo e imparare ad amare?
Lo voglio asserire con pacatezza ma con fermezza: per chi ha a cuore la dimensione spirituale, l’exploit della psicologia nel XX secolo ha costituito una preziosa chance. Ha offerto, a quanti non volessero o non potessero sperimentare la spiritualità religiosa (sia nell’alveo del cristianesimo, o di altre confessioni monoteistiche come l’ebraismo e l’islamismo, sia secondo le tradizioni induiste e buddhiste), uno spazio inedito .

Uno sguardo al presente
La pluralità attuale delle offerte spirituali (secondo i modelli cristiani, orientali o psicologici) è dunque, a mio avviso, una ricchezza irrinunciabile. Le differenze strutturali fra questi canali, abbastanza nette per giustificare ogni cura nel conservare le rispettive identità, non dovrebbero però costituire una ragione di ignoranza reciproca: tutti possono imparare da tutti, se non altro a valorizzare, nel confronto, la propria originalità. Tale pluralità è anche esauriente, definitiva, non ulteriormente incrementabile? Ritengo che una risposta affermativa sarebbe errata. Come i confini della spiritualità biblica sono apparsi, negli ultimi due secoli (da Schopenhauer in poi, sino a Herman Hesse e oltre), troppo angusti; come i territori della spiritualità orientale (considerata nel complesso delle sue innumerevoli articolazioni interne) non hanno attratto tutti i delusi della spiritualità biblica; così non ritengo che il ricco patrimonio spirituale che passa attraverso il variegato mondo della psicologia sia in grado di esaurire per ampiezza, e soprattutto per radicalità, la domanda complessiva di spiritualità. Senza pretese di sostituire nuovi imperialismi culturali ai precedenti, la filosofia (ma un discorso analogo lo si potrebbe avviare dal punto di vista della musica, della letteratura, delle arti figurative e plastiche, dello sport, della culinaria…e - perché no ? - delle stesse scienze ‘dure’) ha il diritto/dovere di attrezzarsi per rivalorizzare e socializzare le potenzialità spirituali della sua tradizione.
Significa, alla luce del rapido excursus diacronico, che sia necessario ritornare ai modelli delle scuole ellenistiche? Neri Pollastri (sulla scorta di Martha Nussbaum) ha chiarito, già da anni, questo punto molto lucidamente: “il tratto ad esse comune è costituito dalla trasformazione della filosofia in una prassi terapeutica, che presuppone una ben definita e dogmatica concezione dell’uomo (una sua ‘natura’) e del mondo in cui esso vive, nonché un universale ed intrascendibile obiettivo da raggiungere – la sua salute. Queste concezioni abbandonano così il modo di intendere la filosofia proprio di Socrate: le dottrine dei maestri non possono essere sottoposte a critica; le scuole filosofiche sono circoli chiusi, comunità dove non si ricerca, non si esamina, ma si apprende - con la mente e con il corpo – come vivere in base ad un modello autoritativamente dato per buono” . Dunque, nessuna riesumazione pedissequa delle scuole ellenistiche. In contesti nuovi, in cui si evidenzi con nettezza che in filosofia non ci possono essere ruoli fissi e che il maestro è tanto più grande quanto riesce a farsi condiscepolo dei discepoli, vanno piuttosto ripresi e valorizzati alcuni elementi di quell’epoca che sono poi andati sfumando sin quasi a scomparire nell’età contemporanea: la filosofia come ricerca non solo di scienza e sapienza, ma anche di saggezza e prudenza; come esercizio non soltanto della mente, ma della volontà e dell’intera personalità; come attività intima e personalissima, ma cordialmente aperta al confronto, allo scambio fraterno, all’ammissione dei propri errori e alla gratitudine per chi ci consente di liberarcene.
Un filosofo-in-pratica, Ran Lahav, che esplora, non solo teoricamente, alcune modalità inedite di valorizzazione della dimensione spirituale della filosofia (convinto che “un praticante filosofico è più come un ricercatore spirituale che come uno psicologo” ) , ha addirittura proposto una revisione semantica del vocabolo. A suo avviso, infatti, “la filo-sofia” è un “processo” in “due fasi”: la “pratica filosofica (autoriflessione filosofica)” e la “trans-sofia (andare al di là)” . In altri termini, a suo parere, la filosofia integrale comprende “l’auto-indagine della nostra caverna platonica e l’uscita dalla caverna” o, fuor dalla metafora platonica, implica “investigare il nostro modo riduttivo di essere e poi trasformarci per raggiungere un modo di essere più ampio” .
Che cosa può intendersi per spiritualità filosofica?
In queste paginette ho aggettivato più volte il sostantivo ‘spiritualità’: filosofica, religiosa, psicologica, orientale, cristiana, cattolica, protestante…Forse, prima di concludere, sarebbe opportuno provare a tracciare un identikit della spiritualità filosofica. Hadot, citando una descrizione di Plotino ad opera del discepolo Porfirio (Vita di Plotino, 8, 19) - tentava di “essere presente a se stesso e agli altri” – osserva che “costituisce un’eccellente definizione di ciò che dovrebbe essere ogni vita filosofica” . Ma si è presenti agli altri per il solo fatto che si è presenti a sé stessi? O non è necessario vivere la concentrazione su di sé in maniera dialettica rispetto all’attenzione verso l’altro-da-sé? In un certo passaggio delle sue opere, Hadot scrive in proposito: “Distogliti da tutte le cose, diceva Plotino; ma con viva contraddizione non si dovrebbe dire anche: accogli tutte le cose?”. Commentando questa sua stessa espressione, il pensatore francese aggiunge: “In generale, tenderei a rappresentarmi la scelta filosofica fondamentale, dunque lo sforzo verso la saggezza, come un superamento dell’io parziale, particolare, egocentrico, egoista, per raggiungere il livello di un io superiore che vede tutte le cose nella prospettiva dell’universalità e della totalità, che prende coscienza di sé come parte del cosmo, che abbraccia allora la totalità delle cose” . Non dissimile, mi pare, la caratterizzazione proposta da Lahav del “tipo di trasformazione che cerchiamo nella trans-filosofia”: “In breve, pienezza è un’emanazione libera e creativa della vita che fluisce nel mio intero essere e mi ispira a straripare al di fuori di me e dare all’esterno le mie energie, la mia attività o la mia pace interiore, le mie comprensioni, il mio amore, la mia luce” .
Proviamo a esplicitare, con un occhio al concreto, cosa possa implicare questo “superamento dell’io parziale” (Hadot), questa “pienezza” (Lahav) . Innanzitutto, suppongo, la liberazione da un senso troppo vivo della proprietà privata. Un filosofo attaccato ai soldi, che dia importanza al denaro o che addirittura stia attento a fare della filosofia un mezzo di accumulazione del denaro (ben al di là delle necessità elementari della sopravvivenza in una società capitalistica complessa), pregiudica una delle radici del movimento di auto-trascendimento. Spinoza che rinunzia a un’eredità troppo generosa, e si limita ad accettare ciò che può sostenerlo, costituisce un esempio confortante.
Poi immagino che non gli venga spontaneo abbarbicarsi al proprio stato di salute e che preferisca una vita qualitativamente intensa a una vita quantitativamente più estesa, ottenuta a costo di evitare esperienze intense e significative. In questo distacco dal proprio benessere fisiologico (ovviamente non in chiave doloristica o masochistica, ma per desiderio di attingere quante più ricchezze anche emotive possono sperimentarsi nella breve vita terrena) rientra il coraggio davanti ai poteri – ufficiali o criminali, non sempre nettamente separabili – che impongono di optare fra l’autocensura e la sopravvivenza biologica. Socrate o Giordano Bruno sono quasi delle icone di questo aspetto dell’ascesi filosofica.
Sappiamo, però, che la nostra struttura psico-fisica ci rende bisognosi di affetti quanto di cure mediche: il filosofo deve essere disposto, dunque, per amore della ricerca, a restare non solo senza ‘pane’ ma anche senza ‘rose’. Se anche solo una persona al mondo può tenerci sotto ricatto minacciando di privarci della sua amicizia o del suo conforto sentimentale-sessuale o del riconoscimento sociale, ciò è da una parte sintomo d’imperfetta autonomia spirituale e, dall’altra, causa di travisamenti nel giudicare per quanto obiettivamente possibile uomini e cose. In un professore di filosofia che fosse, almeno orientativamente, anche filosofo non dovrebbe esserci traccia né di avidità né di gelosia né di invidia per il successo dei colleghi; o, almeno, dovrebbe riconoscersi solo la traccia della sua lotta contro simili difetti. Kierkegaard racconta del teologo che, rivolgendosi al suo Dio, gli spiega: ho scritto tre volumi per dimostrare che esisti, ma se - ciò nonostante - non mi fai diventare vescovo, sono pronto a scriverne altri tre per dimostrare che non esisti. Nell’immaginario collettivo odierno la spiritualità è stata così scorporata dalla filosofia (e riservata alla religione) che un predicatore borioso e venale fa sorridere di commiserazione, invece un conferenziere altrettanto vanitoso e con elevate pretese di ricompensa monetaria non suscita nessuno stupore.
Poco sarebbe la libertà dal denaro e dalla tendenza all’autoconservazione se non fosse la pre-condizione della libertà dai pregiudizi culturali assimilati con il latte materno e respirati irriflessivamente nel proprio villaggio, nella propria regione, nella propria patria: una libertà che non si acquista da un giorno all’altro e, soprattutto, che non si acquista senza un processo di spogliazione dei propri abiti mentali che è, inseparabilmente, motivo di alleggerimento che dà ebbrezza e d’impoverimento che provoca paura.
Se è difficile deporre le idee altrui passivamente recepite, ancora più difficile è gioire della prospettiva di rinunziare alle proprie - anche le più faticosamente acquisite – ogni qual volta il confronto intellettuale con altri ce lo imponga: eppure, senza questa propensione a lasciarsi spiazzare e mettere in crisi dagli argomenti altrui, il filosofo non sperimenta il proprium della libertà filosofica. “La filosofia non è una costruzione di sistemi, ma la risoluzione presa un volta per tutte di guardare ingenuamente in sé e intorno a sé”: commentando questa frase di Bergson, Hadot ritiene che “l’espressione ‘guardarsi ingenuamente’ significa affiancarsi dall’artificiale, dall’abitudine, dal convenzionale, dal costruito, e ritornare in fondo a una percezione per così dire elementare, scevra di ogni pregiudizio. Si può dire che questo sforzo, analogo a quello del pittore, è un esercizio spirituale” .
Tale distacco intellettuale, frutto maturo di tutto un più radicale e radicato processo di auto trascendimento, è forse il massimo che la filosofia richiede (e rende possibile)? Direi che l’ultimo passo consista nella rinunzia alle idee: non solo alle altrui, non solo alle proprie, ma alle idee in quanto tali. E’ il punto più affascinante ma anche più controvertibile. Non alludo a nessuna moda irrazionalistica o anche solo anti-intellettualistica: mi riferisco piuttosto al dato, per me attestato da tutti i sommi pensatori dell’umanità, che proprio la ragione, al culmine della sua attività, entra in sfere così reali da non prestarsi più all’analisi razionale. Ran Lahav l’ha saputo esprimere con equilibrio: “Molte tradizioni sapienziali e spirituali hanno sviluppato modi per facilitare le comprensioni profonde, , mediante tutta una serie di tecniche: meditazioni, tecniche di lettura e scrittura contemplativa, addirittura esercizi fisici e danze spirituali. Se ne trovano esempi nelle tradizioni del cristianesimo monastico, dell’induismo, del buddismo, della scuola islamica sufi. Queste considerazioni mi fanno ancora pensare che la filo-sofia, nel suo tentativo di entrare in contatto con i più grandi orizzonti della nostra realtà, non debba limitarsi al ragionamento intellettuale. Non deve limitarsi, insomma, a quella che comunemente si chiama filosofia” .
Da Eraclito a Wittgenstein, è ricorrente la testimonianza che -per parafrasare Saint Exupery – l’essenziale è invisibile alla mente. Una di queste sfere meta-razionali la si sfiora, indubbiamente, in direzione della ulteriorità dell’essere (e vari filosofi vi alludono adoperando il termine ‘mistico’); ma, anche se meno visitata dai filosofi, esiste anche la sfera meta-razionale della dedizione agli altri. Non mancano gli accenni a questa forma di amore - ‘agapico’ – che, a differenza dell’amore ‘erotico’, “non pare umano”. Hadot osserva, a proposito dell’esempio di Socrate (del Socrate ‘mitizzato’ se non proprio dello sfuggente Socrate storico), che “ciò che si cerca di attualizzare e di far diventare un ideale filosofico è piuttosto la sua vita e la sua morte, interamente dedicate agli altri, votate a indurli a prendersi cura di se stessi, a renderli migliori” . E, a proposito dello stoicismo, sostiene: “Non dire: non ci si può occupare degli altri senza occuparsi di se stessi, ma, al contrario, come dice Seneca (Lettera 48, 3): ‘Vivi per gli altri, se vuoi vivere per te’. Infatti, aggiunge Seneca, non si può essere felici, se si pensa solo a se stessi. E’ vero che si potrebbe pensare che, per occuparsi degli altri, sia necessario anzitutto trasformare se stessi; ma questa trasformazione di sé consiste appunto nell’essere attenti agli altri. In conclusione, con una formulazione forse un po’ esagerata, direi che non c’è autentica preoccupazione per gli altri senza oblio di sé. O comunque certamente senza l’oblio del proprio interesse personale” . Bisogna comunque riconoscere francamente che la convinzione di un Marco Aurelio (“la bontà presuppone un disinteresse totale, deve essere in qualche modo spontanea e irriflessa, senza il minimo calcolo, senza il minimo compiacimento verso se stessi” ), non è una posizione comune fra i filosofi estranei alla tradizione biblica e, in particolare, evangelica .
Questi brevi, telegrafici accenni, suggeriscono - sulla domanda intorno alla spiritualità filosofica – almeno due considerazioni conclusive. La prima: nella repubblica filosofica ogni filosofo può essere testimone di una sua spiritualità, in coerenza con ciò che pensa sull’intero. Nella realtà esistono tante spiritualità, quasi quanti sono le donne e gli uomini che affrontano il cammino filosofico. E’ solo a partire, induttivamente, dalla molteplicità delle spiritualità effettivamente incarnate che si può osare costruire, per astrazione (operazione non solo lecita, ma indispensabile a chi voglia filosofare), un identikit della spiritualità filosofica in quanto tale.
Seconda considerazione: il modello astratto di una spiritualità filosofica coincide con la struttura idealtipica della spiritualità umana. Non sto, ovviamente, negando la specificità della spiritualità biblica rispetto alla spiritualità della filosofia greca o delle filosofie religiose orientali o delle psicologie umanistiche del XX secolo: tanto meno sto auspicando, nel tempo, una dissoluzione delle specificità in una grande, indistinto blob dove sia irrilevante ogni questione di principi, di metodi e di fini. La spiritualità del futuro, nella mia prospettiva, avrà al contrario la struttura policroma di un mosaico di spiritualità ‘settoriali’: ogni ‘tessera’ contribuirà all’armonia del sistema quanto più sarà sé stessa, unica, inconfondibile (anche se spogliata da superfetazioni dogmatiche o moralistiche e ri-centrata sulla ‘perla preziosa’ in cui consiste il suo specifico). Sto, insomma, asserendo che il mosaico delle spiritualità ‘regionali’ può costruirsi (sia pure in forma sempre provvisoria e perfezionabile) solo sullo sfondo – o sulla base - di una spiritualità ‘fondamentale’ tanto più filosofica quanto meno si declina, e si lega e si presenta, in specifiche istituzioni, tradizioni, ideologie, simbologie. Una simile spiritualità si dedica a coltivare quel ‘terreno’ essenziale senza di cui ogni sedicente spiritualità rischierebbe di entrare in contraddizione con altre e con sé stessa (per esempio assimilando, esaltando ed esibendo elementi di disprezzo di etnie diverse dalla propria o di determinate specie animali). Può essere immaginata, insomma, come l’humus fertilizzante nel giardino delle spiritualità contemporanee. Nella conversazione, a cui ho già attinto prima, con Davidson, Pierre Hadot a un certo punto sostiene: “Mi è rimasta impressa questa frase di Anne Cheng nel suo libro Storia del pensiero cinese, a proposito del Tao (o Dao): <>. Questa osservazione mi induce a pensare che l’idea di un cambiamento di livello dell’io si ritrovi in filosofie estremamente diverse” . Per parte mia, sommessamente, mi limiterei a modificare il termine ‘filosofie’ in ‘spiritualità’ (femminile plurale). Perché non proprio tutte le filosofie sono anche delle proposte di trasformazione spirituale e, soprattutto, perché ci sono proposte di trasformazione spirituale che non sono anche dottrine filosofiche. E’ là dove si configura una qualche forma di spiritualità che pulsa La Mystique sauvage di cui si è occupato Michel Ulin: un “sentimento oceanico” (Romain Rolland) che mi spinge, ben al di là delle ristrettezze dell’ego, ad avvertire la “coappartenenza essenziale tra me e l’universo circostante”.

Augusto Cavadi

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