“RASSEGNA DI TEOLOGIA”
2011 – 3 (ANNO LII)
PP. 524 – 526
A. CAVADI, Il Dio dei mafiosi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, pp. 243, € 18,00.
«Come mai Filippo Marchese – prima di torturare, strangolare e sciogliere nell’acido una vittima, spesso a lui del tutto ignota sino a cinque minuti prima – invocava la benedizione di Dio, facendosi il segno della croce?» (p. 218).
Questa domanda, formulata nel post scriptum del volume, rappresenta l’interrogativo di fondo, come spiega Cavadi, da cui ha preso le mosse la scrittura del libro. È noto, infatti, che i mafiosi, salvo poche eccezioni, si dichiarano cattolici e praticanti, sostengono o gestiscono manifestazioni religiose come le processioni; si sa che nei covi dei latitanti sono state rinvenute Bibbie e altri libri religiosi. La religiosità dei mafiosi è un fenomeno che si è imposto all’attenzione del pubblico per il risalto mediatico che ad essa è stato dato - ad esempio in occasione della cattura di uomini di mafia come Bernardo Provenzano con la sua Bibbia cifrata - ma non solo. Su di essa, infatti, si è acceso anche un dibattito culturale e diverse pubblicazioni si occupano dell’argomento, sebbene lo facciano da differenti prospettive: sociologica, storica, antropologica. Tra le più recenti vanno richiamate quelle di V. CERUSO, Le sagrestie di Cosa Nostra. Inchiesta su preti e mafiosi, Newton Compton, Roma 2007; di A. DINO, La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa Nostra, Laterza, Roma-Bari 2008 e l’ancora più recente di I. SALES, I preti e i mafiosi. Storia dei rapporti tra mafie e chiesa cattolica, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010. Rispetto a questi studi, il libro di Cavadi prova ad affrontare la questione da un’ulteriore prospettiva, quella teologica. Egli cerca di indagare la concezione religiosa della mafia, che considera al pari di una teologia. Il precedente a cui si richiama è un articolo, di cui riprende il titolo, del magistrato R. SCARPINATO («il Dio dei mafiosi», in Micromega [1998/1] 45-68) che, però, a giudizio di Cavadi, non mantiene ciò che promette.
Il libro si articola, grosso modo, in due sezioni. Nella prima viene presa in esame la transcultura mafiosa e i suoi legami con la teologia mafiosa, mentre nella seconda vengono discussi gli aspetti specifici di una teologia incompatibile con quella mafiosa.
Secondo Cavadi la mentalità mafiosa mostra delle contiguità con una certa mentalità cattolica o, per meglio dire, con alcuni atteggiamenti ecclesiastici verificatisi nel corso della storia. Ad esempio, il rifiuto della giustizia civile e la rivendicazione da parte della mafia di un’amministrazione in proprio della giustizia, vengono accostati al fenomeno delle storiche immunità ecclesiastiche; o ancora l’omertà mafiosa viene posta in relazione con la segretezza ecclesiastica. Tra gli aspetti comuni alle due mentalità Cavadi segnala il «dogmatismo cognitivo» e il «fondamentalismo identitario» (p. 80). La teologia mafiosa sarebbe, però, una teologia profondamente atea. Egli afferma: «l’ateismo di alcuni esplicita, svela, la “verità” nascosta dietro le menzogne, autoingannatrici, degli altri, perché la religione dei mafiosi è una delle tante versioni in cui si configura l’atteggiamento più sostanzialmente irreligioso che l’uomo possa nutrire» (p. 93). Cavadi delinea le caratteristiche di questa teologia atea dei mafiosi e in questa parte del volume sviluppa confronti con l’articolo di Scarpinato. In realtà non si tratta di «una teologia consapevole e meditata, organicamente articolata» (p. 98), ma di «una teologia irriflessa e approssimativa, anche se interiorizzata e praticata» (p. 99). Questa teologia enfatizza alcuni aspetti della teologia cattolica mutilandone altri. Ad esempio, propone un’immagine di Dio caratterizzata da «onnipotenza senza misericordia» (p. 101); da «trascendenza senza immanenza» (p. 105); si tratta di un Dio «garante dell’ordine cosmico e sociale» (p. 109) a cui si deve obbedienza cieca così come se ne deve ai capi di Cosa Nostra. Inoltre la mafia tiene in gran conto la mediazione dei santi, la cui funzione di intercessori li caratterizza come veri e propri “padrini” celesti, secondo un modello di religione eminentemente clientelare. Particolarmente pericolosa si è rivelata, secondo Cavadi, la teologia della soddisfazione vicaria: se Dio sacrifica il suo unico Figlio, allora è legittimata e giustificata ogni vendetta anche attraverso la morte di parenti innocenti di pentiti e traditori a vario titolo. Insomma, emerge «un’idea “tribale” di Dio» e «un’ecclesiologia altrettanto “tribale”» (p. 121). Si tratta poi di una teologia dal «registro lugubre» (p. 132) in cui è esaltata la passione e la morte e omessa la risurrezione.
Ma questa teologia, che definirei caricaturale, in che rapporto sta con la teologia cattolica? Si tratta di una deviazione e di una deformazione o in qualche modo essa dipende da una teologia cattolica che ne ha favorito lo sviluppo? Secondo Cavadi, se «la teologia cattolica non produce la mafia» (p. 142), essa però «contribuisce alla concreta configurazione di questa mafia» (p. 143). In particolare la commistione è da ricondursi a quella particolare teologia che egli definisce cattolico-mediterranea, frutto di un intreccio piuttosto complesso di componenti che non sono solo di natura religiosa. Infatti, «in Sicilia la mentalità cattolica è anche un po’ borghese e un po’ mafiosa, la mentalità mafiosa è anche un po’ borghese e un po’ cattolica» (p. 152). Ne consegue, secondo Cavadi, che non è sufficiente demistificare, da parte della teologia cattolica, la cultura mafiosa: bisogna anche demistificarne gli aspetti borghesi e capitalistici e quelli cattolico-mediterranei.
I tratti caratterizzanti una teologia incompatibile con la mentalità religiosa della mafia sono quelli di una teologia negativa e non trionfalistica, non antropomorfa, che indichi le vie della liberazione e della misericordia di Dio annunciate da Gesù; una teologia capace di animare una prassi credente, che dà vita ad una spiritualità che Cavadi delinea come incarnata, sobria, conviviale, sovversiva, non violenta e gioiosa. Figure di martiri come don Pino Puglisi – la cui testimonianza è più volte richiamata nel testo – incarnano questo modello. Si potrebbe osservare che questa teologia e la spiritualità e la prassi che la esprimono, producono martiri. Solo una testimonianza evangelica diffusa, una teologia condivisa e tradotta in pratica non da parte di singoli ma a livello ecclesiale può marcare veramente la distanza con la mafia e sottrarle terreno: come ricorda Cavadi, i martiri della mafia sono martiri anche della solitudine in cui vengono a trovarsi e della singolarità della loro testimonianza.
Complessivamente il libro di Cavadi è ricco di spunti e induce a riflettere sulla zona di confine tra la teologia speculativa e i suoi risvolti pratici; una zona magmatica in cui possono generarsi ambiguità e allignare pericolose connivenze: un rischio storicamente sottovalutato o addirittura negato anche da uomini di Chiesa e rispetto al quale si vanno finalmente delineando chiare prese di posizione, come quelle contenute nel recente documento della Conferenza Episcopale Italiana “Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno”.
Anna Carfora
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