Dal volume Paideia. Pratiche filosofiche come pratiche educative, a cura di M. L. Martini e A. Mignone, Liguori, Napoli 2011, pp. 99 – 109.
Educare alla politica. Esperienze (extra moenia) e riflessioni
Una possibile rappresentazione dello scenario contemporaneo
La democrazia senza un minimo di alfabetizzazione politica dei cittadini non è mera finzione: peggio, è la premessa di una catastrofe. Una nave, in cui - eccitati dall’aver detronizzato il capitano tirannico – i passeggeri navighino alla deriva, ha davanti a sé un bivio: o il colpo di mano di un passeggero (anche pochissimo esperto) che decida comunque di afferrare il timone o il naufragio. Ma quali sarebbero le agenzie educative che dovrebbero assumersi la responsabilità di una tale alfabetizzazione necessaria a evitare una democrazia senza demos?
Mi pare, almeno nell’attuale contesto storico italiano, in ordine di successione cronologica secondo le tappe evolutive del soggetto: la famiglia, la scuola, le chiese, le organizzazioni sindacali e partitiche.
Quanto all’ambito familiare, non c’è dubbio che si tratti di una risorsa fondamentale: chi ha il privilegio di essere inserito in qualcosa che assomigli a un assetto familiare, in cui almeno un genitore sia in grado di interloquire su questioni politiche con i figliuoli senza dogmatismi e insofferenze (e, essendone in grado, sia anche disponibile a investire del tempo in queste conversazioni); in cui non manchi nel corso della settimana qualche quotidiano o qualche periodico con articoli dei quali discutere; in cui la gestione del televisore di casa non sia del tutto random o mirata a scegliere metodicamente i programmi di evasione dalle questioni cruciali della storia; in cui talora ci si rechi insieme al cinematografo per aggiornarsi su una problematica di attualità sociale; in cui ogni tanto si organizzino dei viaggi estivi per conoscere da vicino sistemi socio-politici differenti dal nostro…chi ha questo privilegio – dicevo – parte già con una predisposizione preziosa a interessarsi di politica. Ma, appunto, di privilegio (o di un combinato disposto di privilegi) si tratta: di un’eccezione statistica che non compensa la quantità di situazioni di gran lunga più numerose.
Dove la famiglia non incide, solitamente, quando si tratta di altre dimensioni dell’esistenza, supplisce la scuola. Cosa che non avviene, però, per la formazione politica a causa di motivi strutturali e, soprattutto, culturali. I motivi strutturali sono a tutti noti: l’organizzazione disciplinare riserva all’educazione civica un’ora settimanale che, spesso e volentieri, viene fagocitata dall’invadente disciplina abbinata (la storia). Ma le ragioni più pesanti sono, a mio parere, di ordine culturale. Qualora, infatti, tutti i docenti assumessero la formazione politica degli alunni come obiettivo trasversale, essa non soffrirebbe più l’angustia dei confini dell’ora settimanale e potrebbe spaziare – in cerca di alimento - tra le più svariate discipline scolastiche: dalla letteratura italiana (romanzi storici e poesia civile) alle scienze naturali (ecologia, bioetica, cicli alimentari), dalla letteratura straniera alla geografia, dalla filosofia alle discipline tecniche (relative a costruzioni edili, a sistemi informatici, a trattamenti di sostanze stupefacenti). Invece la politica è considerata nelle aule scolastiche una sorta di tabù: s’identificano, a torto, attività politico-elettorale (che è bene resti fuori dal portone della scuola per evitare che crei contrapposizioni fra docenti e docenti, alunni e alunni, docenti e alunni) e cultura politica (che non solo può, ma deve entrare all’interno delle aule, pena l’irrilevanza di tutto il sistema scolastico ai fini della formazione integrale del soggetto). Licenziare con un diploma di Stato (di “maturità” !) un diciottenne che non abbia mai visto con i propri occhi la Carta costituzionale; che non sia stato mai informato sulla differenza fra programmi di ‘destra’ e programmi di ‘sinistra’; che non abbia mai ascoltato una sola lezione sulla struttura di Cosa nostra o della ‘Ndrangheta…dovrebbe essere inconcepibile. E, invece, è la norma statistica. Giovanni Falcone raccontava che, nonostante fosse nato e avesse studiato a Palermo, una volta entrato in magistratura aveva dovuto farsi una preparazione sul sistema mafioso da autodidatta perché non gli era stata fornita alcuna informazione sull’argomento né al liceo né all’università.
Il vuoto formativo addebitabile a carenze pedagogiche della famiglia e della scuola non è certo colmato da iniziative delle chiese cristiane (la chiesa cattolica in primis). Anche in questo settore s’intrecciano ragioni ‘oggettive’ e ragioni ‘intenzionali’. Oggettivamente, infatti, le nuove generazioni sono sempre più restie a frequentare ambienti religiosi di stampo confessionale, preferendo altri luoghi d’incontro generazionale e di socializzazione. A quanti, poi, si avvicinano, parrocchie e associazioni cattoliche offrono - solitamente - strumenti di evangelizzazione e di catechesi: al di fuori del recinto biblico-teologico, ci si occupa se mai di iniziative sociali (come assistenza ai barboni o raccolta di fondi per ospedali in Africa). Intenzionalmente estraneo, in misura più o meno radicale, resta il piano politico-istituzionale: quasi fosse il regno del diavolo o, comunque, dell’irrilevanza. Anche come effetto del Concilio Vaticano II e del papato di Paolo VI (dal quale la politica veniva considerata “la più alta forma di carità”), non sono mancate, in varie città italiane, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, delle scuole di formazione politica attivate da diocesi (come la Milano del cardinal Martini) e ordini religiosi (come il centro “Pedro Arrupe” di Palermo dei padri Gesuiti); ma, a parte il fatto che si vanno progressivamente chiudendo, si è trattato di iniziative fortemente caratterizzate dalla “dottrina sociale cattolica” e, dunque, non adatte a una alfabetizzazione più ampia in funzione di opzioni pluralistiche. In questo panorama, non è infrequente il caso di comunità cattoliche in cui convive, insieme al disinteresse ‘formale’ per l’impegno politico-istituzionale, la sponsorizzazione ‘informale’ di liste e candidati che promettono di garantire (più o meno attendibilmente) la difesa dei ‘valori cattolici’ nelle assemblee rappresentative di livello comunale, provinciale, regionale o nazionale: fenomeni di segno integralistico che non sono certo più desiderabili della neutralità, distante e indifferente, di chi snobba il dibattito politico.
Sino agli anni Ottanta del XX secolo, chi non trovava né in famiglia né a scuola né nell’associazione cattolica di appartenenza una formazione politica poteva – comunque – bussare alle porte di un sindacato o di un partito politico. Non vanno mitizzati né quei centri studio fondati da confederazioni sindacali né quelle scuole di partito, orientati - gli uni e, ancor più, le altre – monodirezionalmente in senso ideologico: ma, almeno, chi militava in un sindacato o in un partito veniva messo in grado di decifrare un testo, un documento, un progetto di legge. Veniva aiutato a uscire dall’analfabetismo totale in questioni politiche, legislative e amministrative. E non pochi, iniziati a un universo concettuale e linguistico ‘di parte’, prendevano gusto alla lettura e alla ricerca; spulciavano le carte dei ‘nemici’; allargavano gli orizzonti e la gamma delle opzioni; potevano finire magari con il mutare schieramento non perché ‘acquistati’ come calciatori di football da una società più danarosa, ma perché ‘convertiti’ ad una visione dell’uomo, della società e dell’economia diversa dall’originaria. Per quel che mi consta, oggi anche questi ‘luoghi’ della formazione politica sono stati chiusi e, con il tramonto delle ideologie (vero o presunto, apprezzabile o preoccupante), la battaglia politica si è andata trasformando da competizione d’idee a concorrenza fra slogan , formule ad effetto.
Il ruolo del volontariato culturale
E’ in questo scenario che nel 1988 ho ritenuto necessario attingere alla filosofia-in-pratica (così come l’avevo intuita, prima, e gradualmente focalizzata, dall’incontro con la philosophische praxis in poi) per inventare uno spazio nuovo di formazione politica che avesse i caratteri della laicità e della polifonicità. L’idea di partenza è sintetizzabile in termini elementari: chi fa della filosofia la propria professione, remunerata dallo Stato o da enti privati o da privati cittadini, può farne anche un servizio di volontariato culturale. Ho quindi proposto, ad amici e alunni, di attivare un Laboratorio di cultura politica apartitico, pluralistico e itinerante : un appuntamento mensile, ospitato a turno da associazioni cattoliche o aconfessionali sparse nella città di Palermo e nei comuni della provincia, intorno a un tema di teoria della politica (cos’è il potere? Cos’è lo Stato? Che significa democrazia? La legalità formale coincide con la giustizia sostanziale? …). Semplicissima la metodologia: si sceglieva un testo-base di riferimento comune (Introduzione alla politica di Michael Laver piuttosto che Stato, governo, società. Per una teoria generale della politica di Norberto Bobbio) che ogni partecipante s’impegnava a studiare a casa e, quando il mese successivo ci s’incontrava, a turno un volontario si assumeva il compito di riferire al gruppo di lavoro le linee essenziali del testo adottato e di avviare la discussione con alcune sue osservazioni personali. Il ruolo del filosofo-in-pratica si dispiegava in varie modalità: progettare un itinerario di fondo, suggerire al gruppo temi e testi, introdurre e moderare i seminari, fornire eventuali chiarimenti tecnici su concetti e vocaboli che non risultassero di immediata comprensione…Più in generale, egli - in quanto “specialista del non speciale” – aveva la regia complessiva dell’iniziativa. La formazione politica è infatti incrocio di saperi specialistici svariati (diritto, economia, storia, filosofia, sociologia, antropologia, politologia, psicologia sociale…): senza un ‘traduttore simultaneo’, che decodifichi i linguaggi specifici e favorisca l’interlocuzione reciproca, non è facile pervenire a uno sguardo sinottico. Che è poi lo sguardo della sapienza/saggezza che, attraversati gli ambiti delle ‘scienze’, pervenga a un punto di vista globale: aristotelicamente, ‘politico’. Inoltre, poiché l’educazione alla politica non può essere mera istruzione cognitiva, il compito del filosofo-in-pratica in questi contesti non si limita alla consulenza ‘culturale’: egli investe la propria autorevolezza anche nella gestione tecnica della discussione, assicurando il diritto democratico di parola a ciascuno e il corrispondente dovere di ascolto (o, per lo meno, di silenzio) degli altri. In questo modo la democrazia la si apprende anche sperimentandola (“l’operazione decisiva è […] di sostenere iniziative di sviluppo di micro-democrazie locali come luoghi adatti alla coltura di etiche della responsabilità e di pratiche di dialogo” ) e, sperimentandola in sede di discussione filosofica, la si rinforza: “soltanto la filosofia come pratica riflessiva contestualizzata, in ultima analisi, può fare da fondamento/ inizio per la democrazia e può tenerla in vita successivamente” .
I risultati di questa sperimentazione pedagogico-didattica (rivolta a cittadini di ogni età, non esclusivamente a giovani) sono stati così incoraggianti da indurre i promotori a trasformare, dopo alcuni anni, l’iniziativa in una struttura più stabile e con un’offerta formativa più articolata. Quando, fra il maggio e il luglio del 1992, Palermo e l’intero Paese furono sconvolti dalle stragi di mafia, che costarono la vita a tre magistrati (Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino) e a numerosi poliziotti delle loro scorte, gli alunni mi chiesero che cosa potessimo fare come società civile per frenare la deriva del sistema democratico. Proposi, maieuticamente, di cercare insieme le risposte e, dopo alcune discussioni in aula, arrivammo a stilare un dossier di poche decine di pagine (pubblicato, in cinquemila copie, con un finanziamento da parte di uno sponsor privato di Roma; poi ripubblicato come volumetto - Liberarsi dal dominio mafioso. Che cosa può fare ciascuno di noi qui e subito - a Bologna nel 1993 dalle Edizioni Dehoniane che lo hanno ristampato nel 1994 e, in seconda edizione, nel 2003): il cittadino ‘comune’ può opporsi al dilagare del sistema di potere mafioso usando le armi della conoscenza, della politica, dell’economia, della pedagogia sociale e soprattutto della resistenza etica ai compromessi e ai carrierismi. Il messaggio centrale era netto: un assetto democratico funziona se ogni cittadino s’impegna, con il massimo di responsabilità e di competenza, nell’ambito della propria sfera. Che comportava - in concreto - per intellettuali, docenti e studenti l’attuazione di questo criterio? Che ci si dedicasse a monitorare la fenomenologia mafiosa con analisi quanto più scientifiche e aggiornate; che se ne ricercassero i presupposti storici e culturali nonché gli effetti devastanti sul piano della quotidianità; che si divulgassero i risultati di questi studi in strati sociali quanto più ampi possibile in modo da non continuare a regalare ai mafiosi la copertura del silenzio. Forte dell’esperienza del Laboratorio di cultura politica operante dal 1988, ho dunque proposto nel 1992 la costituzione della Scuola di formazione etico-politica ‘G. Falcone’ : una struttura permanente di incontro, di studio, di dibattito per consentire l’interscambio sia fra competenti di discipline differenti (mettere intorno allo stesso tavolo lo storico con il sociologo, il criminologo con il teologo, il romanziere con l’economista, lo psicologo con l’antropologo…) sia fra la ristretta cerchia dei competenti e la più vasta dei cittadini attivi (insegnanti, avvocati, magistrati, assistenti sociali, operatori volontari…) . Come verificato nei 4 anni del Laboratorio, anche in questi 18 anni di Scuola il ruolo del filosofo-in-pratica è risultato molto funzionale, per certi versi insostituibile. Lo è stato dal punto di vista contenutistico perché la piattaforma delle idee indispensabili per una cittadinanza adulta non è appannaggio di una disciplina in particolare e, dunque, solo se ogni specialista impara a parlare una sorta di koiné (che attinge da ciascun ambito disciplinare senza identificarsi con nessuno) può contribuire costruttivamente alla creazione del puzzle complessivo: e chi meglio del filosofo (anche grazie alla sua conoscenza della storia del pensiero occidentale nelle diverse articolazioni che nel corso dei secoli si sono staccate dal tronco dell’albero metafisico per diventare approcci epistemologicamente autonomi: il diritto, la politica, la psicologia, la sociologia, l’economia, l’antropologia culturale…) può offrirsi come interprete dei dialetti specialistici e propositore della koiné transdisciplinare? Inoltre, man mano che questa sorta di mosaico - in cui s’incastrano tessere di colore diverso e di matrice diversa – va prendendo forma in sede di ricerca e di elaborazione, è necessario che qualcuno si occupi di socializzare i risultati (sia pure in progress) non solo per spirito di servizio nei confronti dei ‘non addetti ai lavori’ ma anche per sottoporre quei risultati maturati a tavolino alla verifica pratica di chi vive nel quotidiano il rapporto con le istituzioni, con le dinamiche sociali, con i gruppi di pressione legittimi e con le organizzazioni criminali. Anche su questo secondo versante, per così dire essoterico, l’agilità mentale e l’abilità comunicativa del filosofo-in-pratica si sono dimostrate difficilmente sostituibili.
Sin qui il registro contenutistico: il piano dei concetti, delle argomentazioni, delle tecniche comunicative. Ma va registrata la necessità di un filosofo-in-pratica anche sul piano metodologico. Senza entrare in dettagli dispersivi, mi pare di poter notare un equivoco ormai diffuso, almeno in Italia: l’uso del termine ‘formazione’ per indicare un processo quasi esclusivamente di ‘istruzione’. Formare (almeno nel campo, che qui ci interessa, della formazione alla cittadinanza matura) è sì offrire gli strumenti cognitivi per un’alfabetizzazione essenziale, ma è solo questo? O non è anche necessario coinvolgere altri strati della personalità, là dove maturano le opzioni etiche di fondo? E a tale scopo non è imprescindibile attivare il senso critico degli interlocutori, una volta che si siano trasmesse delle informazioni ‘oggettive’? E che cosa sarebbe un esercizio critico che non partisse dal confronto dialogico fra esistenti in carne ed ossa e non soltanto fra cervelli? Non so se esista una figura professionale in grado di gestire la complessità di tutte queste dinamiche, ma so che il filosofo-in-pratica costituisce l’esperto meno lontano da queste aspettative. Egli, infatti, pur possedendo alcune qualità dello psicologo e altre del didatta, può essere portatore di una competenza specifica che riguarda la conoscenza sapienziale e la sua traduzione ‘prudenziale’ in atteggiamenti, gesti, comportamenti.
Alcuni strumenti operativi
In quasi venti anni di attività ‘formativa’ ho avuto modo di elaborare e diffondere alcuni strumenti operativi che sono stati utilizzati da altri formatori, ovviamente adattandoli liberamente secondo gli stili personali, i contesti sociali e i destinatari delle iniziative. Evocare, sinteticamente, alcuni di questi strumenti bibliografici potrà forse riuscire di qualche utilità a chi vorrà sperimentare in prima persona le risorse della filosofia-in-pratica e, comunque, sarà un modo per dare un’idea meno approssimativa di alcuni percorsi che ho raccontato nelle righe precedenti.
Un primo orientamento ho ritenuto di offrirlo mettendo a disposizione della conoscenza e della riflessione critica dei partecipanti a seminari di educazione politica un quadro sinottico comparativo delle principali “ideologie” del XX secolo. So bene che il vocabolo è sotto processo e non ho difficoltà a che si sostituisca con “dottrine politiche” o “teorie politiche” o con altre denominazioni meno contestate: ma, al di là delle dispute nominalistiche, sono convinto che per capire i programmi dei partiti, dei sindacati, dei movimenti attuali, non si possono ignorare le grandi “narrazioni” del XIX e del XX secolo né nel caso che se ne condivida qualcuna né nel caso che si pretenda di superarle, sostituirle o inverarle. Ritengo dunque che, per decifrare le proclamazioni ufficiali degli attori politici (e ancor più le normative che emanano quando ne hanno facoltà istituzionale), sia indispensabile un’informazione completa ed onesta - ancorché sommaria – di quali siano i principali progetti di civiltà in lizza nel panorama contemporaneo. Così, nel volumetto Le ideologie del Novecento. Cosa sono state, come possono rifondarsi (Rubbettino, Soveria Mannelli 2001), ho provato a fissare (con il ricorso continuo alle ‘fonti’) quali siano la concezione di uomo, di società, di Stato, di economia, di educazione e di religione…rispettivamente nella prospettiva liberale, comunista, socialdemocratica, fascista, cattolica, conservatrice, ambientalista e anarchica. Spero che, anche da questi cenni telegrafici, s’intuisca come un ‘manuale’ del genere attraversi molte discipline (la filosofia, la storia, il diritto, la politologia, l’economia, la pedagogia, la teologia…) e come sia possibile prepararlo e proporlo solo se, dopo aver esercitato il docile ascolto di molti specialisti, si ha l’intraprendenza di creare un mix che infrange le recinzioni accademiche e sfida i possibili rilievi dei pedanti che sanno quasi tutto su un frammento microscopico del sapere. Sarebbe troppo lungo, rispetto allo spazio a disposizione, riferire le gratificazioni pedagogiche raccolte nei decenni in cui ho girovagato per scuole, centri sociali, parrocchie, sedi di sindacato e (più raramente !) di partito a presentare questa sorta di rosa di ipotesi teorico-politiche in cui ognuno può rispecchiarsi e riconoscere ciò che già da prima, in maniera irriflessa, pensava sul destino dell’uomo, sulla natura del potere politico, sul mercato o sul sistema dell’istruzione scolastica. Mi limito a due soli ricordi. Il primo riguarda un ragazzo, militante di un’organizzazione giovanile di estrema destra, che, avendo appreso da me alcune tesi mussoliniane sulla vocazione imperialistica dello Stato e sulla ineluttabilità della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, si è dichiarato sinceramente stupito dal momento che, personalmente, nutriva convinzioni ben diverse sulla politica ideale; il secondo riguarda uno dei più noti intellettuali anarchici italiani che, avendo assistito alla mia esposizione dei punti capitali dell’anarchismo e conoscendo le mie forti riserve su di essi, ha pubblicamente dichiarato di augurarsi che tutti gli anarchici potessero partecipare a occasioni formative del genere.
Operazioni del genere non sono esenti, comunque, da rischi. Ne segnalo uno per tutti: cancellare la differenza fra il filosofo e l’ideologo. Per questo, ogni volta che mi sembra possibile e opportuno, accompagno questa ‘consulenza filosofica di gruppo’ con una meta-riflessione epistemologica: “Studiare psicologia può servire per curare gli psicopatici come studiare fisica atomica può servire per preparare ordigni bellici: perciò si può benissimo fare dell’ottima psicologia o dell’ottima fisica atomica mossi più dal desiderio di curare malati o di sterminare popoli che dal desiderio di conoscere, ‘disinteressatamente’, la psiche umana o la struttura della materia. Ma studiare filosofia significa imparare a sperimentare il gusto della problematizzazione radicale, la libertà di non dare nulla per scontato, la gioia di intraprendere un cammino verso ‘spessori’ sempre più significativi della realtà senza scadenze predeterminate né ordini dall’alto: come si potrebbe allora stabilire prima, e una volta e per sempre, ‘a che cosa serva’ simile avventura? Dopo, a posteriori, e caso per caso, si potrà dire se una ricerca filosofica è servita a molto o a poco; ma a priori, se vuole essere una ricerca davvero spregiudicata e illuminante, non deve ‘servire a nulla’. E ‘a nessuno’. Dopo Tommaso d’Aquino posso dire quanto la sua speculazione metafisica sia servita alla diffusione della religione cattolica, come dopo Nietzsche posso dire quanto la sua riflessione critica sia servita al consolidarsi dei movimenti ateistici contemporanei: ma le loro filosofie, in quanto ‘filosofie’, valgono nella misura in cui intendevano dire pane al pane e vino al vino, mentre accusano maggiormente i loro limiti nella misura in cui erano elaborate pensando non alle ‘cose stesse ’, ma al ‘pubblico’ che avrebbe potuto giovarsi dei loro discorsi. Tutto ciò vale sul piano dei discorsi astratti, del ‘si dovrebbe’: di fatto l’esperienza attesta diversamente. Molti, che si autodefiniscono filosofi, sanno, sin dai primi passi, quali partiti politici o quali chiese saranno favoriti - o ostacolati – dalla loro riflessione: in realtà, ciò che essi producono, piuttosto che una ‘filosofia’ è una ‘ideologia’, un complesso di concetti in funzione operativa. Ovviamente il mestiere di ‘ideologo’ non ha nulla da invidiare a quello di ‘filosofo’: l’importante è chiarire subito che non si tratta dello stesso mestiere. Si potrebbe aggiungere che il lavoro dell’ideologo è più richiesto, e più pagato, di quello del filosofo; ma anche, forse, che l’umanità ha più bisogno di intellettuali imprevedibili che di intellettuali programmabili”
Dissipato il possibile equivoco, restano aperte altre questioni. Mi limito alla più impegnativa: la necessità di far intuire che le opzioni politiche presuppongono – e poi, a loro volta, rafforzano o mettono in crisi – delle opzioni esistenziali. Già il semplice fatto di mettersi alla ricerca di un orientamento ‘ideologico’ presuppone la decisione etica di impegnarsi per la polis: o per conservarne gli assetti istituzionali e i valori tradizionali o per modificarli, più o meno radicalmente, sulla base di un modello alternativo. Tale decisione etica, a sua volta, è radicata in una ‘visione del mondo’ complessiva di cui siamo portatori raramente consapevoli. Da qui l’opportunità di agevolare, in appositi seminari, la focalizzazione del nesso fra la propria ‘filosofia’ di vita e il proprio comportamento in ambito socio-politico. A tale scopo ho preparato un altro volumetto, dal titolo Ripartire dalle radici. Naufragio della politica ed etiche contemporanee (Cittadella, Assisi 2000), in cui esamino cinque prospettive teoretiche con l’intento di evidenziare quali orientamenti politici se ne possono trarre: il ‘pensiero debole’ di Gianni Vattimo, l’individualismo ‘intelligente’ di Fernand Savater, il ‘vangelo della perdizione’ di Edgar Morin, la ‘teologia della liberazione’ di Edward Schillebeeckx, l’ ‘etica della responsabilità’ di Hans Jonas. Per ciascuno di questi maestri del pensiero contemporaneo ho cercato di mettere in evidenza il nesso fra ciò che essi pensano sul senso dell’esistere nel mondo e ciò che propongono per una società meno ingiusta. Non è certo il caso di ripercorrere nei dettagli queste esemplificazioni paradigmatiche (fra l’etica della finitezza e la riduzione della violenza in Vattimo; fra l’egoismo etico e l’individualismo politico in Savater; fra l’etica della perdizione e l’antropopolitica in Morin; fra la fede cristiana e la liberazione etico-politica in Schillebeeckx o fra l’etica della responsabilità e il superamento dell’alternativa capitalismo/comunismo secondo Jonas): ciò che mi preme evidenziare, invece, è che una molteplice esperienza mi attesta che numerose persone trovano filosoficamente intrigante questo tipo di servizio intellettuale. Infatti, chi non è abituato a frequentare i testi filosofici, si rallegra di riconoscere nelle parole di questo o di quell’altro pensatore quanto egli stesso ha ritenuto vero senza saper formularlo né a sé né agli altri. Ed è grato quando incontra un ‘consulente’ che gli espone una gamma articolata di prospettive filosofiche non solo con sostanziale correttezza ‘filologica’ ma, ancor più, con equanimità: senza intenti proselitistici né toni saccenti. Quando insomma ha la fondata ‘sensazione’ che sta parlando con qualcuno che non vuole né polemizzare né convertire, ma ragionare con calma: nella condivisa speranza di raccogliere, in ogni dottrina filosofica e in ogni proposta politica, qualche perla di verità.
AUGUSTO CAVADI
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CAVADI A., Le nuove frontiere dell’impegno sociale, politico, ecclesiale, postfazione
di G. Moro, Paoline, Milano 1992;
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CAVADI A., Nelle aule entri la politica, “Repubblica” (Palermo), 1.12.2001
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CAVADI A., Gente bella. Volti e storie da non dimenticare, Il pozzo di Giacobbe,
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CAVADI A., Strappare una generazione alla mafia. Lineamenti di pedagogia
alternativa, Di Girolamo, Trapani 2007
CAVADI A., Giovani: una generazione a perdere?, “Presbyteri” (Trento)
, 2008, 7
CAVADI A., Se la politica entra a scuola, “Centonove” (Messina) , 16.10.2009
CAVADI A., Filosofare in terra di mafia, “Vita pensata” (www.vitapensata.eu),
2010, 1
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