Intervista ad Augusto Cavadi
LUNEDÌ 06 GIUGNO 2011
(di Ettore Zanca)
Augusto Cavadi ha fatto del suo lavoro una missione e viceversa, insegna filosofia ed educazione civica nei licei palermitani, ma non è solo un professore: è un insegnante. Una bella differenza, perché si possono applicare meccanicamente dei precetti e insegnare la legalità. I ragazzi ti ascoltano se sai esplorare il loro mondo e se parli il loro idioma. Il professor, pardon, l’insegnante Augusto Cavadi in questo caso può definirsi un poliglotta. Il suo curriculum biobibliografico è sterminato. Volendosi fortemente limitare si potrebbe citare una delle sue realizzazioni più importanti, la scuola di formazione etico-politica “G. Falcone”, fondata nel 1992 per dare occasione a chi lo desideri di migliorare e approfondire i percorsi della legalità. È filosofo e giornalista, collaboratore di “Repubblica”.
Abbiamo chiesto al Professor Cavadi di aiutarci a capire meglio il valore della sua ultima opera edita da Newton Compton: “101 storie di mafia che non ti hanno mai raccontato”, ecco di seguito quello che ci ha raccontato.
Lei è un insegnante: possiamo dire che è un “educatore della legalità“?
La legalità, sic et simpliciter, per me non è un valore. Rispettare le leggi vigenti può essere un merito, ma anche un demerito: un merito se sono leggi finalizzate al Bene comune, un demerito se fabbricate per gli interessi di un privato, di una classe sociale o di una nazione. Dunque vorrei educare alla legalità democratica, sostanziale, ‘giusta’: in Italia si potrebbe anche dire ‘costituzionale’. E vorrei educare alla trasgressione, alla disobbedienza civile, in tutti gli altri casi.
Nel suo libro “101 storie di mafia che non ti hanno mai raccontato” parla più volte di un argomento poco noto: la nuova mafia ha attecchito prima di tutto nelle scuole “bene”, si è istruita e lo ha fatto con la scuola pubblica e privata, lo diceva anche Antonino Agostino, l’agente ucciso con la moglie. Lei percepisce questo “salto di qualità” che paventava?
Veramente non parlo di “nuova” mafia perché non vorrei dare l’impressione che ce ne sia una “vecchia” (e magari migliore o, per lo meno, meno odiosa). Nel 1875 Franchetti lo aveva visto lucidamente: i briganti sono povera gente, i mafiosi “facinorosi della classe media”. Dunque la “borghesia mafiosa” (di cui hanno parlato per primi Mineo e Santino) non è una novità.
In che fase siamo secondo lei nella lotta alla mafia? Sembra che non sia più facile arrivare ai colletti bianchi…
Siamo a metà del guado. Molto realizzato sul piano giudiziario-repressivo, molto da fare sul piano della conversione intellettuale e etica dei cittadini. Fra dieci anni potremmo arrivare a liberarci da Cosa nostra (il che non significa da ogni reato possibile, da ogni ingiustizia immaginabile, da ogni corruzione praticabile), ma con altrettante probabilità potremmo ritrovarci al punto morto di venti anni fa, all’indomani delle stragi del ’92.
Secondo lei la mafia è unica o è divisa tra manovalanza e poteri inarrivabili?
E’ una quanto a organizzazione, ma articolata su diversi strati. Al vertice della piramide non ci sono personaggi misteriosi, “grandi vecchi”, “burattinai imprendibili”: sono, di volta in volta, i vari Michele Greco, Totò Riina, Binnu Provenzano, Totò Lo Piccolo…Interlocutori prestigiosi e difficili da incastrare ci sono stati certamente (due nomi per tutti: Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi), ma non si tratta - tecnicamente – di mafiosi. Se facciamo di tutte le erbe un unico fascio, rischiamo di annacquare il quadro e rendere più difficile l’individuazione delle responsabilità penali che sono diverse da quelle politiche, così come quelle politiche sono differenti da quelle etiche.
Lei racconta nel libro anche episodi esilaranti in mezzo ad altri tragici: si può parlare di mafia anche con un sorriso frutto di riflessione e consapevolezza?
Non solo “si può″, ma a mio parere “si deve”; altrimenti prendiamo il sistema di potere mafioso, e soprattutto i suoi protagonisti, troppo sul serio. Sono invece persone in carne e ossa che non vanno sottovalutati, ma neppure mitizzati. Nella storia non c’è mai una tragedia che non sia attraversata da venature comiche.
Come convincerebbe uno scettico a leggere il suo bel libro?
Che il libro sia “bello” lo dice Lei e ne sono contento. Difficilmente un autore può convincere “uno scettico” a leggere le sue opere: l’unico argomento convincente può essere costituito dalla lettura di qualche altro mio libro precedente che, se apprezzato, può invogliare a leggerne altri. Una recensione del mio libro sosteneva, scherzosamente, che esistono “101 ragioni” per leggere queste “101 storie”: preferisco, però, che siano gli altri a trovarle e a diffonderle.
http://www.grnet.it/bloggers/2827-intervista-ad-augusto-cavadi.html
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