sabato 30 aprile 2011

Pedofilo, ego te absolvo!


“Centonove”, 29 aprile 2011

PEDOFILO, IO TI ASSOLVO

Quale sia stata la spinta decisiva per la stesura del suo ultimo, lucido saggio (”Non lasciate che i bambini vadano a loro. Chiesa Cattolica e abusi sui minori” , Falzea , pp. 144, € 11,90,) lo dice l’autore stesso, Augusto Cavadi, alla fine del libro, nella paginetta dedicata ai ringraziamenti, quando dichiara di non aver potuto far passare sotto silenzio le “deliranti dichiarazioni” su omosessualità e pedofilia, pronunciate da mons. Giacomo Babini, vescovo emerito di Grosseto, che ha affermato testualmente: “Io come Vescovo sarei maggiormente comprensivo con un prete pedofilo che si penta (…) che con questi viziosi. Le dico di più: se mi fosse capitato un pedofilo non lo avrei denunciato, ma cercato di redimere (…) Ma con i viziosi bisogna essere intransigenti” .
Come più volte sottolineato dall’autore, uno dei focus di questo testo non è tanto esplorare la dimensione quantitativa della pedofilia all’interno della Chiesa cattolica, quanto evidenziare la strategia della Chiesa di occultarne l’imbarazzante presenza al suo interno, confondendo spesso l’abuso con una pretesa devianza sessuale. A questo proposito, Cavadi ci ricorda che l’accostamento omosessualità/pedofilia viene ripreso, all’interno del mondo cattolico, da voci eminenti quali quelle del cardinal Bertone e del sociologo Massimo Introvigne. Che dichiara: “Piaccia o non piaccia, la maggioranza dei sacerdoti accusati di abusi pedofili è omosessuale. Una maggiore vigilanza nei confronti di una subcultura omosessuale (…) può dunque essere parte della soluzione”. Affermazioni queste, per Tonino Cantelmi, Presidente dell’Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici, decisamente destituite di fondamento.
Ecco allora che il J’accuse del libro è rivolto piuttosto verso un’Istituzione, la Chiesa cattolica, che privilegia i suoi equilibri di potere piuttosto che la salvaguardia dei più deboli. Perché, se è noto che tutti gli ambienti dove vivono e crescono ragazzi e ragazze sono potenzialmente a rischio di infiltrazioni pedofile, e se è vero che l’abuso sui minori costituisce ancora un tema di cui è difficile parlare sia nel mondo cattolico che nella società, è purtroppo innegabile, come ci ricorda nell’introduzione il teologo Vito Mancuso, che “per interi decenni si è preferita l’onorabilità della struttura politica della Chiesa rispetto alla giustizia verso le vittime e quindi verso Dio. Gli zelanti apologeti (…) non capiscono che è proprio il loro atteggiamento a renderla più distante dalla sete di giustizia che pervade il nostro tempo”.
E poi, senza mezzi termini, il gesuita p.Klaus Mertes afferma che “c’è la presunzione della Chiesa di avere in sé energie sufficienti per combattere questi abusi, senza dover ricorrere a istituzioni laiche”. I preti pedofili, infatti, sono stati spesso coperti dalla gerarchia che, al rispetto per l’innocenza offesa e per il più debole, ha preferito in questi casi tacere e insabbiare. E un Procuratore milanese costata che la Magistratura non si è quasi mai avvalsa di denunce ecclesiali di un prete pedofilo, ma solo di denunce di familiari della vittima, spesso ignorati dall’autorità religiosa.
Il punto nodale allora, sostiene Cavadi, è che è giunto il momento di rivedere profondamente le procedure di reclutamento e formazione del clero: “istituzione artificiosa, protetta da una campana impenetrabile di riservatezza. E di interrogarsi su possibili antidoti e soluzioni al problema che comportino una nuova visione antropologica ed ecclesiologica: una profonda rivisitazione dei processi formativi dei presbiteri, il superamento della spaccatura tra clero e laici, lo sradicamento della sete di dominio che spesso alligna nella concezione sacrale: “E’ la sete di dominio la radice più profonda della pedofilia”. “Verrebbe voglia di chiamare tutto questo ‘pedofilia strutturale’ della Chiesa, nel senso appunto di amore verso gli uomini e le donne perennemente bambini”.
Parole forti, parole dure, parole chiare. Che forse possono lasciare nel lettore un retrogusto d’amaro. E che, temo, abbiano un poco emendabile effetto collaterale. Quello di rendere il testo ‘pesante’ e indigesto proprio a chi avrebbe più bisogno di leggerlo e meditarlo: i cattolici delle mille parrocchie, i vertici della Gerarchia cattolica. Che, purtroppo, continuano a considerare un tabù inaccessibile la nostra fragile e meravigliosa corporeità, anziché sforzarsi di ascoltarla, nei suoi mille linguaggi, nei suoi bisogni. Invece, forse proprio di questo avremmo urgentemente bisogno, all’interno della Chiesa cattolica e nella laica società civile, oggi duramente provata dai noti scandali governativi: una pedagogia serena della corporeità, declinata nelle sue autentiche e gratuite espressioni, vissuta castamente o responsabilmente, a seconda delle scelte e dei cammini personali di un’umanità finalmente adulta e consapevole.

Maria D’Asaro

martedì 26 aprile 2011

Simonetta Rinaldi su “In verità ci disse altro”


Salve prof. Cavadi,
ho appena finito di leggere il Suo libro “ In verità ci disse altro” e Le scrivo per esprimere il mio apprezzamento oltre che la mia riconoscenza per averlo voluto scrivere.
Io ritengo di far parte di quelle persone che Lei definisce “in ricerca, intenzionati a perseverare nella doppia fedeltà all’intelligenza ed al vangelo” e che, proprio per questo motivo, spesso si sentono “pesci fuor d’acqua” o meglio, come ha bene indicato nella Sua prefazione, “appartenenti ad una famiglia disfunzionale”.
Io non ho studiato teologia o filosofia e non sono biblista. Sono semplicemente una persona che cerca di pensare e di agire nel modo più maturo e consapevole possibile e che è affascinata da questi temi.
Ritengo che una delle vie per aumentare la consapevolezza nelle persone, per consentire alla gente di fare un salto verso una dimensione di vita più matura e più adulta, sia costituita dallo scambio, dalla reciproca contaminazione e dalla collaborazione tra chi si dedica principalmente al fare e chi si dedica principalmente alla ricerca ed allo studio.
Per questo considero che il suo libro abbia un grande valore: rappresenta, secondo me, uno dei preziosi agganci (purtroppo troppo pochi o troppo poco conosciuti) tra chi cerca principalmente di “operare” ma ha bisogno dell’apporto di chi fa ricerca di senso, allo stesso modo in cui lo studioso ha bisogno di riscontri e confronti con chi si dedica principalmente alla prassi (mi piacciono e trovo molto interessanti i concetti di “ricerca-azione” e “con-ricerca”).
Non penso che ci sia per forza una divisione netta tra chi opera e chi studia. Molto spesso però questi due mondi rimangono basilarmente separati.
Per questo Le sono grata di aver scritto questo Suo libro, accessibile a tutti pur rimanendo ad un livello alto, allo stesso modo in cui sono grata ad esempio a Raimon Panikkar per aver deciso ad un certo punto della sua vita di rivolgersi anche a chi non è uno studioso, rendendo i suoi concetti e la sua ricerca accessibile (almeno in parte) anche alle persone sprovviste del suo grande bagaglio culturale ed intellettuale.
Mi auguro che le donne e gli uomini di buona volontà che vogliono aprire gli occhi (o che già li hanno aperti ma passano per coloro che ci vedono male…) possano intravedere davvero nuovi orizzonti e nuove prospettive di vita personale e sociale e respirare a pieni polmoni aria nuova e rigenerante per avere l’entusiasmo e la speranza di riuscire a dare il proprio seppur piccolo contributo a questo nostro mondo.
….il suo libro per me è stato veramente come una boccata di ossigeno e ne trarrò sicuramente beneficio nella mia esperienza di cittadina, di moglie e madre di quattro figlie adolescenti, di figlia e sorella e naturalmente di cristiana nel senso più ampio e profondo che questa parola ha.
Con grande stima e cordialità
Simonetta Rinaldi
Albino (BG)

sabato 23 aprile 2011

Le pratiche filosofiche in... pratica


Dal volume:
Autori vari, “Interpretare, vivere, con-filosofare. Studi in onore di Rosaria Longo”, a cura di F. Coniglione, Bonanno, Acireale – Roma 2011, pp. 151 – 158.

Augusto Cavadi

COSA SONO, IN PRATICA, LE PRATICHE FILOSOFICHE?
ALCUNE ESEMPLIFICAZIONI ESPERIENZIALI.

Col semantema ‘filosofare’ si allude ad una innumerevole gamma di atteggiamenti esistenziali, attività intellettuali , metodologie di ricerca, stili di vita. Tanti, direi, quanti sono stati nel passato e sono nel presente i soggetti che - per autodefinizione e/o per riconoscimento sociale - si considerano ‘filosofi’. Questa gioiosa anarchia è il difetto più vistoso ed il pregio più esaltante della (in)disciplina in questione. Se qualcuno avesse la volontà - e il potere - di ridurre ad unum il variegato arcipelago delle filosofie (non dico dei loro contenuti, ma anche solo dei loro statuti epistemologici), lo avrebbe per ciò stesso distrutto. Chi è allergico al pluralismo selvaggio, si deve rassegnare: la filosofia non sopporta recinti, frontiere, trincee (ortodossia sino a qua, eresia al di là). Filosofo è chi propone nuove letture della realtà (il teoreta, lo speculativo); filosofo è colui che si dedica all’esegesi e all’ermeneutica dei testi filosofici tramandati (lo storico della filosofia); filosofo è, anche, colui che (grazie ad una certa propensione teoretica personale e a una solida frequentazione della letteratura filosofica primaria e secondaria) si espone come interlocutore di altri soggetti desiderosi di filosofare (siano questi, a loro volta, filosofi di mestiere o ’semplici’ cittadini professionalmente impegnati in altri settori disciplinari e lavorativi). Dunque filosofo è anche il consulente filosofico o, come preferirei denominarlo, il filosofo-in-pratica .
Conosco troppo bene l’obiezione: ma dove lo trovi, nel XXI secolo, qualcuno disposto a cercare un filosofo per filosofare - e addirittura a remunerarlo? Sei così ingenuo da immaginare che l’epoca delle scuole greche ed ellenistiche - o anche solo dei salotti illuministici - non sia tramontata per sempre? In una fase storica in cui la gente è stretta nella morsa fra necessità economiche vitali e desiderio di distrazioni alienanti, a chi proporre spazi per con-filosofare, dunque spazi inutili dal punto di vista produttivo? E, per giunta, spazi in cui esercitarsi ad invertire la fuga dalle domande più imbarazzanti su sé stessi e sul mondo?
All’obiezione di tipo sociologico, empirico, non si possono opporre argomenti: ma fatti. Esemplificazioni storiche. Esperienze effettivamente realizzate. E’ quanto tenterò di fare, sia pur sommariamente, in queste poche pagine autobiografiche (che non sarebbero per nulla interessanti se fossero solo autobiografiche e non evocassero, inevitabilmente, centinaia di volti e di biografie che si sono, nel corso dei decenni, incrociati con la mia trascurabile vicenda esistenziale) .

Pratiche in contesto ‘ludico’
Nell’estate del 1983 ho invitato per una settimana in Trentino un gruppetto di colleghi e di ex-alunni per provare a coniugare turismo e riflessione, svago e meditazione: nascono le “vacanze filosofiche per …non filosofi”. Costituiscono la smentita più clamorosa dell’opinione pregiudiziale di chi ritiene che solo il disagio interiore, la sofferenza o l’angoscia può spingere un non-filosofo di mestiere a far filosofia: capita anche esattamente l’inverso. Capita che si voglia riflettere sulla posizione dell’uomo nell’universo o sulle sfaccettature dell’amore o sul fascino inquietante del sacro…non quando si sta psicologicamente male, e perché si sta male, ma quando si sta bene e perché ci si sente abbastanza disposti. Le pratiche filosofiche possono dare serenità a chi non ce l’ha, ma anche conservarla o accrescerla a chi ce l’ha: e, poiché - secondo l’avvertenza hegeliana - la filosofia non deve essere consolatrice a tutti in costi, può persino capitare che si inizi a filosofare in condizioni psicologicamente rilassate e, man mano che si va avanti, si sperimenti un’inquietudine inedita. Non so se per la psicoterapia l’obiettivo principale sia sciogliere le tensioni e favorire l’armonia, il rilassamento, la pace: so però che - per la filosofia - armonia, rilassamento e pace sono solo possibili effetti collaterali (desiderabili) . Il centro focale è crescere nella consapevolezza realistica di come stanno le cose: è avvicinarsi alla ‘verità‘, qualsiasi cosa intendiamo più precisamente con questo termine impegnativo e abusato . 
Dodici mesi, fra una vacanza estiva e la successiva, sono tanti: “per chi è immerso in faccende e affari ben lontani dalla filosofia” - mi ha obiettato una volta un amico avvocato cassazionista - “costituiscono un periodo di astinenza eccessivo”. Da qui l’idea di inserire, in un primo momento, degli appuntamenti occasionali (i week-end filosofici per non…filosofi e i “discorsi a tavola”) ; successivamente, di stabilizzare tali appuntamenti ogni quindici giorni con la denominazione di “cenette filosofiche per…non filosofi” . Solo chi non ha mai presenziato effettivamente ad uno di questi incontri può supporre che la ludicità del contesto ostacoli - anziché favorirla - la serietà nei contenuti, nello stile comunicativo e nell’atteggiamento esistenziale da parte dei partecipanti. A meno che per serietà non si intenda seriosità, supponenza, lugubre incapacità di prendere le distanze dai capricci del caso e di cogliere l’aspetto umoristico della vita. Dunque, anche della vita intellettuale.

Pratiche in contesto formativo
La filosofia-in-pratica può essere richiesta in contesti non solo ludici, ma anche formativi. Sarebbe impossibile richiamare in poche pagine le esperienze, decisamente incoraggianti, che ho avuto la fortuna di poter realizzare nei decenni trascorsi. Quasi a caso, prescelgo dalla memoria alcune esemplificazioni.
Quando nel 1992 lo stragismo mafioso sembrò toccare l’apice con gli attentati dinamitardi ai magistrati Falcone e Borsellino (attentati nei quali persero vita la moglie di Giovanni Falcone e molti agenti di scorta), ho ritenuto opportuno mobilitare le intelligenze più vive e più sensibili di mia conoscenza per predisporre una struttura permanente di formazione alla cittadinanza consapevole ed attiva che, elevando il livello delle conoscenze e dell’impegno civico, potesse costituire uno dei tanti tasselli della più complessiva strategia antimafia. Ho così avviato l’associazione di volontariato culturale “Scuola di formazione etico-politica ‘G. Falcone’ ” di Palermo che, dall’ottobre del 1992 ad oggi (2009), ha organizzato centinaia di corsi, seminari, incontri pubblici, presentazioni di libri, tavole rotonde in ogni parte d’Italia. Ebbene, questi interventi formativi sono stati possibili perché le interlocuzioni con gli specialisti delle discipline specifiche (scienze umane, storiche, sociali, giuridiche, economiche, teologiche…) sono state innervate nel filo rosso di una alfabetizzazione filosofica di base: consistente non tanto in occasionali esposizioni di determinate teorie di filosofia morale o di filosofia politica, quanto soprattutto nella pratica di una metodologia filosofica caratterizzata da capacità di ascolto, richiesta di ragioni a sostegno delle diverse tesi, esercizio della critica costruttiva di ciò che veniva appreso. La filosofia, proprio accettando di uscire dal recinto disciplinare tradizionale, ha potuto manifestare le sue potenzialità celate attraverso il confronto ermeneutico e maieutico con domande, problematiche, ipotesi provenienti dall’esterno: da altre aree di indagine e, ancor di più, dalla ruvida e irriguardosa concretezza della storia e della cronaca .
Un’altra esperienza significativa l’ho potuta svolgere per anni inserendo dei moduli di interrogazione filosofica all’interno del progetto formativo della “Università della strada” presso il Centro Studi “Pedro Arrupe” di Palermo. Infatti a coloro che si iscrivevano ai corsi di avviamento al volontariato sociale - prima di esporre le linee essenziali della sociologia, della pedagogia, delle tecniche di animazione di gruppo o di gestione delle risorse finanziarie - si proponevano due tipi di incontri propedeutici: uno, di impronta psicologica, sulle motivazioni soggettive verso l’impegno di volontari; l’altro, di impronta filosofica, sulle motivazioni etiche e sulle prospettive socio-politiche del medesimo impegno. Non sembri un paradosso, ma proprio la constatazione che questo duplice filtro preliminare induceva diversi aspiranti-volontari a rinunziare ai loro intenti costituiva una prova del valore e dell’efficacia di tali incontri, mirati alla consapevolezza di ciò che una scelta di vita nel segno del volontariato comporta sia dal punto di vista delle disposizioni psicologiche sia dal punto di vista della solidità della propria visione del mondo .

Pratiche in contesto spirituale
La filosofia può trovare ospitalità in contesti ludici, pur senza banalizzarsi in intrattenimento d’evasione, dunque; e in contesti formativi, pur vietandosi ogni intento pedagogico-didattico improntato al proselitismo. Può anche inserirsi in percorsi spirituali? Certamente. A patto, ovviamente, di non sposare nessuna confessione religiosa e di mirare a gettare quelle basi di interiorità, riflessività, dialogicità, sensibilità al bello naturale ed artistico, solidarietà verso gli altri esseri viventi e senzienti…a quelle basi, insomma, senza le quali nessuna spiritualità (confessionale o aconfessionale che sia) può affondare solide radici e slanciarsi in alto e in avanti. Così, dal 2002, una volta al mese mi trovo a condividere con un quasi-gruppo (la cui composizione è aperta e fluida) di amiche ed amici uno spazio di sperimentazione che, con sottile auto-ironia, abbiamo denominato “La domenica di chi non ha chiesa”. Ci si incontra (in una casa messa a disposizione da qualcuno al termine dell’incontro precedente) alle 11 del mattino in modo da dedicare - dalle 11,30 alle 13 - un tempo adeguato alla meditazione comunitaria. In clima di silenzio, un membro del gruppo a turno introduce brevemente alla visione di uno stralcio di pellicola cinematografica o alla contemplazione di un quadro o all’ascolto di un brano musicale, di una poesia, di un testo filosofico…Poi, chi lo desidera, socializza con calma le risonanze, le intuizioni, i sentimenti, i propositi operativi che l’input ricevuto gli suggerisce. Dopo le ore 13 l’atmosfera di raccoglimento si stempera per fare spazio all’allegria del desco condiviso dove ognuno depone ciò che può e trae ciò che vuole. E’ un tentativo di darsi una mano a vicenda per attraversare laicamente la secolarizzazione: intendendo per ‘laicità‘ l’animus di chi non cede alla nostalgia della civitas christiana, ma non si rassegna nemmeno alla piatta omologazione consumistica delle festività ridotte troppo spesso a giornate oscillanti fra la noia domestica e lo shopping fuori casa. Essere laici significa essere talmente liberi da poter abbracciare, con uguale dignità e con uguale rispetto per opzioni diverse, una fede teologica o una visione a-tea o un atteggiamento di dubbio e di ricerca. E da non voler seppellire nel guscio del proprio individualismo la propria opzione di fondo, bensì da desiderare - senza paura e senza iattanza - di esporla alla riflessione (pacatamente critica) di altri compagni di ricerca .

Pratiche esclusivamente filosofiche
Nelle esperienze che ho sinora ricordato, la filosofia si offre. Ma ci sono casi in cui essa è invitata espressamente, intenzionalmente. In questi casi si tratta di pratiche consulenziali, tipicamente professionali, in cui la presenza del filosofo di mestiere risponde ad una esplicita richiesta da parte di singole persone o di gruppi strutturati.
Sulle consulenze filosofiche in assetto duale vorrei limitarmi a notare che, se pur raramente, anche esse possono scaturire da un’esigenza di confronto intellettuale. Certo, di solito, chi bussa alla mia porta per un colloquio è mosso da problematiche spinose, talora addirittura angustianti: in questi casi - statisticamente i più ricorrenti - non mi propongo di lenire la sofferenza (o, per essere più precisi, non me lo propongo direttamente), ma, bypassando ogni intento terapeutico e/o consolatorio, cerco di allargare la sfera degli interrogativi possibili. Sino al punto in cui la questione concreta, determinata, circoscritta che agitava originariamente l’animo del mio interlocutore si ridimensioni - se non addirittura si dissolva - all’interno di una prospettiva più ampia: che è domanda di senso globale, ricerca di un punto di vista sapienziale sinottico, spostamento verso un’angolazione panoramica complessiva. Ci sono stati però dei consultanti che, in apertura, hanno voluto chiarire di essere in condizioni di serenità psicologica e di equilibrio emozionale. E che anzi avevano deciso di interpellarmi proprio perché questa fase di tranquillità interiore gli consentiva il lusso di discutere con una persona qualificata su alcune tematiche legate all’epistemologia e alla deontologia della loro professione (penso, in particolare, ad un antropologo culturale che ha voluto sottoporre ad esame critico alcune sue idee sulla possibilità per l’uomo di cogliere qualche verità; sul senso della storia; sulla lingua della natura; sui criteri etici e così via).
Come accennavo sopra, ritengo di poter considerare pratica consulenziale anche gli incontri in cui un gruppo strutturato ha chiesto di confrontarsi con me proprio in quanto filosofo. Considero tali incontri dei momenti di consulenza filosofica quando (per una serie di circostanze non tutte dipendenti dalla mia volontà) si riesce a discutere insieme (co-filosofare) non solo su temi filosofici (l’onestà nel lavoro, i rapporti interpersonali all’interno di una organizzazione sociale…) ma anche, e direi soprattutto, con modalità filosofiche (dunque supportando i propri pareri con argomentazioni almeno elementari e in una dimensione di scambio amicale senza ombra di riserve pregiudiziali né intenti prevaricatori). E’ ciò che di solito avviene nelle sessioni di filosofia-in-pratica che mi è capitato di realizzare con gli operatori (medici, infermieri, psicologi e assistenti sociali) della Samot (un’associazione di assistenza ai malati oncologici terminali) ; con i sindacalisti della Filca - Cisl (dunque in genere operai edili, del legno e affini), con i docenti, i genitori e gli educatori professionali della sezione scuola di “Libera” (associazione antimafia).
Un cenno a parte, conclusivamente, meritano le sessioni di filosofia-in-pratica che svolgo ogni quindici giorni al Cesmi - Centro studi di medicina integrata - di Palermo: in esse sperimento una forma, molto elastica, di philosophy for community perché una piccola “comunità di ricerca” (abbastanza consolidata, al punto da poter accogliere senza traumi dei nuovi inserimenti occasionali) individua un tema che sta a cuore a qualcuno dei membri e la volta successiva se ne discute non in forma di “dibattito” bensì di scambio dialogico cooperativo. Anche in questo contesto, il filosofo professionista non gioca alcun ruolo ‘magisteriale’: deve solo moderare, o stimolare (secondo i casi), la riflessione personale e la interazione fra i partecipanti (preferenzialmente: cittadini che non si occupano per mestiere di filosofia). Chiunque può chiedere, e ottenere, la parola. Purché intervenga con stile filosofico. Dunque con stile spregiudicato (in filosofia non si può dare nulla per scontato: non si può presupporre che gli altri diano per ovvia qualche credenza religiosa, morale, politica, scientifica o d’altro genere); dialettico (in filosofia si può sostenere qualsiasi tesi, purché non ci si limiti ad esternare stati d’animo soggettivi o slogan: occorre argomentare la propria opinione, “rendere ragione” di ciò che si sostiene; sincero (in filosofia la motivazione essenziale dovrebbe essere la passione per la verità: dialogando con gli altri si dovrebbe evitare di sostenere ciò di cui non si è intimamente convinti); amichevole (in filosofia non ci sono avversari, ma compagni di strada: non ha senso intervenire polemicamente, per difendere animatamente una propria ‘posizione’ o per imporla ad altri a scopi di proselitismo o di propaganda).

Augusto Cavadi

venerdì 22 aprile 2011

Il Gesù di Pietro Barcellona


“Vita pensata”
(www.vitapensata.eu)

IL GESU’ DI PIETRO BARCELLONA

Aprile 2011

“Sono stato affettivamente colpito dal Vangelo di Gesù Cristo e dalla sua predicazione nella terra di Galilea. La nascita di Cristo è, infatti, una rottura epocale rispetto al tradizionale modo di vedere il rapporto fra Dio e mondo, fra divino e umano, una discontinuità assoluta rispetto a tutte le ipotesi di configurazione del Dio delle religioni” (p. 26). Dichiarazioni – o meglio, agostinianamente, ‘confessioni’ – di questo tenore non mancano nella letteratura e nella cronaca della nostra epoca. Calciatori promettenti e attrici non proprio castigate, per non parlare di artisti e scrittori in fin di vita, ogni tanto sorprendono il pubblico manifestando sentimenti religiosi sconosciuti. E talora insospettabili.
Meno frequente è il caso di un intellettuale di sinistra che, maturo ma vivo e vitalissimo, decide di raccontare - senza concedere molto al pudore – le ragioni del suo passaggio da Marx a Cristo. Ed è proprio questo che fa Pietro Barcellona (nel suo Incontro con Gesù, Marietti 1820, Genova – Milano 2010), consapevole del rischio mediatico di “entrare nella cerchia delle clamorose conversioni di questa epoca” (specie quando la narrazione assume i tratti del “delirio”), ma convinto di essere protagonista di una vicenda dai risvolti culturali ‘oggettivi’, ben al di là dei travagli intimi soggettivi.
Di che si tratta, in breve? “Nichilismo, evoluzionismo e relativismo conducono tutti allo stesso risultato: la vita non vale niente, è un puro funzionale equivalente a qualsiasi altro fattore che si inserisca nella catena evolutiva ai fini della riproduzione della vita materiale” (p.25). Ci si può accontentare di questo messaggio egemone nella cultura contemporanea? Barcellona non ci sta: “Sembra naturale che, a questo punto della storia, si torni a riflettere sul tema che ha segnato le vicende dell’Occidente: il rapporto fra l’umano e il divino, poiché solo la presenza del divino potrebbe gettare un ponte tra la nostra dolorosa finitezza e la gioiosa giostra delle galassie e delle stelle” (p. 25 ).
Dove lo porta questo cammino riflessivo? Non a un Dio trascendente, che salvi “dall’alto del proprio trono”, “figura divina troppo metafisica per non apparire una pura proiezione psicologica degli esseri umani” (p. 25 ) : bensì a un personaggio storico, in carne e ossa, Gesù di Nazaret. “Quando mi capita di assistere” - spiega, ad esempio, il filosofo del diritto catanese – “alla proiezione dello straordinario film di Pasolini Il Vangelo secondo Matteo ho la sensazione che quella figura bianco vestita pronunci frasi e parole che vanno oltre la filosofia greca e la sapienza orientale, per arrivare fin dentro al cuore delle persone, e non ci si può stupire più che quell’uomo sia Dio e che Dio sia un uomo” (pp. 26 - 27 ).
Davanti a tanto entusiasmo, la reazione spontanea del lettore è un rispettoso silenzio. Se il lettore non è digiuno di teologia, però, non può reprimere degli interrogativi che lo stesso Barcellona, in fasi ulteriori della sua ricerca spirituale, potrà porsi. Interrogativi che si potrebbero condensare in uno solo, di fondo: questo incontro con Gesù Cristo avviene ‘oltre’ la ragione e su elementi offerti dalla ragione umana oppure mettendo da parte, bypassando, i dati delle scienze storiche e le acquisizioni della stessa teologia critica più aggiornata? La risposta del’autore mi pare decifrabile in maniera abbastanza trasparente: egli scavalca con disinvoltura tutta una serie di questioni esegetiche (a cominciare dalla questione che Gesù non si è mai considerato un Dio né tanto meno si è presentato come tale ai discepoli) e si pone davanti al vangelo con invidiabile (invidiabile ?) ingenuità. La verità filosofica (necessità logica di una dimensione divina oltre la dimensione materiale) e la verità storica (solo nei secoli successivi alla sua morte in croce il profeta di Galilea è stato trasformato da Messìa, inviato del Padre, in incarnazione unica e irripetibile di Jahvé stesso) non rientrano nell’ambito degli interessi di Barcellona: “la verità psicologica, che soltanto per un’assurda scissione dello Spirito umano si è trasformata nell’astratta verità speculativa e nella triste verità del materialismo scientista, è l’unica strada che si apre davanti a noi nella crisi di tutti i saperi” (p. 113). Egli, insomma, crede nel divino - anzi, nella personificazione terrena di Dio in Cristo – per una sorta di esigenza interiore: la vita sarebbe insopportabile senza questa fede. E gli uomini, come per altro dimostrano abbondantemente, si chiuderebbero nei ristretti orizzonti del tornaconto individualistico e nell’orgoglio nazionalistico. Invece, se credessero nel Dio fatto uomo, realizzerebbero quello che Pietro Barcellona confessa di aver invano inseguito per decenni: “il Sogno Rivoluzionario” di Marx senza la degenerazione in “una forma di comunismo rozza e materiale” (p. 124). E’ insomma, nella sostanza, la posizione di Dostoevskij: dobbiamo credere in Dio perché, se non ci fosse, tutto sarebbe permesso. Una posizione, bisogna aggiungere, pericolosamente ribaltabile da chi sostiene che, affinché tutto sia permesso, si debba necessariamente negare l’esistenza di Dio. Un cristianesimo che non sia basato sulle “ragioni del cuore” , ma che costituisca un appello ragionevole a scoprire che ci sono più cose in terra e in cielo di quanto ne contenga il piccolo mondo delle speranze e dei timori umani, non sembra interessare il nostro pensatore siciliano. Almeno per ora.

Augusto Cavadi

giovedì 14 aprile 2011

Ci vediamo a Trapani venerdì 15 aprile alle 18,30?


Venerdì 15, alle 18.30, presso la Parrocchia di N. S. di Lourdes in v. Virgilio, a Trapani, terrò una conversazione pubblica (ingresso libero) sul tema.

“Il sistema di dominio mafioso: responsabilità della Chiesa cattolica”.

sabato 9 aprile 2011

Ci vediamo a Palermo mercoledì 13 aprile?


Care e cari,
sono davvero felice di comunicarvi che mercoledi 13 aprile alle 18.15
al “Giardino Costa” di viale Lazio (ex verde Terrasi) angolo viale Campania, due esponenti di primissimo piano della psicologia italiana (Franco Di Maria e Girolamo Lo Verso, entrambi docenti dell’Università di Palermo) hanno accettato di discutere con me il libro - che non ho ancora mai presentato in città - “Filosofia di strada. La filosofia-in-pratica e le sue pratiche”
(Di Girolamo, Trapani 2010).
Come alcuni di voi già sanno, in questo volume presento le principali ‘pratiche filosofiche’: la consulenza filosofica, le “vacanze filosofiche”, le “cenette filosofiche”, le “domeniche di chi non ha chiesa”, la “philosophy for children” etc.
Illustro, inoltre, la differenza (non competitiva) fra la filosofia ‘ufficiale’ (delle scuole e delle università) e la filosofia per “non filosofi” (che si pratica in ambienti ‘profani’).
In considerazione della professionalità specifica dei due ospiti, l’incontro di mercoledì si concentrerà soprattutto sul confronto fra consulenza filosofica e psicoterapie.

martedì 5 aprile 2011

I picchetti contro un libro di destra
alla Mondadori di Palermo


“Repubblica – Palermo”
2 marzo 2011

Perché sono intollerabili i picchetti contro un libro

Sulla stampa regionale è passata una notizia apparentemente marginale: la Mondadori di Palermo è stata costretta a rimandare la presentazione di un libro di ‘destra’ per le minacce di sabotaggio avanzate da alcuni gruppetti di ‘sinistra’. Siamo proprio sicuri che si tratti di una notizia poco rilevante?
L’anomalia della situazione italiana attuale sta anche in questo: mentre nelle società democratiche occidentali si va acquisendo crescente consapevolezza della necessità di una grammatica della competizione politica, da noi si calpestano anche quelle poche regole che - dopo la caduta del fascismo, prima, e del sistema socialista sovietico, dopo – sembravano acquisite e condivise. Così che laddove, nei sistemi rappresentativi liberali, chi vuole disattendere la legalità cerca almeno un qualche scudo di ipocrisia, il ventennio craxiano-berlusconiano ci sta assuefacendo alla sfrontatezza della tracotanza: faccio come mi pare e piace e, se hai coraggio, me lo impedisci. Per noi siciliani non è una novità assoluta perché è lo stile mafioso: novità è che questa mentalità e questo linguaggio e questo metodo diventino motivo di orgoglio di partito e di consenso sociale diffuso. Sino al punto che più di metà dei deputati nazionali arrivano pubblicamente a sostenere, con un voto ufficiale, che quando un capo di governo fa pressione su una questura per tirar fuori dai guai una minorenne scapestrata di cui ha comprato più volte i favori sessuali, sta agendo nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali e per salvaguardare la pace nel Mediterraneo. Ancora una volta: facciamo come ci pare e piace e, se avete coraggio, ce lo impedite.
Rispetto a questo livello di degrado, solo un’opzione può peggiorare irrimediabilmente il quadro: che anche chi non si riconosce nella cultura della coalizione di maggioranza (quella stessa per cui è normale che un direttore della RAI picchi a colpi di microfono un giornalista di un’altra rete televisiva o che un ministro della Repubblica calpesti violentemente i piedi di un giornalista poco diplomatico) adotti gli stessi sistemi intimidatori. Che anche chi crede di voler difendere i diritti elementari dei cittadini s’illuda di poterlo fare riscoprendo metodi squadristi che speravamo consegnati, ormai, agli archivi più oscuri delle tradizioni politiche (rivoluzionarie e reazionarie) del Novecento.
Per questo ritengo che il libro, così grottescamente censurato (la violenza è sempre ripugnante, ma - quando è rivolta a chi è armato solo di penna – lo è doppiamente), debba essere presentato, grazie alla presenza di esponenti delle forze dell’ordine e, soprattutto, alla condanna morale unanime di quanti, a Palermo, siamo convinti che non si può regalare agli esibizionisti dell’illegalità il favore di abbassarsi al loro vergognoso livello di scontro.

Augusto Cavadi

Quando il parroco fa il comizio anti-sinistre


“Repubblica - Palermo”
25 marzo 2011

La non sottile differenza tra l’omelia e il comizio

Se le parole volano, gli scritti restano. Per questo don Leonardo Ricotta” - parroco a Casteldaccia – ha la santa abitudine di distribuire ai fedeli la trascrizione delle sue omelie più importanti. Come il commento al brano del vangelo di domenica 13 febbraio, un passaggio rilevante del “Discorso sulla montagna” in cui Gesù di Nazareth invita a non odiare i propri nemici, soprattutto quando si è i primi responsabili dei peccati che si rinfacciano loro.
Il buon prete sa che certe prediche rischiano di volare sopra la testa - e dunque anche le orecchie – degli astanti: perciò si è sforzato, anche in questo caso, di essere concreto e di non lesinare le esemplificazioni attuali. “Non odiare mai nessuno, nemmeno Berlusconi. Se Berlusconi è un depravato, come sembra “ – ha assicurato – “ne darà conto a Dio. Ma” – ha poi aggiunto con fine argomentazione teologica - “anche gli uomini della sinistra sfileranno, uno dopo l’altro, nell’aula del Santissimo Tribunale, e il loro fardello è molto pesante. Sono i farisei di cui parla il Vangelo! Da quando portavo i calzoni corti rivendicano certe cose e, quando le raggiungono, le chiamano ‘conquiste sociali’: divorzio, aborto, sesso libero, convivenza, preservativo, pillola del mese prima e pillola del giorno dopo, il diritto alla pillola anche per le minorenni, matrimoni tra omosessuali, ‘orgoglio omosessuale’, ‘il corpo è mio e ne faccio ciò che voglio’, la moglie che non è più moglie ma compagna, laicità, ‘no alle ingerenze del Vaticano’. Negli ultimi quarant’anni hanno predicato l’inferno, hanno avvelenato l’anima di intere generazioni di giovani e ora condannano, in Berlusconi, quell’immoralità che essi hanno insegnato per quarant’anni. Hanno fatto di tutto per sfasciare la famiglia, la sua normalità, e ora si mettono a fare la morale”: “a tanto arriva la depravazione della loro coscienza”.
Come ogni predicatore di classe, anche il parroco del Comune palermitano sa che ogni arringa deve toccare – almeno ogni tanto – l’apice di un anatema: “Farisei, ipocriti, becchini delle anime: come sfuggiranno al fuoco della Geenna?” E sa pure che bisogna avere le antenne per afferrare al volo i riferimenti al contesto immediato. Così, visto che in quella domenica 13 febbraio le principali piazze italiane erano gremite di esponenti del gentil sesso, rivolge anche a loro un pensiero affettuoso: “E che dire di quelle donne che, sconvolte per il caso Ruby, scendono in piazza a difendere la dignità della donna? Non mi facciano ridere! Accompagnano le loro figlie in quella fiera di cavalli che è Miss Italia o alle selezioni del Grande Fratello o delle Veline e le mandano in giro mezze nude. Bella dignità!”.
Prediche come questa lasciano senza parole. Ma un gruppetto di cittadini di Casteldaccia ha trovato la forza di scriverne alcune: “E’ doveroso innanzitutto precisare che l’omelia non dovrebbe essere un attacco a un orientamento politico con l’implicito sostegno all’orientamento opposto perché la liturgia non è la sede per queste manifestazioni; se proprio si vuole parlare di questi problemi, si può convocare un’assemblea parrocchiale per un confronto aperto e leale”. Quanto poi alle accuse strabilianti rivolte alla “sinistra”, gli estensori della lettera aperta obiettano che “alcune scelte legislative che sono maturate negli ultimi decenni sono frutto non solo della sinistra ma di una volontà popolare, anche cattolica, che le ha sostenute e vanno comprese all’interno della laicità dello Stato la quale, senza imporre niente a nessuno, ha il dovere di salvaguardare eventuali orientamenti diversi rispetto alla morale tradizionale”. E aggiungono che don Ricotta non è riuscito ad andare oltre la caricatura della sinistra italiana, mostrando di ignorare i “valori” che essa difende: “La sinistra è l’idea che, se guardi il mondo con gli occhi dei più deboli, puoi fare davvero un mondo migliore per tutti” e che, “se pochi hanno troppo e troppi hanno poco, l’economia non gira perché l’ingiustizia fa male all’economia”. “Chi si ritiene di sinistra, chi si ritiene progressista, compresi coloro che vogliono essere fedeli al Vangelo” – conclude la lettera – “devono tenere vivo il sogno di un mondo in pace, senza odio e senza violenza”, perché “essere di sinistra significa combattere l’aggressività che ci abita dentro: quella del più forte sul più debole, dell’uomo sulla donna, di chi ha potere su chi non ne ha”.

Augusto Cavadi

Adriana Falsone su “101 storie di mafia” di Augusto


“Repubblica - Palermo”
09 marzo 2011 — pagina 14

CENTOUNO STORIE PER CAPIRE LA MAFIA

Una sfilza di aneddoti quasi surreali. Centouno, per la precisione: “101 storie di mafia che non ti hanno mai raccontato” è il nuovo libro della Newton Compton firmato da Augusto Cavadi. Criminali e complici, eroi della legalità e cittadini vittime del fuoco dei mafiosi solo per caso.
Sfogliando il libro, si insinua questa domanda: come riescono cinquemila uomini d’onore a tenere sotto scacco cinque milioni di siciliani? «La vera sconfitta della mafia sarà culturale o non sarà. Sino a quando i mafiosi resteranno convinti di essere persone di valore e sino a quando riusciranno a convincere altri di questa mistificazione, si potranno tagliare frutti e rami della mala pianta, ma le radici resteranno intatte».
Tra verbali, testimonianze ed esperienze personali, Cavadi ripercorre la storia della mafia: Salvatore Carnevale, Placido Rizzotto, Peppino Impastato, Mauro Rostagno, Libero Grassi solo per citarne alcuni. Senza dimenticare le donne che hanno seguito i mariti nelle loro peripezie di boss e latitanti: Ninetta Bagarella, Saveria Palazzolo e Grazia Minniti.
La Sicilia aspra e difficile emerge in tutta la sua crudezza per svelarci le mille sfaccettature di un potere strisciante.
Esemplare l’aneddoto risalente al 1958, che spiega meglio di qualsiasi trattato sociologico l’omertà, cardine della cultura mafiosa: «Sventagliata di colpi, fuga precipitosa per le vie del paese, due donne davanti a un negozio di giocattoli, insieme a una bambina di otto anni, cadono del tutto innocentemente. Il paese intero segue il funerale. Un giovane cronista, colpito da un’anziana donna che piange a dirotto ripetendo “Figghia mia, figghia mia…”, le si accosta per chiederle in che rapporti fosse con le donne ammazzate. La vecchietta guarda un po’ stupita, cerca di ricomporsi e ribatte: “Ma perché, morti ci furono?”».

Quante indagini avrebbero potuto prendere una piega diversa e quanti misfatti sarebbero stati svelati se i “non complici” avessero abbandonato la strada del silenzio.

Cosa nostra riesce ad attrarre la simpatia, o meglio, la complicità della gente, facendo leva sul bisogno di appoggi e di lavoro.

«Colpirne uno serve a educarne cento, specie se per novantanove si tratta solo di rinfrescare lezioni pregresse», scrive Cavadi ricordando una sequela di personaggi siciliani uccisi.

In pochi forse ricordano la figura di Paolo Giaccone, un medico su cui vennero fatte pressioni affinché stilasse una certificazione favorevole a un boss mafioso. Il professionista, uomo di grande coraggio e dignità, rifiutò. Dopo qualche giorno fu assassinato.

Curioso il modo in cui i mafiosi parlano di se stessi e della violenza. Cicoria e Bibbie a parte, non ci si deve stupire quando si scopre che nel covo di Pietro Aglieri si trovavano testi di Edith Stein o che in quelli di Giuseppe Falsone ci fossero i dialoghi platonici.

Per non parlare di don Masino Spadaro, “Il re della Kalsa”, laureato in filosofia a Perugia, mentre si trovava nel carcere di Spoleto, con una tesi su “La non violenzaei fondamenti della religione in Gandhi”.

Il codice d’onore del mafioso prescrive anche rigide regole nella camera da letto: «Ti dicono - racconta un pentito - “tu devi rispettare tua moglie”. Rispettare non si riferisce al rispetto normale. Rispettarla a letto per loro significa: “Non è che devi fare cose che… Perché quello si fa con le pulle, non si fa con le mogli”».

Altrettanto rigide le regole nel campo della religione: «La mafia non è peccato - diceva Guttadauro - Se devi confessarti, scegliti un prete intelligente». C’è da ridere amaramente leggendo il capitoletto “Padri all’antica”, che ripropone un interrogatorio del 1995: «Un pentito della Stidda, Orazio Vella, si confessa: “Facevo parte del gruppo di fuoco di Gela. Ho compiuto il primo delitto a quindici anni. Bruciavo case, mi occupavo di estorsioni e danneggiamenti”. Il presidente della corte lo interrompe per capire come mai la strage di Porto Empedocle fosse stata preceduta da un primo tentativo fallimentare. E il giovane Orazio spiega: “Perché le persone da uccidere si sarebbero incontrate al bar dopo le dieci di sera e io non potevo esserci…

Vede, signor giudice, mio padre è un tipo all’antica e se fossi rincasato tardi mi avrebbe preso a legnate”».
- ADRIANA FALSONE