“Repubblica – Palermo”
27 febbraio 2011
QUELLA CHIESA EQUIDISTANTE FRA LO STATO E COSA NOSTRA
Non ho mai conosciuto, personalmente, l’ex - vescovo di Trapani mons. Domenico Amoroso. L’unica notizia su di lui l’ebbi, negli anni Ottanta, da una suora francescana (mia alunna all’Istituto di scienze religiose di Monreale) che gli aveva portato in dono – tutta emozionata – il mio libro Fare teologia a Palermo. Intervista a don Cosimo Scordato e che era rimasta raggelata dalla sua risposta: “Una suora non compra né regala libracci di questo genere. Lo getti nell’immondizia”.
A parte questo episodio, mi risulta che nella diocesi non c’è un brutto ricordo della sua amministrazione e che, su più di un tema, si fanno confronti a lui favorevoli con vescovi precedenti e successivi. Proprio perché è stato un vescovo nella media dei vescovi siciliani, la notizia apparsa ieri di un suo ripetuto intervento presso il Viminale, nel 1992, affinché venisse abolito il regime del 41 bis (almeno per una serie di detenuti), risulta particolarmente significativa. Direi quasi esemplare. Infatti, se si fosse trattato di un prelato ambiguo e colluso (come non ne sono certo mancati nei centocinquanta anni di storia di mafia), la sua iniziativa si potrebbe rubricare come eccezionale; ma proprio perché, invece, è stato un pastore ‘normale’, il suo atteggiamento è rivelativo di una mentalità cattolica assai diffusa. Che significa, infatti, trasmettere riservatamente al Ministero degli Interni delle lettere di protesta contro il carcere duro ricevute da familiari di mafiosi condannati che promettevano, in cambio, la cessazione delle stragi? Significa accettare, in perfetta buona fede (e dunque in una condizione ancor più preoccupante), il ruolo di mediatore fra Stato e Cosa nostra che i mafiosi hanno spesso attribuito alla Chiesa cattolica e - cosa ancor più disdicevole – che la Chiesa cattolica si è riconosciuto. Storici cattolici di notevole lucidità e onestà, come don Francesco Michele Stabile, l’hanno notato nei loro scritti da parecchi decenni: i casi di complicità fra preti e mafiosi, proprio come i casi di netta opposizione fra gerarchie cattoliche e cosche mafiose, sono rari. La norma statistica è un’equidistanza fra lo Stato liberale (vissuto, sin dal 1861, come nemico del potere temporale dei papi e spogliatore dei beni ecclesiastici) e la mafia (condannata quando spara e uccide, tollerata quando si erge a baluardo delle buone tradizioni familiari ed efficace strumento di difesa dalle minacce dei comunisti e dei socialisti). Senza questo acquartieramento dei cattolici in un’illusoria zona franca fra legalità statuale e legalità mafiosa, non si capisce nulla di vicende più o meno clamorose da Andreotti a Cuffaro.
Da vicende del genere, la Chiesa cattolica siciliana - e non solo – potrebbe, però, trarre delle indicazioni istruttive per il presente. Fondamentalmente una: che al di là delle furbizie strategiche, e al di là persino dei buonismi sentimentali, le posizioni ufficiali delle comunità ecclesiali e le pratiche quotidiane dei fedeli dovrebbero ispirarsi alla serietà del vangelo. Che, letto direttamente, è abbastanza diverso da un blob elastico, adattabile a tutte le stagioni e a tutti i regimi politici, anche i più corrotti purché generosi con le istituzioni clericali. Che, invece, è l’invito fermo, deciso, inequivoco del Maestro di Nazareth a non servire due padroni, Dio e il denaro; a non cercare il sostegno dei potenti di questo mondo per annunciare un mondo senza potenti; a non vivere la libertà senza solidarietà né la gioia senza sobrietà. E soprattutto l’invito insistente e appassionato a non praticare la giustizia senza la misericordia, ma neppure la misericordia senza la giustizia.
Augusto Cavadi
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