di Augusto Cavadi
da “Nuova Secondaria”, n. 4, 15 dicembre 1985
In un lucido intervento, la De Michelis Durand ha focalizzato <> degli obiettivi didattici che, a suo avviso, dovrebbero perseguirsi nell’ambito dell’insegnamento della filosofia in indirizzi di tipo scientifico-teconologico: la promozione di <> mediante <>, la sottolineatura della struttura logico-concettuale dei sistemi filosofici, la evidenziazione del << rigore logico-espressivo>> del linguaggio filosofico e l’esame delle problematiche epistemologiche principali. Alla focalizzazione di tale obiettivo, l’autrice ha fatto seguire delle indicazioni più dettagliate su alcuni nodi fondamentali della storia della filosofia antica e moderna concernenti la problematica in esame. La lettura dell’articolo è stata per me tanto stimolante da suggerirmi, a mò di prosecuzione di un discorso non certamente esauribile, la focalizzazione di un secondo obiettivo didattico che, per la verità, riterrei non solo coordinato ma complementare rispetto al primo. Se, infatti, è fuori discussione che, in un indirizzo scolastico orientato alla ricerca scientifica ed alla prassi tecnica, la filosofia debba in qualche modo illuminare il valore di tale ricerca e di tale prassi, mi sembrerebbe altrettanto certo ch’essa debba sollecitare il discente ad individuare, criticamente, i limiti. Pur restando un compito appassionatamente e per niente concluso, la fondazione dell’approccio scientifico-tecnico non è tutto ciò di cui la cultura contemporanea ha bisogno: in un clima di perdurante entusiasmo verso le scoperte teoriche ed ancor più verso le strabilianti realizzazioni tecniche della scienza, mi sembrerebbe urgente un’opera equilibrata, ma chiara, di relativizzazione critica delle potenzialità della scienza in ordine alle esigenze complessive dell’uomo come persona concreta e come comunità internazionale. Se volessimo condensare in poche righe questo obiettivo culturale e didattico potremmo prendere in prestito la formula, come spesso in Pascal sintetica ed efficace, con al quale egli spiega la conversione dall’impiego scientifico-tecnologico alla riflessione sull’uomo: << la scienza delle cose esteriori non mi consolerà dell’ignoranza morale, nel tempo dell’afflizione; ma la scienza dei costumi mi consolerà sempre dall’ignoranza delle cose esteriori>> (Pensieri, Brunschvicg 67). Dal momento, però, che la questione è di una certa gravità, preferirei articolare ulteriormente la mia proposta evidenziando almeno alcune istanze critiche della riflessione sull’attività scientifica e tecnica.
L’apertura alla dimensione esistenziale del soggetto che cerca.
La prima funzione della coscienza filosofica in chi è orientato a dedicare la propria vita allo studio delle “scienze” mi pare consista nell’invito a non dimenticare mai che il soggetto di tale studio è sempre e comunque appaia a prima vista, l’uomo. Se è vero, infatti – l’hanno sottolineato di recente epistemologi anticonformisti come Thomas S. Kuhn e Paul K. Feyerabend - , che concretamente i modelli scientifici e le scoperte più rilevanti zampillano dall’inventiva, dalla creatività, dai sentimenti, dalle simpatie ed antipatie dei singoli scienziati, tutto ciò non esclude che, sul piano programmatico ed intenzionale questi ultimi mirino ad elaborare teorie quanto più <> possibile, mettendo tra parentesi, metodologicamente, i fattori individuali, contingenti, particolari. Probabilmente questa anomia, questa de-soggettivizzazione, è vitale per lo sviluppo della scienza in senso galileano; ma è, certamente legale per il futuro dell’umanità. << Nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza >> (novata Husserl alcuni decenni fa) << non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, se sente in balia del destino: i problemi del senso e del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso. (…) Che cos’ha da dire questa scienza sulla ragione e sulla non-ragione, che cos’ha da dire su noi uomini in quanto soggetti in questa libertà? Ovviamente la mera scienza dei fatti non ha nulla da dirci a questo proposito: essa astrae appunto da qualsiasi soggetto>> (E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano 1961, pp. 35-36). Proprio per evitare che << la mera scienza dei fatti>> produca << meri uomini di fatto>>, è essenziale sollecitare i giovani che intendono lavorare nel mondo della scienza ( e della tecnica) ad interrogarsi su quegli aspetti meta-scintifici che li riguardano non solo (come suggeriva Husserl) in quanto uomini ma, aggiungerei, proprio in quanto scienziati: che spazio della propria vita dedicare alla professione scientifica o al mestiere tecnico? Come dosare questo spazio con le esigenze familiari, sociali, politiche, religiose? Perché perseverare nella ricerca scientifica anche in situazioni storiche in cui si riveli poco gratificante dal punto di vista economico e non orientarsi ad attività d’altro genere, meno <> ma più remunerative? Ecco solo alcune delle domande che rischiano di restare dapprima senza risposte meditate, e infine soppresse del tutto; domande da cui la matematica o la filologia fanno bene ad astrarre, ma da cui è disastroso che facciano astrazione i matematici ed i filologi. Il rischio avvertito da Pascal all’alba del mondo moderno, di essere politici o fisici e, più in radice, essere uomini, mi pare incomba in tutta la sua gravità.
La focalizzazione della dimensione umana dei contenuti oggettivi della ricerca.
Ma la filosofia non deve soltanto evidenziare la figura del soggetto della ricerca scientifico-tecnica: ad essa spetta anche la tematizzazione della dimensione antropologica di molti, se non di tutti, gli oggetti di tale ricerca. È stato uno dei filosofi meno metafisici, David Hume, a sostenere che << non c’è questione di qualche importanza la cui soluzione non sia compresa nella scienza dell’uomo, e non c’è nessuna che possa essere risolta con certezza se prima non ci rendiamo padroni di quella scienza>> (Trattato sulla natura umana, Introduzione) : anche a non voler abbracciare in toto questa tesi un po’ eccessiva, resta vero che vi sono ambiti del sapere scientifico-tecinico nei quali l’eclissi della struttura specifica dell’uomo comporta deformazioni gravissime. Solo per limitarmi a due esemplificazioni, mi riferirei all’architettura e alla medicina. Un architetto che non si rassegni ad operare come rotella anonima di un’impresa edile anonima si troverà davanti a questioni che nessuna delle discipline inerenti alla sua formazione professionale è in grado di affrontare. Ogni progetto di edificio scolastico, di ospedale, di fabbrica, di istituto carcerario, di chiesa, va disegnato << a misura d’uomo>>: ma qual è, in realtà, la concezione antropologica più completa e più adeguata? Non è certo indifferente alle dimensioni degli ambienti, alla disponibilità dei locali, al rapporto con gli edifici e con gli spazi circostanti, la visione dell’uomo che sottende la creatività e l’inventiva di un architetto. Ancora più facile sarebbe dimostrare l’ineludibilità di una chiara prospettiva antropologica, in senso meta-scientifico, per chi intraprenda la ricerca biologica. Alcuni mesi fa Giorgio Celli, etologo all’Università di Bologna, dichiarava nell’ambito di un’inchiesta sulla situazione della biologia: << Diciamo pure che ora si riesce a selezionare l’uomo. Ma secondo quale modello? C’è sempre una filosofia che sta “prima” e che descrive il modello a cui rifarsi. Com’è noto, anche i nazisti, nella loro perversa visione del mondo, volevano selezionare la “razza pura”: alta, bionda, occhi azzurri, eccetera. Ma perfino all’interno del loro aberrante disegno c’era un dissenso “filosofico”: il poeta Gottfried Benn – nazista- osservò che genio e malattia andavano di pari passo e che dunque bisognava sezionarli insieme. È possibile che “prima” non ci siano un fine, un modello, insomma una filosofia>> (cfr. L. Lilli, Scalata al biopotere, << La Repubblica>>, 8-6-85, p. 20).
La consapevolezza della destinazione politica dei risultati della ricerca teorica e delle applicazioni della tecnica.
L’uomo non è soltanto << alle spalle >> e, in qualche modo, << dentro >>, lo spettro d’indagine scientifico-tecnico ma, per così dire, << davanti >> : esso è infatti, anche quando lo si dimentichi, il destinatario dei frutti della ricerca scientifica e tecnica. L’architettura in quanto tale, o la medicina in quanto tale, non si pongono neppure la domanda << a che giovi >>, in fin dei conti, il progresso delle tecniche di costruzione o dell’ingegneria genetica: ciò è normale, ma è inaccettabile che neppure l’architettura o il medico, in quanto persone umane, si chiedano (al di là delle competenze strettamente professionali) per quale modello di civiltà stiano investendo le proprie energie intellettuali. Lo studio della filosofia nella scuola secondaria dovrebbe proprio evitare il perpetuarsi di questa incoscienza. Non solo, ma appunto perché ogni modello di civiltà implica un modello di uomo, il futuro operatore nel mondo della scienza e della tecnica dev’essere indotto a cogliere non soltanto (e ciò sarebbe già molto) la dimensione politica in generale della sua prassi (apparentemente neutrale), ma anche quella problematica antropologica che, da Platone a Marx, ha costituito << il fondamento teorico>> di ogni << coerente pratica politca>> (L. Althusser, Per Marx, Roma 1969, p. 199)
Augusto Cavadi
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