“Filosofia e teologia”
2010 / 2/ pp. 412 – 414
DAVIDE MICCIONE
A. Cavadi, “Chiedete e non vi sarà dato. Per una filosofia (pratica) dell’amore”, Editrice Petite plaisance, Pistoia 2009.
Si potrebbe scrivere un saggio assai rivelativo sui tempi in cui ci troviamo a vivere a partire dai rapporti che il testo intrattiene con il paratesto e segnatamente con il titolo. Si è passati da periodi in cui il titolo si proponeva di essere un’accurata descrizione del contenuto del libro, quasi una riproduzione in scala del volume, ai nostri giorni in cui il titolo evoca, ammicca, tradisce. Il divorzio tra titolo e testo confonde così il lettore e il recensore, ma a volte finisce con il portare alla scoperta di mondi in cui, con titoli troppo ligi, non si sarebbe mai arrivati. Un rischio e una possibilità simile pertengono al nuovo volume di Augusto Cavadi, autore la cui prolificità e apparente varietà nasconde una tensione unitaria, di ordine spirituale, etico e politico non facilmente ravvisabile altrove.
Qui, tra le pagine di Chiedete e non vi sarà dato. Per una filosofia (pratica) dell’amore per i tipi della petite plaisance di Pistoia, si cela forse più che altrove il cuore dell’ormai non breve itinerario di Cavadi. In questo libro si trovano infatti radunati attraverso una prospettiva a cui nessun uomo può rinunciare restando tale (come splendidamente ci ricorda il filosofo francese Marion nelle prime pagine del volume) temi assai cari all’autore: innanzitutto quello di una filosofia che sia alimento per l’esistenza, che ne diventi compagna, che pensi la vita e che “viva” il pensiero; in secondo luogo la fede, le convinzioni religiose che mai si trasformano in diaframma ma sempre in ponte per l’alterità; poi la dimensione etico-politica come progettualità per una vita condivisa e non come mera enumerazione di regole.
La risposta alla questione di come faccia un libro su una questione tanto specifica a comprendere in sé queste tre dimensioni è connessa alla particolare torsione che Cavadi ha dato a queste pagine. Contrariamente a quel che ci si potrebbe aspettare dal titolo nonché dall’attività dell’autore (uno dei principali consulenti filosofici italiani), il libro non parte da esperienze di vita o da una “concreta” analisi dell’amore così come lo viviamo.
Siamo insomma lontani, ad esempio, dall’analisi debitrice della lezione fenomenologica intrapresa da Ortega nei suoi Saggi sull’amore. La sensazione invece è che questo libro si inserisca pienamente non tanto nella corrente dei libri pratico-filosofici di Cavadi quanto in quella sorta di trilogia ideale costituita da una base: In verità ci disse altro, e da due fondamentali applicazioni, cioè Il Dio dei mafiosi e infine il volume a cui stiamo dedicando queste righe. In queste tre opere Cavadi, con tutta evidenza, trae alcuni interlocutori ma non casuali bilanci del suo rapporto non solo con la fede ma anche con le modalità con cui essa si rapporta al mondo odierno. Di questa trilogia “Chiedete e non vi sarà dato” sarebbe la parte palesemente esistenziale-sentimentale e Il Dio dei mafiosi quella etico-politica.
Si potrebbe far notare come l’autore non parta in questo caso né dalla teoria né dalla pratica bensì dalla semantica. Citando il titolo di un vecchio romanzo la domanda sarebbe: di cosa parliamo quando parliamo d’amore? Cavadi spiega come, notoriamente, nella parola amore si celino diverse stratificazioni culturali, linguistiche, religiose, direi persino etnologiche. La prima parte del libro si presenta dunque come una ricognizione afferente alla storia delle idee. In particolare come un commento, assai angolato e piegato ai fini del libro e del discorso del Nostro, dell’importante volume di Anders Nygren, “Eros e agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni”.
Qui il docente prende la mano al filosofo pratico portandolo ad un serrato corpo a corpo che frustrerà forse le aspettative di chi cerchi nel libro una connessione immediatamente pratica. Pure, il guadagno in termini di chiarificazione non è da poco: attraverso la lettura di Nygren, Cavadi ci chiarisce la distinzione tra l’approccio all’amore della cultura greca (eros, narrato da Platone) e quello cristiano (agape, illustrato da Paolo). Il primo sarebbe egocentrico, titanico, tendente all’alto, animato dalla sua stessa mancanza; il secondo misericordioso, umile, tendente al basso, traboccante nella sua pienezza. Difficile una mediazione tra i due. La costruzione spirituale medievale sarebbe basata su un ibrido non particolarmente riuscito di queste due categorie: la caritas. La philìa, nell’ottica di Cavadi, invece mi sembra rimescoli le carte, permettendo la messa in comune di valori: “abbiamo a cuore la stessa verità”. Essa costituirebbe non soltanto il collante di un rapporto di lunga durata ma anche qualcosa che, rispetto alle altre due dimensioni, può essere più facilmente e proficuamente coltivata e migliorata.
Eppure calati nella realtà dell’uomo singolo ed empirico difficilmente questi due ideali (eros e agape) si trovano rispettati nella loro archetipa purezza. Cavadi mette in moto un’operazione concettuale mirante ad allargare le strette maglie di questi concetti. L’amore agapico, che ha il suo culmine nel sacrificio cristico, non sarebbe circoscrivibile solo a quest’ambito ma verrebbe messo in pratica anche in aspetti dell’Islam e dell’ebraismo (magari meno centralmente tematizzato) e delle religioni orientali (con un significativo, ecologico ante-litteram, allargamento in direzione “extra-umana”). Il secondo passaggio è teso invece a mettere in dubbio che tra questi due amori si debba scegliere e che dunque la loro pura contrapposizione (e dunque la scelta per uno dei due) dia frutti certi o sani: «anche nel caso che – per motivi teologici o per motivi esclusivamente etici – abbia improntato il “cuore” della mia esistenza ad un progetto di benevolenza illimitata, posso per questo cancellare – o far finta di non avvertire – altre istanze non meno profondamente radicate nella mia struttura psicofisica?» (p. 52). Con il passo tranquillo di colui che cerca l’equilibrio tra le posizioni in realtà Cavadi sostiene posizioni forti, fino a ricordarci come il mondo possa anche essere fatto di ibridi di agape erotizzata (la prostituta che accetta di “lavorare” con un disabile grave) e eros agapizzato (la gioia per il godimento dell’altro per favorire il proprio godimento, e dunque l’evidenza che l’egoismo riduce il piacere di eros). In tutto questo l’analisi della Deus est caritas di Benedetto XVI mi sembra riporti nell’autore la movenza dello studioso di pratica filosofica, incline a diffidare di ogni realtà che sembri essenzialmente “applicata” da un fuori aprioristico rispetto alla situazione. Nello specifico l’idea ratzingeriana che l’eros necessiti di “disciplina e purificazione” fa sorgere il dubbio nell’autore che esso in sé non possa essere positivo (punto di vista che Cavadi tende a vedere come eredità agostiniana) e che questo costituisca il punto di partenza per spostare l’accento sull’attività di disciplina, controllo, regolamentazione. Ragionevole pensare che questo apparato, per quanto costruito con le migliori intenzioni abbia più probabilità di fare fuori eros che di migliorarlo. Su questa strada la filosofia (perlopiù esercizio a margine delle pagine di Platone, come diceva qualcuno) è difficile possa troppo inoltrarsi, e anche la lettura di questo volume lo dimostra.
Davide Miccione
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