ESTRATTO PER USO SCOLASTICO
DAL VOLUME:
AUGUSTO CAVADI
Le ideologie del Novecento
Cosa sono state, come possono rifondarsi
Rubbettino editore
2001
Quasi una presentazione
Ci sono parole che nascono con lo strano destino di provocare equivoci: «ideologia» è una di queste. Nel corso dei tempi essa ha denotato qualcosa di prezioso o per lo meno di neutrale (cosa c’è di più dignitoso di un complesso organico di idee per orientarsi nel mondo?), ma anche – ed è il caso oggi più frequente – di spregevole, se non addirittura di ridicolo (nella misura in cui le idee appaiono non come trepide lucerne notturne, ma come trappole per ingabbiare e strumentalizzare).
Comunque le si intenda, le ideologie sono in crisi? E – nella misura in cui lo sono – si tratta di una crisi di cui rallegrarsi? Che cosa ci aspetta nell’epoca post-ideologica? Sono domande che nel mondo della scuola, del volontariato, del sociale ritornano con frequenza, ma non sempre con chiarezza d’impostazione. È difficile ritagliarsi una prospettiva autonoma, distinta dai nostalgici per i quali si tratta solo di ritornare ai sacri testi come dagli allegri avventurieri della new economy finalmente liberi da interrogativi troppo impegnativi. In questa difficoltà i protagonisti della politica rappresentata (senza sostanziali differenze tra «destra» e «sinistra», quasi a rispettare involontariamente un’implicita par condicio) moltiplicano le trovate per non annoiare troppo il pubblico, senza riuscire (né con i pullman né con le navi da crociera e i bimotori) a mettere in discussione il presupposto vizioso: che vi debba essere una distanza strutturale e permanente fra attori e spettatori. Al ceto politico, almeno a breve termine, conviene lasciare inalterato e indiscusso tale presupposto; meno evidente è la ragione per cui anche gli operatori culturali (o come vogliamo chiamare gli «intellettuali») sembrano condividerlo e diffonderlo.
Sarebbe disastroso se il XXI secolo si limitasse a riprodurre, con qualche modifica di dettaglio, le dottrine politiche fondamentali che si sono confrontate nel corso del Novecento. Nulla di nuovo potrà configurarsi – però – sulla base della rimozione, della smemoratezza. Se tutti i cittadini – ognuno secondo le proprie esperienze, intuizioni e competenze – sono chiamati a contribuire a progettare la vita sociale, lo potranno fare solo a patto di conoscere le proposte politiche precedenti: dal liberalismo al comunismo, dalla socialdemocrazia al fascismo, dalla dottrina sociale cattolica al conservatorismo, dall’ambientalismo all’anarchismo. Oltre le ideologie, dunque: ma attraverso esse perché, come pensavano Greci e Medievali, la nostra intelligente gratitudine deve raggiungere anche quanti – con i loro errori – ci hanno indirettamente indicato la direzione della ricerca.
Consentire, in maniera chiara ma obiettiva, una visione comparata delle sei ideologie è lo scopo di questo volumetto, propedeutico ad ulteriori letture di approfondimento: di ciascuna di esse saranno delineati il nucleo generatore, la concezione dell’uomo, la concezione della società, la concezione dello Stato, la teoria economica, la concezione dell’educazione e l’interpretazione della dimensione religiosa.
Un capitolo conclusivo accenna ad alcune problematiche che mi sono sembrate particolarmente urgenti e significative: che significa, in concreto, essere responsabili? Quale modello antropologico può considerarsi realistico alla luce delle tragedie del secolo appena concluso? Quali sono i centri di potere dal cui gioco dialettico si costituisce la mobile complessità della società? Come coniugare lo slancio anticipatore dell’utopia con le richieste del realismo? Che significa democratizzare il sapere? Attraverso quali strategie si può controllare l’operato dei rappresentanti?
Dalle risposte a queste domande non consegue un condensato di ricette, ma solo una piattaforma per avviare la riflessione personale e il dibattito in gruppi di lavoro (anche con l’aiuto delle indicazioni bibliografiche suggerite nelle note e nella sezione conclusiva). E proprio grazie a dibattiti organizzati in varie occasioni e in differenti contesti ho potuto «calibrare» queste pagine: a partire dal seminario tenuto nell’autunno del 1998 presso la Scuola di formazione etico-politica «G. Falcone» di Palermo. Rettifiche e integrazioni sono state possibili grazie alle osservazioni pervenutemi in seguito alla pubblicazione di un primo abbozzo in «Nuova Secondaria» (La Scuola, Brescia 1999, n. 10, pp. 49-62).
Capitolo primo
CRISI DELLE IDEOLOGIE?
Una «definizione» di ideologia
Viene spesso ripetuto, come si trattasse di un’evidenza indiscutibile, che le ideologie sono morte. Questo «luogo» ormai «comune» si accompagna, quasi sempre, alla convinzione che si tratti di una morte provvidenziale che avrebbe liberato l’umanità da pericolosi fattori di conflitto. Dobbiamo accettare dogmaticamente la duplice convinzione del «senso comune» che le ideologie sono tramontate e che questo tramonto rappresenta un elemento di progresso?
Per impostare con un minimo di attendibilità la riflessione, è necessario precisare – preliminarmente – cosa si intenda per «ideologia». Infatti, anche in questo caso, col medesimo termine si denotano fenomeni abbastanza differenti: prima di discutere, dovremmo metterci d’accordo su che cosa stiamo discutendo.
Diciamo, in prima approssimazione, che i vari significati della parola «ideologia» si dipartono da un significato originario principale: l’ideologia come apparato di idee-guida (riguardanti l’uomo, la società, lo Stato, l’economia, l’istruzione, la sanità…) che un determinato gruppo sociale elabora e tenta di attuare mediante l’azione politica . Da questa definizione, per quanto generica, traspaiono le «due caratteristiche fondamentali» che, «a differenza di altri insiemi di idee politiche», contraddistinguono le ideologie: «sono esplicitamente orientate all’azione e sono orientate al gruppo» .
Una prima questione: sono, di fatto, le ideologie in crisi?
Confrontandoci con questo significato di «ideologia», scatta una prima questione: sono, di fatto, le ideologie in crisi?
La risposta non appare semplice. Bisognerebbe rispondere sì e no.
Sì perché non si può negare un diffuso rifiuto della ricerca intellettuale, del confronto fra proposte culturali differenti soprattutto in ambito politico: i partiti preferiscono appellarsi alle emozioni, ai sentimenti, agli interessi economici degli elettori piuttosto che al loro senso critico. Ciò facendo essi si adeguano ad un calo di domanda culturale da parte della società ed, adeguandovisi, l’aggravano: assecondano la volontà dell’elettore di scegliere non in base a lunghe e noiose spiegazioni razionali ma a più sbrigativi slogan, possibilmente proposti in maniera brillante da leaders capaci di «bucare il video» .
Se riguardata a fondo, però, la questione esige anche una risposta negativa per almeno due motivi.
Prima di tutto va notato che l’ideologia non è stata cancellata completamente dalla scena pubblica perché, come Marx ha insegnato una volta per tutte anche ai non marxisti, l’ideologia è una maschera utile : essa serve a dare un volto accettabile a quelle proposte politiche che, presentate nude e crude, potrebbero suscitare delle reazioni di rigetto. Ammettiamo di vivere in una società schiavista e che un gruppo di industriali, una volta venduti gli elettrodomestici a tutti i consumatori che godono dei diritti civili, si convinca della necessità di ampliare il mercato. Pensiamo che sia utile, per loro, dichiarare apertamente «Restituiamo anche a milioni di “negri” un minimo di libertà civili in modo che diventino anche essi potenziali acquirenti dei nostri elettrodomestici» o non piuttosto «Restituiamo anche a milioni di “neri” un minimo di libertà civili perché anche essi sono figli di Dio e fratelli nostri»? La seconda versione sarebbe più suggestiva, più commovente, più condivisa: per questo nessun partito rinunzierà totalmente al rivestimento ideologico delle sue proposte operative.
Ma c’è anche una seconda ragione per cui non mi pare che si possa asserire, senza aggiungere altro, che l’ideologia è morta: essa, infatti, cacciata fuori dai circuiti dello scambio pubblico consapevole, rientra però nascostamente nell’inconscio di ciascuno di noi. Quando ci capita di colloquiare con qualche giovane, rampante operatore di Borsa, è possibile sentirsi dire che ormai egli non crede più alle ideologie ma alla pratica quotidiana. Basta, però, approfondire per pochi minuti il colloquio – se la concreta situazione del momento lo consente – per ascoltare una serie di affermazioni («la vita è rischio», «ciò che muove gli uomini ad entrare in rapporti reciproci è l’interesse», «lo Stato dovrebbe non interferire sulle vicende del mercato finanziario»…) che costituiscono, appunto, una determinata visione ideologica. Sarà un’ideologia inconsapevole piuttosto che consapevole; un po’ frammentaria piuttosto che organica; acritica piuttosto che adottata dopo paziente ponderazione: ma, comunque, un’ideologia .
Una seconda questione: la crisi (parziale) delle ideologie è un evento positivo?
Se doppia è stata la risposta alla prima questione, altrettanto lo è la risposta alla seconda questione: nella misura in cui è vero che le ideologia sono in crisi, dobbiamo rallegrarcene?
Per alcuni versi, non si può negare che una certa de-ideologizzazione del confronto politico presenti aspetti positivi e condivisibili. Di per sé le idee dovrebbero essere un «ponte» fra l’io e la realtà, ma spesso si riducono ad un filtro che separa più di quanto colleghi. L’ideologia, almeno così come si è andata strutturando nella modernità, ha garantito sì orientamenti esistenziali e collettivi: ma, proprio perché pretendeva di offrire certezze dalla culla alla tomba, finiva col creare personalità e istituzioni chiuse, rigide, indisponibili al confronto. I personaggi di Guareschi – il prete don Camillo e il comunista Peppone – non sono stati solo fortunate finzioni letterarie: almeno sino agli anni ’68-’77 del nostro secolo è stato possibile constatare come in nome di ideologie prefabbricate si sono negati i fatti più evidenti. Per questo Norberto Bobbio ha, opportunamente, intitolato «la lezione dei fatti» il capitolo del suo Profilo ideologico del Novecento dedicato a due difensori dell’empirismo in polemica con le impostazioni astrattamente dottrinarie (Luigi Einaudi e Gaetano Salvemini) . Ed è lo stesso Bobbio a legare la chiusura ideologica nei confronti dei dati empirici all’intolleranza nei confronti degli altri esseri umani: a suo parere, in questi anni, avremmo dovuto meditare a fondo la convinzione, dello stesso Salvemini, secondo cui «chi è convinto di possedere il segreto infallibile per rendere felici gli uomini, è sempre pronto ad ammazzarli» .
Ammesso, dunque, onestamente, che l’eclisse (abbiamo visto: parziale ) delle ideologie è anche la fine di un atteggiamento incapace di accogliere la sfida congiunta dei fatti «oggettivi» e dei volti degli «altri», possiamo limitarci a rallegrarci di questa «eclissi» sperando che diventi tramonto irreversibile?
Probabilmente no: l’unica alternativa possibile all’ideologia è la clava. Possiamo e dobbiamo «elasticizzare» le nostre idee-guida in campo etico-politico (e, se può essere utile alla comunicazione, possiamo sostituire la dizione «teorie politiche» al termine ormai troppo segnato «ideologie» ); possiamo e dobbiamo essere sempre pronti a rivederle, a correggerle, ad integrarle, se necessario a rinnegarle del tutto per adottarne di nuove ed opposte: ma se rinunziamo al confronto – e allo scontro – ideologico, non ci resta che accettare il deserto di un’omologazione mondiale forzata e repressiva (in cui uno, o pochi, pensano per tutti) che lasci spazio soltanto alle piccole furbizie individuali dettate dall’opportunismo quotidiano .
Riformulando Marx, con Vitezslav Gardavsky potremmo asserire: «Gli uomini hanno trasformato il mondo (e devono continuare a trasformarlo); oggi però è necessario interpretarlo in modi diversi» .
Capitolo secondo
IL LIBERALISMO
Il nucleo generatore
Ogni ideologia – o teoria politica – ha un «cuore», un nucleo generatore da cui scaturiscono le diverse, cangianti articolazioni che essa presenta lungo i secoli nei diversi contesti storico-sociali.
Anche il liberalismo è caratterizzato da un’idea chiave: «Per “liberale” non intendo una persona che simpatizza per un qualche partito politico, ma semplicemente un uomo che dà importanza alla libertà individuale ed è consapevole dei pericoli inerenti a tutte le forme di potere e di autorità» .
Alla luce di questa intuizione originaria si comprendono meglio alcune coordinate che identificano il «liberale» nello scenario ideologico contemporaneo.
Concezione dell’uomo
La concezione antropologica liberale si basa sulla convinzione che solo l’individuo è reale: «il liberale rifiuta l’idea liberticida, stando alla quale sopra all’individuo ci sarebbe qualche altra entità – come, per esempio, lo Stato, il partito, la classe, ecc. – autonoma e indipendente dagli individui: esistono solo individui» .
L’individualismo ontologico è spesso accompagnato da atteggiamenti razionalistici: ma si tratta di una ragione empirica, legata al mondo dell’esperienza, diffidente nei confronti delle costruzioni metafisiche. Un razionalismo illuministico che oggi si connota facilmente di fallibilismo in campo cognitivo e relativismo in campo etico: in parole più semplici, il soggetto umano viene concepito come incapace di attingere «verità» assolute (fallibilismo gnoseologico) e «valori» assoluti (relativismo etico) .
Concezione della società
Come in ogni ideologia che abbia un minimo di attendibilità, la concezione della società è conseguente alla concezione dell’uomo. La prima verità è, dunque, che la società – a differenza dell’individuo – non è reale, non è una «cosa»: «Parlare di società è estremamente fuorviante. Naturalmente si può usare un concetto come la società o l’ordine sociale; ma non dobbiamo dimenticare che si tratta solo di concetti ausiliari. Ciò che esiste veramente sono gli uomini, quelli buoni e quelli cattivi [...], comunque, gli esseri umani, in parte dogmatici, critici, pigri, diligenti o altro» . Se la società, propriamente parlando, non esiste – è una nozione concettuale –, tanto meno esiste la società perfetta: essa è il sogno degli utopisti, ma già Paul Claudel ha avvertito che «chi cerca di realizzare il paradiso in terra, sta in effetti preparando agli altri un molto rispettabile inferno» .
La società imperfetta che il liberale vede ed auspica è una società fondata sulla competizione («Competizione da cum-petere che vuol dire cercare insieme in modo agonistico la soluzione migliore» ) e, conseguentemente, sul merito: «Il liberale dà onore al merito – perché il merito individuale equivale in linea generale ad un servizio per gli altri, come è il caso di un bravo chirurgo o del bravo ingegnere. Il liberale oppone il merito al privilegio: il privilegio è la regola della corte, sintomo di servitorame» .
Se il liberalismo riduce la società ad arcipelago di individui (in competizione), non si potrebbe identificare con l’anarchia? La risposta è negativa perché esso ammette comunque una forma di Stato: «Il liberale non è un anarchico, non è un libertario» perché non esclude che «ci siano funzioni e compiti da affidare al governo» .
Concezione dello Stato
Lo Stato – come complesso di istituzioni atte a svolgere le funzioni di legiferare, di amministrare e di far rispettare le leggi – è, nella prospettiva liberale, una sorta di «male necessario» : poiché non se ne può fare a meno, esso deve essere nettamente connotato in senso democratico.
Ma quando uno Stato è democratico?
«Si vive in democrazia quando esistono istituzioni che permettono di rovesciare il governo senza ricorrere alla violenza, cioè senza giungere alla soppressione fisica dei suoi componenti. È questa la caratteristica di una democrazia» . E la democrazia è l’antitesi della tirannide: «Una politica anche cattiva in una democrazia (finché possiamo lavorare per un cambiamento pacifico) è preferibile alla soggezione e a una tirannide, per quanto saggia e illuminata» .
Concezione dell’economia
Ciò che i liberali pensano in campo economico – solitamente si dice il «liberismo» – è anch’esso collegabile coerentemente con le idee fondamentali sull’uomo, sulla società e sullo Stato. Per spiegare in che senso «la competizione è un tratto essenziale della civiltà occidentale», Antiseri afferma: «La scienza progredisce tramite la competizione tra più idee; la democrazia è competizione tra proposte politiche; la libera economia è competizione tra merci. La competizione è il grande principio che anima scienza, democrazia ed economia di mercato» .
L’economia di mercato è dunque il pendant della libertà di ricerca intellettuale e della democrazia politica: ma, di più, ne è come la condizione di possibilità materiale. Senza libertà di mercato (fondata, evidentemente, sul diritto alla proprietà privata dei mezzi di produzione), infatti, viene meno la possibilità del confronto fra le idee (in generale) e fra le idee politiche (in particolare): se lo Stato possiede tutti i mezzi, può stabilire arbitrariamente anche i «fini» (cfr. F. A. von Hayek ); «la libertà di stampa è un puro inganno se l’autorità statale controlla tutti gli uffici-stampa, tutte le tipografie e tutte le cartiere» .
Il liberale sa, come abbiamo notato sopra, che «una società che abbia abbracciato l’economia di mercato non è e non sarà mai il paradiso»; tuttavia, ritiene «decisamente preferibile dividere in parti diseguali la ricchezza in un mondo di libertà e di pace piuttosto che dividere in parti sempre e comunque diseguali la miseria in un mondo di oppressione in cui necessariamente vige il principio per cui “chi non ubbidisce non mangia”» .
Concezione dell’educazione
Da J. Stuart Mill sino a B. Russell, innumerevoli pensatori hanno riflettuto sulle strategie più opportune per incarnare – nella prassi educativa – i princìpi di fondo del liberalismo. Molto schematicamente si potrebbero enucleare alcuni punti qualificanti:
a) fine dell’educazione è il senso critico dell’individuo, la sua emancipazione da vincoli di partito o di confessione religiosa: «Il male […] proviene dal considerare gli alunni come mezzo ad un fine e non come fini in se stessi, laddove l’insegnante dovrebbe amare i suoi fanciulli più che il proprio Stato e la propria chiesa» ;
b) il metodo principale dev’essere basato sui dati dell’esperienza: «Non si pretende di preparar la gente a far delle scoperte, ma di avvezzarla a osservare i fatti, in luogo di giudicarne senza esame, campando di fantasia, e a trarre di tutto quello che cade sotto i sensi occasione di esperienza e materia di ammaestramento, formando così quel prezioso strumento testa, senza la quale l’uomo rimane per tutta la vita e in tutte le cose sue una barca senza timone» ;
c) un’istruzione elementare deve essere assicurata a tutti gli strati sociali come base minima per consentire, successivamente, la libera competizione fra gli individui anche grazie agli approfondimenti culturali opzionali di ciascuno;
d) la scuola può essere statale o privata (la concorrenza è anche in questo campo un fattore propulsivo);
e) la scuola statale dev’essere rigorosamente laica: «Lo Stato moderno, riconoscendo siccome diritto dell’individuo insieme con la libertà di pensiero e della coscienza, la libertà religiosa, non può senza contraddire a se stesso, propugnare nelle scuole l’insegnamento di un catechismo particolare, o di più catechismi» ;
f) il sistema scolastico deve essere strettamente collegato col mondo del lavoro (della produzione e del terziario): solo se la scuola conosce gli andamenti del mercato e si aggiorna tecnologicamente può formare dei cittadini che abbiano competenze professionali specifiche e, soprattutto, una preparazione di base che consenta loro rapidi adattamenti ai processi di cambiamento.
Concezione della religione
Il liberalismo difende, sin dalle sue origini, il diritto alla libertà religiosa: intesa come libertà di aderire a qualsiasi credo ma anche di non averne alcuno. L’articolo 10 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto 1789) afferma che «nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla Legge». All’individuo, insomma, non può essere né proibita né imposta alcuna forma di vita religiosa. Lo Stato, in sé, non è né confessionale né ateo; anche in questo campo, l’unico limite che esso può e deve imporre ad un cittadino riguarda l’uguale libertà degli altri (nel senso che i modi concreti con cui ciascuno esprime la fede o l’incredulità non possono ferire o minacciare gli interessi legittimi degli altri).
In questa ottica le chiese sono associazioni private di cittadini che non vanno né privilegiate né boicottate rispetto a tutte le altre associazioni simili (culturali, sportive, ricreative…): la logica liberale, dunque, contraddice ogni ipotesi di «concordato» sulla cui base una chiesa possa ottenere dei benefici particolari rispetto a tutte le altre. La «separazione» di competenze fra chiese e Stati è la migliore difesa dal dispotismo: come avvertiva, già all’alba del nuovo Stato unitario italiano nei suoi Discorsi parlamentari Cavour (cui si deve la celebre formula «Libera Chiesa in libero Stato»), «la storia di tutti i secoli, come di tutte le contrade, ci dimostra che, ovunque questa riunione» – la riunione «in una sola mano» del potere civile e di quello religioso – «ebbe luogo, la civiltà quasi sempre immediatamente cessò di progredire, anzi sempre indietreggiò; il più schifoso dispotismo si stabilì […] sia che una casta sacerdotale usurpasse il potere temporale, sia che un califfo o un sultano riunisse nelle sue mani il potere spirituale» .
Capitolo terzo
IL COMUNISMO
Il nucleo generatore
Come l’abbiamo individuata nel liberalismo, esiste anche nel marxismo un’intuizione originaria che fonda le ulteriori articolazioni del discorso? Una possibile indicazione la troviamo in un passo in cui Antonio Gramsci risponde alla domanda «Siamo noi marxisti?»: «Marx non ha scritto una dottrinetta, non è un Messia che abbia lasciato una filza di parabole gravide di imperativi categorici, di norme indiscutibili, assolute, fuori delle categorie di tempo e di spazio. Unico imperativo categorico, unica norma: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”. Il dovere della organizzazione, la propaganda del dovere di organizzarsi e associarsi, dovrebbe dunque essere la discriminante tra marxisti e non marxisti. Troppo poco e troppo: chi non sarebbe marxista? Eppure così è: tutti sono marxisti, un po’, inconsapevolmente» .
Concezione dell’uomo
Se ci chiediamo quale sia la concezione marxista dell’uomo, dobbiamo subito precisare che il marxismo non ritiene che si possa dare una risposta come se ci si interrogasse su un «oggetto» statico, fuori del tempo e dallo spazio. L’uomo, la «natura umana», l’«umano», non è «un punto di partenza», ma «un punto di arrivo» : non è un dato, ma un «processo» . Perciò «la risposta più soddisfacente» al «problema di cos’è l’uomo» è che la «natura umana» sia il «complesso dei rapporti sociali». Con questa risposta, infatti, si affermano due aspetti inseparabili: la socialità e la storicità. La socialità perché nessun uomo è tale da solo: «in ogni singolo individuo si trovano caratteri messi in rilievo dalla contraddizione con quelli di altri» (uno è «aristocratico» in quanto si rapporta ad un altro che è «servo della gleba»); la storicità perché questi rapporti con gli altri mutano continuamente e, di conseguenza, ogni uomo «diviene, si muta continuamente col mutarsi dei rapporti sociali». In altri termini: l’uomo reale non è concepibile se non in quanto fa parte del genere umano e della sua storia .
Concezione della società
È già implicita nella concezione marxista dell’uomo: o, per essere più esatti, è il contesto in cui è inclusa – e pensabile – l’antropologia marxista. Vediamo di cogliere ancora meglio questo nesso fra uomo e società. Quando ci chiediamo «cosa è l’uomo?», in realtà «vogliamo sapere [...] cosa siamo e cosa possiamo diventare, se realmente ed entro quali limiti, siamo “fabbri di noi stessi”, della nostra vita, del nostro destino. E ciò vogliamo saperlo “oggi”, nelle condizioni date oggi, della vita “odierna” e non di una qualsiasi vita e di un qualsiasi uomo» . Gramsci si obietta: «Si dirà che ciò che ogni singolo può cambiare è ben poco, in rapporto alle sue forze» ; e, rispondendosi, innesta il tema della società: «Ciò che è vero fino a un certo punto. Poiché il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso cambiamento e, se questo cambiamento è razionale, il singolo può moltiplicarsi per un numero imponente di volte e ottenere un cambiamento ben più radicale di quello che a prima vista può sembrare possibile. Società alle quali un singolo può partecipare: sono molto numerose, più di quanto può sembrare. È attraverso queste “società” che il singolo fa parte del genere umano» .
Attualmente, nello stadio borghese-capitalistico, la «società» fondamentale è la «classe sociale»: o quella, appunto, dei capitalisti o quella dei proletari. In prospettiva, però, la storia tende ad una società monoclasse (o, dal momento che una classe è tale in antagonismo con un’altra, senza classi) in cui i lavoratori saranno anche i gestori dell’economia.
Concezione dello Stato
Il passaggio dalla società di due classi (scisse e antagoniste) alla società di una classe (o senza classi) non è indolore: tra la società capitalista e la società comunista è necessaria una fase di transizione che Marx definisce «socialista». Poiché, storicamente, il termine «socialismo» è servito – come vedremo presto – per indicare una teoria politica vicina ma diversa da quella marxista, dobbiamo chiarire bene i tratti della società «socialista» secondo il marxismo. Per far questo è opportuno spostare lo sguardo dalla società a quell’apparato istituzionale (parlamento, governo, magistratura, burocrazia) che chiamiamo Stato.
La società a due classi, in cui è egemone la classe capitalista, può presentarsi come apparentemente «democratica»: in realtà lo Stato è lo strumento dittatoriale che consente alla minoranza dei capitalisti di perpetuare il loro dominio sui proletari (che costituiscono la maggioranza numerica). A questa dittatura di pochi su molti («la classe che detiene lo strumento di produzione» persegue i suoi fini «attraverso la sua organizzazione, freddamente, obiettivamente, senza preoccuparsi se la sua strada è lastricata di corpi estenuati dalla fame, o dei cadaveri dei campi di battaglia» ) occorre sostituire, mediante una rivoluzione armata, la dittatura dei molti su pochi: alla dittatura della borghesia, la dittatura del proletariato (in concreto: del partito comunista che agisce in nome e per conto del proletariato). Ma questa dittatura «non è un metodo da perpetuare»: deve permettere di «creare e solidificare gli organismi permanenti» (di autogestione democratica da parte dei lavoratori) «in cui la dittatura si dissolverà, dopo aver compiuto la sua missione» . Insomma: alla fine, lo Stato è destinato a scomparire per lasciare spazio all’autogoverno della società (monoclasse) .
Concezione dell’economia
Il mutamento della società, e conseguentemente dello Stato, dalla fase capitalista a quella socialista e da quella socialista a quella comunista, si basa sul mutamento del diritto alla proprietà dei mezzi di produzione (fabbriche, materie prime etc.): che nella società capitalista è un diritto assoluto dei singoli individui, nella società socialista è un diritto assoluto dello Stato retto dal Partito che rappresenta i lavoratori, nella società comunista – infine – è, senza mediazioni, un diritto assoluto della società dei lavoratori. Ma, essendo un diritto collettivo e generalizzato, in qualche modo è come dissolto.
Se il diritto alla proprietà privata si dissolve insieme all’apparato statale, ci attende l’anarchia? O, in altri termini: cosa distingue la società comunista dalla società anarchica? Il principio dell’autogestione da parte dei lavoratori-cittadini è identico: ma «il Consiglio operaio di fabbrica è la prima cellula di un processo storico che deve culminare nell’Internazionale comunista, non più come organizzazione politica del proletariato rivoluzionario, ma come riorganizzazione dell’economia mondiale e come riorganizzazione di tutta la convivenza umana, nazionale e mondiale» .
Concezione dell’educazione
Uno studioso attento e obiettivo ha ricapitolato in quattro punti l’orientamento della pedagogia secondo Marx e Lenin :
«a. L’individuazione della funzione di controllo sociale che l’educazione ha svolto nella tradizione» (ovvero lo smascheramento del sistema scolastico che, come ogni apparato statale, è servito alle classi dominanti per confermare e riprodurre il proprio modello – anche culturale – di potere);
«b. L’individuazione della connessione del problema pedagogico con il problema economico» (ovvero lo smascheramento della radice profonda e reale di tante politiche scolastiche, a cominciare dalle resistenze nei confronti dell’istruzione elementare obbligatoria e gratuita: l’interesse economico allo sfruttamento delle classi subalterne);
«c. La soluzione “umanistica” del rapporto economia - pedagogia, facente leva sull’istruzione politecnica, sull’idea dell’uomo onnivalente, capace di conciliare lavoro e cultura» (per dirla con Lunaciarski, «il ragazzo deve studiare tutte le materie, passeggiando, raccogliendo collezioni, disegnando, fotografando, modellando, plasmando, facendo del cartonaggio, osservando le piante e gli animali, coltivandole e allevandoli. […] D’altra parte, l’ideale da perseguire sarebbe che la scuola trasmettesse all’allievo i principali metodi di lavoro nei mestieri seguenti: falegname e carpentiere, modanatore a tornio del legno, forgiatore, fucinatore, fonditore, tornitore, saldatore, specialista in temperatura e leghe metalliche, trapanatore, lavoratore in pelle, tipografo ecc.» );
«d. La difesa dei diritti all’educazione dei più deboli, degli svantaggiati, e del diritto allo sviluppo totale delle capacità umane, proiettate verso il “regno della libertà”» (dunque con uno spazio rilevante per l’istruzione ideologica in generale – Gramsci dirà: per «la nuova concezione del mondo, ossia il socialismo marxista» – e per un collegamento diretto e continuo, in particolare, con le problematiche e le direttive del partito comunista).
Concezione della religione
Il comunismo marxista nasce strutturalmente ateo. Per Marx la religione è, essenzialmente, alienazione: proiezione in un mondo immaginario e illusorio delle energie umane che andrebbero investite nella trasformazione dei rapporti sociali effettivi in questo mondo. Tuttavia sarebbe sciocco combattere direttamente le manifestazioni religiose: esse sono il sintomo di un’alienazione più radicale che è l’alienazione economica (lo sfruttamento dei proletari ad opera dei capitalisti). Sino a quando c’è ingiustizia in terra, ci sarà il «sospiro della creatura oppressa» (Critica alla filosofia del diritto hegeliana): tolta l’ingiustizia sociale, alla fede religiosa verrà sottratta la matrice e la base.
Coerentemente con queste posizioni, l’ideologia comunista considera le chiese come istituzioni in via di progressiva estinzione che possono essere tollerate se non si schierano dalla parte dei ricchi e dei potenti e se non costituiscono – intenzionalmente o almeno oggettivamente – un polo di resistenza contro-rivoluzionaria.
Va aggiunto che non tutti i comunisti sono convinti dell’inscindibilità del nesso fra rivoluzione e ateismo: in riferimento a molti esempi di comunismo religioso (da Platone a Tommaso Moro, comprese alcune pagine del Nuovo Testamento), è stato sostenuto da alcuni che incompatibile con il comunismo non è la fede religiosa in quanto tale, bensì il cristianesimo borghese (cattolico e protestante) così come concretamente si è configurato nella storia, in particolare all’epoca di Marx e degli esperimenti rivoluzionari del Novecento (Unione Sovietica, Guerra civile spagnola etc.).
Capitolo quarto
LA SOCIALDEMOCRAZIA
Il nucleo generatore
Abbiamo delineato, sia pur rapidamente, le dottrine – contrapposte – del liberalismo e del comunismo marxista. Da quando queste due vie si sono profilate storicamente, hanno continuamente generato diversi tentativi di elaborarne una «terza»: ed è ovvio che, ciascuno di questi tentativi, ritiene possibile inverare gli aspetti migliori di entrambe lasciandone cadere i deteriori.
Il meno ideologicamente connotato di questi tentativi, perché dettato da considerazioni di carattere strategico e tattico, risulta quello «socialdemocratico». Ancora una volta, come nel caso del liberalismo e del marxismo, l’etichetta copre una miriade di correnti ideali e politiche molto variegate («riformisti», «revisionisti», «liberal-socialisti» etc.): tenteremo di estrarre lo stesso alcuni lineamenti essenziali comuni.
L’intuizione generativa originaria di questa prospettiva mi pare felicemente sintetizzata dal titolo di un libro di due francesi: La socialdemocratie ou le compromis . Ma questo «compromesso», lungi dal presentarsi come opportunismo, si ritiene «la via maestra» della «democrazia» che, a un certo punto della storia, incontra un «bivio»: «A destra c’è la deviazione del liberalismo [...]: la via della libertà senza giustizia. A sinistra c’è la deviazione del collettivismo autoritario: la via della giustizia senza libertà». Nel mezzo, e al di sopra, «la via vera, la terza via, la via dell’unione, della coincidenza, della compresenza, indissolubile della giustizia e della libertà» .
Concezione dell’uomo
Ho detto che la socialdemocrazia costituisce un tentativo poco ideologicamente connotato di cercare una sintesi, o una «terza via», fra liberalismo e marxismo: come ha scritto N. Mackenzie, i partiti socialisti e laburisti «hanno in comune» un «metodo» piuttosto che «una filosofia» .
Da qui la difficoltà di esplicitare, con la stessa nitidezza con cui è stato possibile a proposito delle altre due teorie politiche, la sua concezione dell’uomo e della società.
Forse una delle prospettive più suggestive riscontrabili in questa variegata tradizione culturale vede l’uomo come essere in dialogo, come essere in comunicazione vitale con gli altri uomini. Guido Calogero riprende questa tema dalla filosofia greca, in particolare da Socrate ; Martin Buber dalla tradizione ebraica: «Se l’individualismo non comprende che una parte dell’uomo, il collettivismo non comprende l’uomo che come parte. Né l’uno né l’altro procede verso l’integralità dell’uomo, verso l’uomo come totalità. L’individualismo considera l’uomo soltanto nello stato di relazione con se stesso, il collettivismo non vede affatto l’uomo, non vede che la “società”. Nell’uno il volto dell’uomo è deformato, nell’altro, è mascherato. […] Il fatto fondamentale dell’esistenza umana è l’uomo-con-l’uomo. Ciò che caratterizza in modo singolare il mondo degli uomini, è da ricercarsi nel fatto che, tra uomo-e-uomo, intercorre qualcosa che non ha l’eguale nella natura» .
Concezione della società
Dal punto di vista della teoria della società, la socialdemocrazia intende rivedere sia la diagnosi della società compiuta da Marx sia il progetto di società da lui indicato al futuro. La diagnosi: è proprio vero che la società sia nettamente divisa in due classi, proletari e capitalisti? La prognosi: è proprio vero che andiamo verso una società senza classi, nel senso di una società tutta proletaria? La risposta è doppiamente negativa: di fatto, e per fortuna, oggi come domani, la società è un pullulare di forze, di interessi, di gruppi sociali, di partiti politici in lotta incessante. Eliminare questo antagonismo, sia pure in una società ideale di uguali, è impossibile ed autolesionistico: «La lotta è l’essenza stessa della vita; la storia è la risultante di un perpetuo confluire ed urtarsi di forze; nulla quindi di più illiberale ed utopistico che volerle assegnare un percorso obbligato» .
Concezione dello Stato
Abbiamo visto che, nel progetto comunista, lo Stato borghese va prima conquistato (con metodi democratici o violenti), poi gestito in maniera dittatoriale (fase «socialista»), infine gradualmente eliminato. I socialdemocratici dissentono con chiarezza sui primi due obiettivi, un po’ più implicitamente sul terzo.
Partiamo proprio da questo terzo obiettivo che, in un certo senso, ha valore di fine ultimo. Che ne sarà dello Stato alla fine del processo rivoluzionario? Bernstein aveva detto: «Il moto è tutto, il fine è nulla». Che può significare, grosso modo: per ora lottiamo per trasformare questo Stato e migliorare le condizioni di vita degli operai, poi chi vivrà vedrà .
Ma – e passiamo ai primi due obiettivi – trasformare lo Stato non può significare né usare la violenza come mezzo per conquistarlo né abolire il pluralismo democratico come mezzo per gestirlo. La lotta politica deve rispettare il metodo democratico sia per arrivare al potere sia per mantenerlo; metodo che, «per la sua intima essenza, è tutto penetrato dal principio di libertà» . Se la meta è l’autogoverno, non possiamo arrivarci con «interventi coercitivi o paternalistici» . Il metodo democratico pone come «premessa fondamentale il principio che la libera persuasione del maggior numero, allo stesso modo che è il miglior mezzo per raggiungere la verità, così è il miglior mezzo per garantire il progresso sociale e assicurare la libertà. Sul terreno politico si potrebbe definire come un complesso di regole di giuoco che tutte le parti in lotta si impegnano a rispettare; regole dirette ad assicurare la pacifica convivenza dei cittadini, delle classi, degli Stati, a contenere le lotte, fatali e anzi desiderabili, entro limiti tollerabili, a consentire la successione al potere dei vari partiti, ad incanalare nella legalità le forze innovatrici via via insorgenti» .
Concezione dell’economia
Liberismo significa diritto assoluto alla proprietà privata, comunismo significa abolizione assoluta della proprietà privata. La socialdemocrazia non accetta questa logica dell’aut-aut, preferisce pensare in termini di et-et: gli eventi stessi dimostrano che «le due posizioni antagonistiche sono andate lentamente avvicinandosi. Il liberalismo si è investito progressivamente del problema sociale e non sembra più necessariamente legato ai princìpi dell’economia classica, manchesteriana. Il socialismo si va spogliando, sia pure faticosamente, del suo utopismo ed è venuto acquistando una sensibilità nuova per i problemi di libertà e di autonomia. E’ il liberalismo che si fa socialista, o è il socialismo che si fa liberale? Le due cose assieme. Sono due visioni altissime ma unilaterali della vita che tendono a compenetrarsi e a completarsi» .
In concreto ciò significa lavorare per un’economia mista (settore pubblico e settore privato) e pluralistica: alcune industrie andranno nazionalizzate , altre iniziative economiche potranno restare in mano ai privati, con le più variegate modalità di gestione: «Forme municipali, cooperative, sindacali, gildiste, trustiste, forme miste, con innesto dell’interesse generale sul particolare, forme individuali e famigliari, a seconda delle tradizioni, della tecnica, dell’ambiente, ecc.» .
In questo processo di superamento dell’economia liberista verso modalità che – pur mettendo in primo piano l’interesse generale – non arrivino all’accentramento totalitario e pianificatore della «dittatura del proletariato» (cioè, chiosava Ignazio Silone, la dittatura del Partito Comunista sul proletariato) s’incontra la teoria di Keynes sullo Stato sociale (Welfare State) e sulla necessità di passare dal capitalismo al socialismo non attraverso la catastrofe, ma attraverso il progressivo perfezionamento del primo. Le proposte di Keynes mirano non a far esplodere le contraddizioni interne al regime capitalistico, ma a farlo funzionare talmente bene da rendere possibile ed auspicabile il suo superamento .
Concezione dell’educazione
A J. Dewey si sono ispirati quanti hanno cercato in campo educativo di mediare, piuttosto pragmaticamente, fra le istanze dell’individualismo liberale e quelle della socialità. Tra le acquisizioni più rilevanti in questa prospettiva:
a) la pedagogia è un’arte e si alimenta della circolarità fra esperienze quotidiane e riflessioni critiche su di esse, senza rigidi schemi ideologici e con tutti i rischi della sperimentazione;
b) l’educazione è un fatto individuale e sociale: mira allo sviluppo personale del soggetto e alla sua socializzazione ;
c) questa educazione deve essere garantita a tutti i cittadini attraverso una cultura generale appresa nella scuola primaria e secondaria, laddove la specializzazione professionale viene riservata agli studi universitari;
d) in questa cultura di base deve rientrare la dimensione pratica: i nostri impulsi «a fare, a costruire, a creare, a produrre sia per scopi utilitari sia per scopi artistici» ;
e) vi è un legame strutturale fra scuola e società: il sistema scolastico è influenzato dal sistema socio-economico, deve adeguarsi ai mutamenti ma non subordinarsi ciecamente alle esigenze dell’industria;
f) l’organizzazione politica più adatta all’educazione dell’uomo è la democrazia e, a sua volta, la scuola deve educare alla democrazia: «La scuola […] deve aiutare la gente a formarsi una mente più intelligente attraverso modi migliori di azione. E ciò può essere ottenuto da noi, e dai cittadini del nostro paese, solo se saremo capaci di criticare e giudicare e sperimentare con intelligenza in materie sociali. La scuola deve dunque cominciare ad insegnare ai giovani queste esperienze al più presto possibile. In questo modo essa deve rendersi utile alla democrazia» ;
g) più che la disciplina eterodiretta, vanno incentivati l’autodisciplina e l’autogoverno in spazi – anche fisici – dove sia possibile l’iniziativa degli alunni e il movimento .
Concezione della religione
Anche in questo campo la socialdemocrazia adotta un atteggiamento pragmatico, dettato dalle circostanze concrete e dalle situazioni storiche effettive. Tendenzialmente «laica», essa non esclude che tra i suoi sostenitori vi siano cittadini personalmente credenti che possano attingere dalla loro fede motivi supplementari d’impegno sociale: la scelta religiosa resta, comunque, una scelta privata che non deve avere rilevanza sulle decisioni politiche d’interesse collettivo.
Anche nei confronti delle chiese, dunque, si evita ogni atteggiamento persecutorio così come ogni favoritismo: si tratta di associazioni che, se rispettano le norme previste nell’ambito del diritto pubblico, possono contribuire alla dialettica interna alla società ed al pluralismo del dibattito. Rispetto, in particolare, alla chiesa cattolica, si è spesso registrata una convergenza di vedute tra la socialdemocrazia e la dottrina sociale cristiana: entrambe, pur partendo da presupposti diversi (la ricerca «laica» e sperimentale per la prima, l’insegnamento «rivelato» e dottrinario la seconda), hanno faticosamente cercato una via media tra l’individualismo liberale ed il collettivismo comunista.
Capitolo quinto
IL FASCISMO
Il nucleo generatore
Anche a proposito del fascismo, come nel caso delle teorie politiche del Novecento sinora esaminate, ci chiediamo quale sia l’idea centrale da cui si irradiano le diverse articolazioni. Ed anche a proposito del fascismo cerchiamo di rispondere da un punto di vista interno alla prospettiva ideologica in esame (prescindendo, dunque, dalle possibili interpretazioni che possono darsi da punti di vista esterni). In questo intento (a prima vista assai arduo) siamo facilitati dal fatto che Mussolini stesso (con l’aiuto determinante di Giovanni Gentile) ha redatto la voce «fascismo/dottrina» dell’Enciclopedia Italiana Treccani e in essa, a un certo punto, si legge: «Se chi dice liberalismo dice individuo, chi dice fascismo dice Stato» . Infatti – si trova scritto poco sopra – «caposaldo della dottrina fascista è la concezione dello Stato, della sua essenza, dei suoi compiti, delle sue finalità. Per il fascismo lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo. Individui e gruppi sono “pensabili” in quanto siano nello Stato. Lo Stato liberale non dirige il giuoco e lo sviluppo materiale e spirituale delle collettività, ma si limita a registrare i risultati; lo Stato fascista ha una sua consapevolezza, una sua volontà; per questo si chiama uno Stato “etico”» . Ancora prima, Mussolini aveva usato i termini più espliciti che si potessero desiderare: «Giacché, per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato», «in tal senso il fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo» .
Concezione dell’uomo
Il fascismo si presenta come una dottrina che nasce dalla polemica con le dottrine precedenti (socialismo marxista e, più ancora, liberalismo), anche se intende trarre dalle «macerie» di quelle dottrine – a suo avviso superate – «quegli elementi che hanno ancora un valore di vita» .
Questa polemica si evidenzia già nella rappresentazione dell’uomo che (contro l’individualismo liberale) viene concepito come «membro consapevole di una società spirituale», ma di una società (e questo è affermato contro l’ottica comunista) che – appunto in quanto «spirituale» – non è legata essenzialmente da rapporti economici, bensì da «una legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in una missione»: una società, insomma, che è «nazione», «patria», «Stato» .
Se lo Stato è il Tutto di cui l’uomo è parte, ciò che caratterizza la vita dello Stato caratterizza conseguentemente la vita di ogni singolo individuo. E che cosa caratterizza la vita dello Stato? «Anzitutto il fascismo, per quanto riguarda, in generale, l’avvenire e lo sviluppo dell’umanità, e a parte ogni considerazione di politica attuale, non crede alla possibilità né all’utilità della pace perpetua. Respinge quindi il pacifismo che nasconde una rinuncia alla lotta e una viltà – di fronte al sacrificio. Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla. Tutte le altre prove sono dei sostituti, che non pongono mai l’uomo di fronte a se stesso, nell’alternativa della vita e della morte. […] Questo spirito antipacifista, il fascismo lo trasporta anche nella vita degli individui. L’orgoglioso motto squadrista “me ne frego”, scritto sulle bende di una ferita, è un atto di filosofia non soltanto stoica, è il sunto di una dottrina non soltanto politica: è l’educazione al combattimento, l’accettazione dei rischi che esso comporta; è un nuovo stile di vita italiano» .
Concezione della società
Abbiano notato come l’individuo venga risolto nello Stato. La medesima logica porta il fascismo a risolvere nello Stato anche i gruppi sociali e la società stessa: «Né individui fuori dello Stato, né gruppi (partiti politici, associazioni, sindacati, classi). […] Gl’individui sono classi secondo le categorie degl’interessi; sono sindacati secondo le differenziate attività economiche cointeressate; ma sono prima di tutto e soprattutto Stato» . In tutte le teorie politiche sinora esaminate le nozioni di «società» e di «Stato» sono talmente differenti da poter ipotizzare una società senza Stato (comunismo) o con uno Stato «leggero» (liberalismo). Al contrario, nella prospettiva fascista, «società» e «Stato» si identificano. Una società senza Stato sarebbe assurda perché non è la società (o la nazione) a generare lo Stato, ma lo Stato a creare la società (o la nazione): quello Stato che «dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà, e quindi un’effettiva esistenza» .
Concezione dello Stato
Questo Stato, di cui abbiamo sottolineato l’assoluta centralità, è la «forma più alta e potente della personalità»: una «forza, ma spirituale» che «riassume tutte le forme della vita morale e intellettuale dell’uomo» . Hegel aveva scritto che lo Stato era l’incarnazione oggettiva di Dio nel mondo; solo alla luce di questa concezione idealistica si può capire perché, per Mussolini, esso sia «forma e norma interiore, e disciplina di tutta la persona; penetra la volontà come l’intelligenza. Il suo principio, ispirazione centrale dell’umana personalità vivente nella comunità civile, scende nel profondo e si annida nel cuore dell’uomo d’azione come del pensatore, dell’artista come dello scienziato: anima dell’anima» .
E questo Stato, concepito come realtà spirituale immanente in ogni singola coscienza, esige una propria espansività: è «una realtà etica che esiste e vive in quanto si sviluppa», perciò è anche «potenza che fa valere la sua volontà all’esterno, facendola riconoscere e rispettare» . Anche su questo punto Mussolini si esprime senza possibilità di equivoci: «lo Stato fascista è una volontà di potenza e d’imperio», deve riattualizzare la tradizione dell’impero romano, tenendo presente che «l’impero non è soltanto un’espressione territoriale o militare o mercantile, ma spirituale e morale». Insomma: «La tendenza all’impero, cioè all’espansione delle nazioni, è una manifestazione di vitalità; il suo contrario, o il piede di casa, è un segno di decadenza: popoli che sorgono o risorgono sono imperialisti, popoli che muoiono sono rinunciatari» .
Concezione dell’economia
È il capitolo più travagliato della dottrina fascista e non è un caso che, nel testo in esame, Mussolini vi dedica solo qualche accenno veloce e generico . Egli, evidentemente, rivendica (contro il liberismo) il ruolo dello Stato anche in campo economico: ma (contro il comunismo marxista) non per eliminare la proprietà privata e raggiungere quella «“felicità” economica, che si realizzerebbe socialisticamente e quasi automaticamente a un dato momento dell’evoluzione dell’economia, con l’assicurare a tutti il massimo di benessere» . Il criterio generale è che «lo Stato fascista organizza la nazione, ma lascia poi agl’individui margini sufficienti; esso ha limitato le libertà inutili o nocive e ha conservato quelle essenziali» .
In positivo, il progetto fascista si concretizza in quelle «istituzioni corporative, sociali, educative» per mezzo delle quali «tutte le forze politiche, economiche, spirituali della nazione» possano circolare nello Stato «inquadrate nelle rispettive organizzazioni» . Come si esprime lo stesso Mussolini in un’altra occasione (1933), «il Corporativismo è l’economia disciplinata e quindi anche controllata, perché non si può pensare ad una disciplina che non abbia un controllo. Il Corporativismo supera il socialismo e supera il liberalismo, crea una nuova sintesi» . Anni prima (1925) il corporativismo era stato presentato dal ministro Alfredo Rocco come «un sindacalismo nazionale che ricordi esistere tra le categorie e i gruppi sociali in Italia una ragione di solidarietà che sovrasta le ragioni di contrasto, la solidarietà che unisce tutti i gruppi, tutte le categorie, tutte le classi di un popolo povero ma esuberante di uomini e di volontà, il quale deve camminare verso il suo avvenire come un esercito ordinato in battaglia» . Già da questi brevi cenni si intuiscono i caratteri peculiari del corporativismo fascista, di tipo «dirigista», rispetto ad altre versioni del corporativismo: «nel Corporativismo “tradizionale” le corporazioni si oppongono allo Stato; nel Corporativismo fascista le corporazioni sono subordinate allo Stato, sono organi dello Stato» .
Concezione dell’educazione
Il fascismo ha avuto tra i suoi esponenti un notevole pensatore che si è occupato di pedagogia sia in maniera teorica (soprattutto nel Sommario di pedagogia come scienza filosofica ) che pratico-politica (con la riforma del sistema scolastico italiano del 1923 ): l’hegeliano Giovanni Gentile. A suo avviso il processo educativo – di libertà, di autosviluppo, di autocoscienza – dura quanto l’intera vita del soggetto. Ed il soggetto non è mai l’individuo astrattamente isolato, bensì in rapporto dialettico con gli altri soggetti. Paradigmatico il caso della relazione maestro-discepolo: dietro l’apparente opposizione dell’autorità e della libertà, nell’atto educativo concreto il maestro si educa insegnando ed il discepolo si autoforma assimilando il sapere che gli viene proposto.
Da questa concezione generale dell’educazione deriva la «didattica» o «teoria della scuola». Gentile ritiene di dover contestare ogni suddivisione schematica dell’uomo in diverse facoltà da educare (intelligenza, volontà, memoria…) secondo le diverse età psicologiche e dello scibile umano in diverse discipline (letterarie, scientifiche, filosofiche…): si tratta, al contrario, di riscoprire l’unità spirituale e del soggetto umano (che è tale dalla scuola elementare all’università) e del sapere universale (che trova, in ultima analisi, nella filosofia il fondamento e l’anima comune).
Alcune scelte operative risultano abbastanza collegate con questi criteri teorici: ad esempio, la centralità dei valori spirituali (e, dunque, l’importanza dello studio delle tradizioni storiche italiane – a cominciare dalla lingua latina – e il ripristino dello studio della religione cattolica come propedeutico e/o sostitutivo rispetto allo studio della filosofia previsto nei tre anni conclusivi del liceo e dell’istituto magistrale). In altri casi questo collegamento non è altrettanto chiaro e le politiche scolastiche rappresentarono, piuttosto, un compromesso fra diverse opinioni, quasi tutte di estrazione «borghese–conservatrice»: ci si chiese, ad esempio, perché derivare dalla pedagogia «idealistica» una netta separazione fra scuole formative (il ginnasio-liceo) e scuole di avviamento al lavoro (scuola «complementare» ed istituti di istruzione professionale); o anche perché privilegiare la funzione selettiva della scuola rispetto alla funzione socializzatrice e limitare, conseguentemente, l’espansione del sistema scolastico (secondo il principio «poche scuole ma buone, poche scuole, ma scuole» ).
Concezione della religione
Il fascismo, nella misura in cui assolutizza lo Stato, relativizza la religione: la ritiene – a un tempo – utile e pericolosa. È utile nella misura in cui favorisce, specialmente nei più giovani, il senso del dovere, l’attaccamento alle tradizioni, la fedeltà alla patria ; pericolosa se, e quando, si fa lievito critico nei confronti della cultura ufficiale e delle decisioni statali (ad esempio in campo bellico o razziale).
Questa ambiguità nei confronti della dimensione religiosa dei cittadini si riproduce a livello istituzionale nei rapporti fra Stato e chiese. In Italia, ad esempio, il fascismo ha tentato di limitare l’associazionismo cattolico in quanto agenzia educativa concorrente rispetto alle organizzazioni del partito; ma non ha esitato a firmare i Patti Lateranensi con i quali si chiudeva l’annosa «questione romana» e si stipulava con la chiesa cattolica un «concordato» che assicurava alla stessa una serie di garanzie e privilegi rispetto alle altre confessioni religiose .
Capitolo sesto
LA DOTTRINA SOCIALE CATTOLICA
Il nucleo generatore
Il cristianesimo è – prima di tutto ed essenzialmente – un messaggio religioso. Tuttavia, storicamente, si è incontrato con vari sistemi socio-politici con i quali ha interloquito, ora polemicamente ora ironicamente: in ogni caso modificandosi e modificando . Sull’argomento, dal punto di vista teologico, nel Novecento si sono andate profilando due posizioni principali che per comodità schematica potremmo definire «protestante» e «cattolica». Secondo la prima, va difesa gelosamente la trascendenza del cristianesimo rispetto al travaglio storico delle società in continua ricerca di assetto: la Parola di Dio non avrebbe nulla da dire sulle questioni socio – politiche che appartengono al «mondo» e vanno risolte, con i mezzi a disposizione dell’uomo, in totale autonomia laica. In questa prospettiva non esiste e non può esistere una «dottrina sociale» del cristianesimo. Nella seconda prospettiva, invece, il cristianesimo può e deve dire la sua anche nelle questioni che riguardano l’organizzazione della società: anzi, la chiesa (cattolica), in quanto depositaria e custode della Parola di Dio, si autointerpreta come «esperta in umanità» (secondo la celebre espressione di Paolo VI nel discorso alle Nazioni Unite) e si ritiene in grado di fornire, anche in questo ambito morale, i criteri in assoluto più illuminanti. Insomma: senza il vangelo di Cristo, la società resta priva della pienezza della verità . Questa, probabilmente, l’intuizione generatrice della dottrina sociale cattolica così come la ritroviamo dalla Rerum Novarum di Leone XIII (1891) sino al Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992.
Concezione dell’uomo
Negli anni ’30-’40 del nostro secolo il pensiero sociale cattolico (a partire da Jacques Maritain ed Emanuel Mounier) ha trovato una formula fortunata per esprimere la propria concezione antropologica: «personalismo comunitario». L’uomo è una «persona» ossia una creatura di Dio, in quanto tale capace di conoscerlo ed amarlo, costituita da Lui stesso «sopra tutte le creature terrene quale signore di esse, per governarle e servirsene a gloria di Dio» : ma «per sua intima natura è un essere sociale, e senza i rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti» .
In prospettiva polemica, questa concezione dell’uomo è stata presentata come alternativa sia (in quanto «personalismo») alle «ideologie totalitarie e atee associate, nei tempi moderni, al “comunismo” o al “socialismo”», sia (in quanto «comunitario») a quell’«individualismo» che si riscontra «nella pratica del “capitalismo”» . In prospettiva più dialogica, invece, Mounier ritiene che il personalismo costituisca, insieme al marxismo e all’esistenzialismo, una delle tre filosofie rivoluzionarie del suo tempo: «Esse esplorano, in direzioni diverse, ampie provincie del medesimo paese, e si tradirebbe l’avvenire dell’uomo se si volesse trasformare la loro concorrenza feconda in una lotta totalitaria, mirante alla reciproca eliminazione» .
Concezione della società
«Una società è un insieme di persone legate in modo organico da un principio di unità che supera ognuna di loro»: essa è perciò una «assemblea insieme visibile e spirituale» . In che cosa si può identificare questo «principio di unità»? Probabilmente ciò che unisce persone, famiglie, associazioni… e li spinge a diventare una «comunità politica» è la ricerca del «bene comune»: «La comunità politica esiste proprio in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e dal quale ricava come corpo morale il diritto di provvedere a se stessa e il suo ordinamento giuridico, originario e proprio» . Questo «bene comune» è l’insieme di condizioni territoriali, economiche, tecniche, sociali, giuridiche, morali, culturali che «consentono e favoriscono negli esseri umani, nelle famiglie e nelle associazioni il conseguimento più pieno della loro perfezione» . Comporta «tre elementi essenziali»: «In primo luogo, esso suppone il rispetto della persona in quanto tale» ; «in secondo luogo, il bene comune richiede il benessere sociale e lo sviluppo del gruppo stesso» ; «il bene comune implica infine la pace, cioè la stabilità e la sicurezza di un ordine giusto» .
Concezione dello Stato
Per raggiungere il bene comune, ogni società ha bisogno di uno Stato o, come si preferisce dire nel linguaggio dei documenti ufficiali ecclesiastici, «una autorità» che la unifichi e la regga. Ma a che tipo di Stato guarda la dottrina sociale cattolica? Se è evidente che «la comunità politica e l’autorità pubblica hanno il loro fondamento nella natura umana e perciò appartengono all’ordine prestabilito da Dio», «la determinazione dei regimi politici e la designazione dei governanti sono lasciate alla libera decisione dei cittadini» .
Affermazioni come questa sembrerebbero giustificare la convivenza della Chiesa cattolica con i regimi politici più disparati (dall’Impero Romano agli Stati assoluti moderni, dalle monarchie alle repubbliche, dalle dittature di destra a quelle di sinistra che non l’hanno estirpata del tutto dal tessuto sociale); ma vengono ridimensionate da altre affermazioni che sembrerebbero mettere dei limiti, almeno per il futuro: «Le modalità concrete con le quali la comunità politica organizza le proprie strutture e l’esercizio dei pubblici poteri possono variare, secondo l’indole dei diversi popoli e il progresso della storia; ma sempre devono mirare alla formazione di un uomo educato, pacifico e benefico verso tutti, per il vantaggio di tutta la famiglia umana» .
C’è di più. Specie nei documenti più recenti non mancano indicazioni più dettagliate su alcuni princìpi costituzionali che sembrerebbero rivolte soprattutto alle democrazie moderne. La più originale di queste indicazioni, suggerita dalla convinzione che «un intervento troppo spinto dello Stato può minacciare la libertà e l’iniziativa personali», è nota come principio di sussidiarietà: secondo questo principio «una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune» .
Concezione dell’economia
Anche in questo settore della dottrina sociale – e a maggior ragione – la chiesa (almeno in linea di principio) rivendica una competenza non tecnica, ma morale: si tratta, insomma, di stabilire dei criteri etici generali che possono trovare applicazioni storiche variegate. Il criterio principe è stato felicemente sintetizzato nella Costituzione conciliare sulla «Chiesa nel mondo contemporaneo»: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene, all’uso di tutti gli uomini e popoli, e pertanto i beni creati debbono secondo un equo criterio essere partecipati a tutti, essendo guida la giustizia e assecondando la carità. Pertanto, quali che siano le forme concrete della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli, in vista delle diverse e mutevoli circostanze, si deve sempre ottemperare a questa destinazione universale dei beni. Perciò l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori, che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri» .
In base a questo Documento conciliare il diritto alla proprietà (privata, statale o collettiva) non è un valore assoluto: esso ha vigore se, e in quanto, assicura la destinazione universale dei beni economici. La conseguenza logica sarebbe un’equidistanza della dottrina sociale cattolica da tutte le formule tecniche elaborate nella storia per organizzare la produzione e la distribuzione delle ricchezze. In realtà con questo Documento (il più autorevole che la chiesa cattolica poteva esprimere dal momento che sintetizza il pensiero del papa e di tutti i vescovi del mondo) si è raggiunto un vertice di «apertura» rispetto al quale il magistero successivo ha preferito planare: dopo la morte di Paolo VI ed il brevissimo pontificato di Giovanni Paolo I, l’insegnamento di papa Wojtyla, infatti, si è preoccupato di evitare tanta «indeterminatezza» e di entrare più nei dettagli «tecnici». Al punto che persino nel Catechismo ufficiale (1992) si leggono precisazioni che sembrano andare al di là dell’affermazione dei princìpi di fondo: «La regolazione dell’economia mediante la sola pianificazione centralizzata perverte i legami sociali alla base; la sua regolazione mediante la sola legge del mercato non può attuare la giustizia sociale, perché “esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato” (Centesimus annus, 34). È necessario favorire una ragionevole regolazione del mercato e delle iniziative economiche, secondo una giusta gerarchia dei valori e in vista del bene comune» .
Concezione dell’educazione
Nell’ambito del personalismo comunitario è stato Jacques Maritain a dedicare maggiore attenzione al problema educativo. Nell’opera più significativa, egli fa emergere le proprie prospettive misurandosi, polemicamente, con le opinioni pedagogiche più diffuse (da lui definite, senza troppi complimenti, «errori»):
a) Contro l’enfatizzazione delle tecniche, rivendica il primato dei «fini»: «Il bimbo è così ben esaminato mediante i vari tests e studiato; i suoi bisogni sono così ben precisati; la sua psicologia è così chiaramente analizzata; i metodi per rendergli sempre tutto facile così perfezionati che il fine di tutti questi lodevoli miglioramenti corre il rischio di essere dimenticato o trascurato» ;
b) contro chi riconosce come «fine» un «concetto scientifico» di uomo, sostiene la necessità di rifarsi al «concetto filosofico e religioso», «cristiano»;
c) contro il pragmatismo in chiave psicologico-soggettivistica, la necessità di rispettare l’oggettività dei contenuti: «A forza di insistere sul fatto che per insegnare a John la matematica è più importante conoscere John che la matematica – il che in un certo senso è abbastanza vero – l’insegnante riuscirà a conoscere perfettamente John ma John non riuscirà mai a sapere la matematica» ;
d) contro il sociologismo, la possibilità della libertà umana di reagire ai condizionamenti economico-sociali;
e) contro l’intellettualismo, la rivendicazione di una educazione democratica che coinvolga ampie fasce della popolazione (anche mediante l’introduzione del lavoro manuale e del gioco) e non solo delle élites ristrette;
f) contro il volontarismo, la preoccupazione di non assolutizzare la sfera emotiva e irrazionale delle nuove generazioni sino – nei casi peggiori – ad esiti totalitari;
g) contro l’onnipotenza presuntiva dell’insegnamento, la paradossalità del fatto educativo e l’incidenza di agenzie e fattori extrascolastici nella formazione della personalità individuale.
È superfluo aggiungere che Maritain, con tutta la pedagogia di ispirazione cattolica, sostiene la necessità della libertà d’insegnamento anche nel senso di un pluralismo di offerte formative (scuole statali, scuole private laiche, scuole confessionali).
Concezione della religione
Anche in questo campo il Concilio Vaticano II segna uno spartiacque decisivo nella storia della dottrina sociale cattolica. Sino a quella data, infatti, essa ha fortemente sostenuto il principio della libertà religiosa intendendola come libertà dei cristiani di manifestare pubblicamente la propria fede e di ispirare ad essa le loro proposte legislative e la loro azione politica; non altrettanto decisa, però, è stata la rivendicazione della stessa libertà per i non-cristiani e per i non-credenti, più d’una volta considerati alla stregua di potenziali inquinatori della pace e dell’ordine sociale. Una sterzata di tendenza si è registrata da Giovanni XXIII e Paolo VI in poi. Come si legge nella Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae del 7 dicembre 1965, «la libertà religiosa deve essere riconosciuta come un diritto a tutti gli esseri umani e a tutte le comunità» (13, c) e «se, considerate le circostanze peculiari dei popoli, nell’ordinamento giuridico di una società civile viene attribuita ad una determinata comunità religiosa una speciale posizione civile, è necessario che nello stesso tempo a tutti i cittadini e a tutte le comunità religiose venga riconosciuto e sia rispettato il diritto alla libertà in materia religiosa» (6, c).
Capitolo settimo
IL CONSERVATORISMO
Il nucleo generatore
Tutte le ideologie che abbiamo sinora esaminato propongono dei progetti di mutamento sociale più o meno condizionato dall’iniziativa degli uomini. Ma siamo sicuri che influenzare la storia sia possibile e, se possibile, auspicabile? Non pochi – cittadini, politici, pensatori – sono stati, e sono, convinti che sia meglio «preferire ciò che è noto all’ignoto, preferire il tentato all’intentato, il fatto al mistero, il reale al possibile, il limitato all’illimitato, il vicino al distante, il sufficiente al sovrabbondante, il conveniente al perfetto, la risata di oggi alla felicità dell’utopia”» Questa preferenza per lo status quo, o più ancora questa diffidenza per ogni cambiamento «artificiale», è il nucleo generatore del conservatorismo. Un’ideologia difficile da osservare in forma «bella e pronta»: chi la condivide difficilmente ammette di avere un’ideologia e ancor più difficilmente si sbraccia per convincere altri delle proprie concezioni. Come è stato più volte osservato, «l’elemento conservatore non è originariamente creativo, bensì “reattivo”, nel senso che diviene cosciente di sé solo come antitesi (e cioè come antitesi al nuovo), ed è creativo solo in questa forma» .
Concezione dell’uomo
Una conferma del fatto che il conservatorismo sia, più che un movimento, un «contromovimento» la troviamo già a proposito della concezione antropologica: «I conservatori ritengono che la natura umana non sia perfettibile (in questo si differenziano da vari socialisti) e che non sia assolutamente in grado di evolversi (e qui prendono le distanze dalla maggioranza dei liberali) poiché non esistono linee guida che indichino alla gente quale direzione prendere. La storia è un processo di accumulazione che non fornisce alcuna chiave per il futuro, e può essere interpretata solo retrospettivamente» .
Imperfettibilità e staticità dell’uomo, quindi; destinato a restare quello che lo sguardo «realista», senza illusioni retoriche né moralistiche, dovrebbe francamente ammettere: egoista, condizionato da impulsi irrazionali, intraprendente, competitivo.
Concezione della società
Coerentemente con la concezione antropologica, la società viene considerata come un insieme gerarchico di individui differenti ed ineguali: la sua struttura è sostanzialmente immodificabile perché dipende non dalle scelte degli uomini, quanto piuttosto da fattori (la volontà di Dio, le leggi della biologia, le forze anonime della storia…) che le precedono e le trascendono.
Tra queste leggi particolare rilevanza è stata riconosciuta al darwinismo sociale e all’evoluzionismo di Spencer: «Sia chiaro che siamo di fronte a due alternative: libertà, disuguaglianza, sopravvivenza del più adatto; non libertà, eguaglianza, sopravvivenza del meno adatto. La prima fa progredire la società e ne favorisce i suoi membri migliori» .
L’individualismo tendenziale viene corretto da due categorie ritenute imprescindibili: la famiglia (all’interno della quale vige una precisa differenziazione di ruoli tra genitori e figli e tra maschi e femmine) e la Patria (di cui salvaguardare l’ordine rispetto ai possibili sovvertitori interni e la sicurezza rispetto a reali o presunti nemici esterni).
Concezione dello Stato
Sin dai tempi di Burke (fine del Settecento) si può riscontrare nel filone conservatore la tendenza a considerare lo Stato non come un sistema di istituzioni finite e cangianti, bensì come un organismo «misterioso» la cui essenza trascende le decisioni mutevoli delle generazioni di cittadini che si succedono.
Coerentemente, l’orientamento più frequente nella prospettiva conservatrice è di rispettare lo Stato come forma concreta dell’autorità, garanzia di continuità storica e freno nei confronti delle innovazioni sociali. Ma neppure su questo punto i conservatori cedono alla tentazione del dogmatismo o della semplice fedeltà ai princìpi acquisiti: come osservava nel 1978 un politologo, «in passato, i conservatori “complottavano” a favore dello stato e contro il laissez faire; oggi “complottano” contro lo stato e a favore dell’individuo. Tanto ieri quanto oggi lo scopo del loro “complottare” è raggiungere un equilibrio» .
Concezione dell’economia
Questo equilibrio in economia significa preservare da ogni ribaltamento la differenza – ritenuta naturale e dunque raccomandabile - fra chi possiede (ed è dunque anche incline a governare con saggezza e prudenza) e chi non possiede (ed è dunque tendenzialmente irresponsabile nelle scelte di carattere pubblico): «la sorte dei poveri non è, in quanto tale, un oggetto conveniente di commiserazione, ma è la forma normale dell’esistenza umana» . In termini equivalenti questo significa salvaguardare il diritto alla proprietà privata ritenuto sacro ed inviolabile come il diritto alla vita ed alla procreazione. Sui dettagli tecnici il conservatorismo dimostra elasticità e pragmatismo, ma un filo conduttore costante è ravvisabile nell’assoluta separazione dell’economia da qualsivoglia considerazione etica: la legge della domanda e dell’offerta regola i guadagni al punto che «l’etica è del tutto ininfluente; il merito è insignificante; il valore pecuniario degli sforzi è determinato da cause economiche che non hanno niente a vedere con l’etica» . E’ dunque assurdo appellarsi a ragioni etiche per una politica redistributiva della ricchezza sulla base di servizi sociali prestati o di sofferenze patite: «rifiutarsi di prestare aiuto ai meritevoli o a coloro che soffrono, per quanto crudele o comunque ingrato non è ingiusto» .
In questa logica, i conservatori abitualmente si battono per una riduzione al minimo delle tasse, per l’ereditarietà della proprietà, per l’incentivazione dei profitti (specie sotto forma di azionariato), per la privatizzazione delle industrie e dei servizi. Un discorso a parte va fatto per il giudizio sul Welfare State (Stato sociale): da promuovere nei periodi in cui può assopire la lotta sociale e spuntare le armi ai sindacati e alle forze progressiste, da combattere come burocratico ed inefficiente nei periodi in cui il quadro internazionale pone i capitalisti in posizione di forza rispetto ai lavoratori.
Concezione dell’educazione
Educare ai valori della libera iniziativa, della competizione e della tradizione (religiosa e civile) non è tanto un’opera di condizionamento, quanto di de –condizionamento: non si tratta, in altri termini, di modificare con la cultura la natura umana, ma di lasciare emergere quest’ultima nella sua struttura immutabile preservandola da illusioni rivoluzionarie.
La pedagogia conservatrice è orientata al «concreto», nel doppio senso di privilegiamento dell’«ambiente immediato nel quale si è posti» (la famiglia, la comunità locale, il contesto socio-economico) e di «rifiuto radicale del regno del “possibile” e dello “speculativo”» . Questo appello al «concreto» acquista spesso i connotati del relativismo scettico: come ha spiegato un pensatore italiano nel tentativo di fondare la legittimità dell’autorità su basi realistiche, «lo scetticismo non è […] “la filosofia della rivoluzione” ma piuttosto “la filosofia della conservazione”, sebbene conservazione di qualunque ordine e introduzione di qualunque autorità» .
Proprio quest’ultima considerazione chiarisce perché la pedagogia conservatrice sia anche, essenzialmente, «autoritaria»: non punta sulla creatività e sul senso critico degli alunni (che, se si illudessero di capire nuove verità, finirebbero con l’introdurre conflitti interpersonali e con lo scompaginare l’ordine sociale), ma sulle virtù etiche (diligenza, lealtà, laboriosità, puntualità… e, soprattutto, obbedienza come accettazione grata e convinta di un principio-guida al di sopra delle oscurità e delle incertezze della ragione umana).
Concezione della religione
Le religioni in generale, e quella cristiana in particolare, sono state storicamente ambivalenti: per certi versi innovative e pericolose dal punto di vista dei poteri costituiti e degli interessi consolidati, per altri versi alleate del trono e fattori di assopimento delle rivendicazioni sociali da parte degli sfruttati. Ovviamente il conservatorismo come ideologia politica cerca di reprimere le manifestazioni religiose quando si orientano nel primo senso e di interagire collaborativamente in caso contrario. Nell’Occidente – in prevalenza, almeno ufficialmente, cristiano –, in concreto, questa interazione implica sia una richiesta di aiuto che un’offerta di favori. Da una parte, infatti, i conservatori ricorrono ad argomenti «teologico-mistici, o comunque trascendenti» per legittimare il loro potere sociale e politico ; in cambio, poi, assicurano protezione alle istituzioni ecclesiali più «ortodosse» che possano contrastare le «eresie» e i «pruriti di novità»; incrementare una lettura «fondamentalista» della Bibbia che si attiene alla «lettera» dei Testi – ritenendola vincolante anche in campo scientifico – ed evita le attualizzazione interpretative; favorire una spiritualità intimistica e soprannaturalistica centrata sulla «salvezza delle anime» individuali più che sull’instaurazione del «regno di Dio» in terra.
Capitolo ottavo
L’AMBIENTALISMO
Il nucleo generatore
La nostra rassegna delle ideologie principali del Novecento sarebbe non solo sommaria ma addirittura lacunosa se non riservasse uno spazio adeguato anche all’ambientalismo . Con questo termine ci riferiamo alla traduzione ideologico - politica delle analisi, delle intuizioni e delle prognosi che, in vari settori e a vari livelli, sono state prodotte dal pensiero ecologico lungo tutto il XX secolo e, con particolare intensità e frequenza, nel suo ultimo trentennio.
L’idea centrale dell’ambientalismo – ideologia di riferimento di associazioni, organizzazioni di volontariato e schieramenti elettorali «verdi» – è stata probabilmente sintetizzata già nel lontano 1863: «Per l’umanità, il problema per eccellenza, il problema sopra il quale tutti gli altri poggiano, e che ci interessa più profondamente di ogni altro, è lo stabilire quale posto l’uomo occupi nella natura e quale rapporto egli abbia con il mondo che lo circonda» .
Concezione dell’uomo
Tutte le ideologie del Novecento risentono, in maniera più o meno evidente, dell’umanesimo moderno che vede nell’uomo il signore e l’artefice del mondo naturale, a lui inferiore e da lui continuamente ricreato. La concezione dell’uomo «verde» è caratterizzabile innanzitutto come capovolgimento di questo antropocentrismo: l’uomo è considerato non più come signore ed artefice, ma come figlio ed ospite dell’universo («Ciascuno di noi viene dalla Terra, è della Terra, è sulla Terra. Apparteniamo alla Terra che ci appartiene» ). Per milioni di anni la Terra ha fatto a meno di lui e, probabilmente, continuerà a sopravvivergli per milioni di anni: nel breve tratto di tempo della sua storia, l’uomo deve dunque camminare in punta di piedi per non stravolgere quell’equilibrio planetario che egli non ha prodotto ma che può comunque distruggere in maniera irreversibile. In questo cammino deve essere accompagnato dalla consapevolezza della propria animalità («l’umanità non si riduce affatto all’animalità; ma senza animalità non c’è umanità» ) e della propria responsabilità nei confronti della natura («un oggetto di ordine completamente nuovo, nientemeno che l’intera biosfera del pianeta, è stato aggiunto al novero delle cose per cui dobbiamo essere responsabili, in quanto su di esso abbiamo potere» ).
Concezione della società
La tendenza dominante nella prospettiva ambientalista è di vedere la società come l’insieme solidale (nello spazio ma anche nel tempo) di tutta l’umanità: la questione ecologica è talmente grave e radicale da mettere in discussione gli approcci nazionali, da coinvolgere il genere umano in quanto tale. Questa oggettiva solidarietà mondiale non cancella le articolazioni locali. Innanzitutto, dunque, le piccole comunità alternative spontanee che sperimentino, a titolo di modelli e di avanguardie, stili di vita più compatibili col rispetto della natura; secondariamente le realtà municipali, provinciali e regionali in cui è più facile, mediante organizzazioni di autogoverno, sperimentare forme di sviluppo sociale “sostenibile”. L’oggettiva solidarietà mondiale è di fatto compromessa dalla spaccatura fra il Nord e il Sud del mondo: una spaccatura, basata sulla supremazia scientifica e tecnologica del Nord, destinata a dare luogo «ad un gigantesco boomerang planetario» .
Comunque, gli ambientalisti concordano su un principio-guida: sia a livello locale che a livello mondiale, «per andare d’accordo con la natura, occorre una nuova socialità e una riforma della democrazia» .
Concezione dello Stato
Storicamente l’ambientalismo si è coniugato e si coniuga con diverse concezioni politiche ma, per lo più, tende ad un’interpretazione che ridimensiona il ruolo dello Stato senza tuttavia negarne la funzione. Da una parte, infatti, lo Stato è guardato con diffidenza in quanto una delle possibili forme di potere: «Secondo la morale ecologista gli uomini devono liberarsi soprattutto dal potere: non solo dal potere dei dominatori, ma da tutte le forme di potere, a cominciare dal proprio potere individuale. […] Il fatto è che in un mondo minacciato dalla sconsiderata potenza dell’uomo – compresa quella della scienza – e che deve essere ricondotto entro i limiti della natura, il potere non soltanto è dannoso, ma è anche inutile. Non serve il potere, si dice, per cambiare la società domani, ma serve eliminarlo per cambiare il mondo oggi. Qui risiede uno dei punti di maggiore contatto del movimento ecologista con il movimento non - violento e con quello pacifista» . Dall’altra parte, comunque, si riconosce che (a meno di una effettiva e totale eliminazione della proprietà privata) una qualche forma di potere istituzionale, capace di limitare le conseguenze negative dell’industrializzazione, sia ineliminabile. L’ambiente è un bene pubblico che, a parere della maggior parte degli ecologisti, non può essere preservato solo in un’ottica privata ma va affidato alla sorveglianza e al controllo di un potere politico autorevole e debitamente attrezzato. Lo Stato, insomma, è chiamato in causa non solo come un pericolo potenziale e, in concreto, «un avversario nelle specifiche lotte», ma anche «come garante, responsabile ed interlocutore».
La tensione fra rifiuto e accettazione di un potere politico statuale si ripropone a livello mondiale: da una parte, infatti, si vede con preoccupazione l’egemonia politico-economica di uno Stato (o di un gruppo di Stati particolarmente industrializzati) che governi i processi della globalizzazione a favore di una minoranza dell’umanità; dall’altra, però, ci si rende conto che una qualche forma di organizzazione internazionale (possibilmente a carattere federale) è indispensabile per superare le barriere statali e affrontare i problemi ecologici con un’ottica complessiva che tenga conto delle interazioni fra avvenimenti lontani nello spazio (come il celebre battito d’ali di farfalla in America meridionale che può scatenare il ciclone in Giappone).
Concezione dell’economia
In questo settore più ancora che in altri si manifesta una articolazione, se non proprio una spaccatura, fra l’ala «estremista» e l’ala «moderata» del movimento «verde» . Per la prima, tutto il sistema attuale di produzione e di distribuzione delle merci è radicalmente incompatibile con l’ecosistema: lo sfruttamento illimitato delle risorse minerarie e petrolifere, l’inquinamento progressivo dell’aria e delle acque, il consumismo eretto a indice di civilizzazione appartengono ad una logica suicida che va capovolta in direzione di un ritorno a tecnologie «dolci» e a modi di vita sobri ed essenziali. L’ala «moderata» ritiene, invece, che lo sviluppo attuale delle industrie e dei trasporti vada «corretto», non frenato: la tecnica, infatti, si è dimostrata sinora in grado di attenuare, se non addirittura di eliminare, i risvolti negativi e controproducenti delle sue invenzioni. Al di là di queste pur notevoli differenze, comunque, tutto il movimento «verde» è accomunato dalla convinzione che il profitto privato non possa essere il motore dell’attività economica, ma debba essere subordinato alla qualità della vita collettiva cui concorrono non solo i beni materiali tradizionali ma anche nuovi beni immateriali.
Concezione dell’educazione
Un’educazione ambientalista parte, indubbiamente, dall’adeguata valorizzazione delle scienze naturali (fisica, chimica e biologia) come base informativa per un più consapevole rapporto con l’ecosistema: ma integra questo sapere scientifico con la memoria di ciò che storicamente l’uomo ha fatto della natura alla luce delle sue convinzioni filosofiche, dei suoi progetti politici, delle sue abilità tecniche. Nessuna separazione, dunque, fra cultura scientifica e cultura umanistica. Ma, al di là delle discipline singole, è fondamentale uno sguardo globale che sappia cogliere la complessità dell’esperienza umana. Le strutture scolastiche attuali tendono alla frammentazione della specializzazione che, sino a un certo punto, è inevitabile; è altrettanto necessario sviluppare «l’attitudine a contestualizzare e globalizzare i saperi», favorire «l’emergenza di un pensiero “ecologizzante”, nel senso che esso situa ogni evento, informazione o conoscenza in una relazione di inseparabilità con il suo ambiente culturale, sociale, economico, politico e, beninteso, naturale. Esso non si limita a situare un evento nel suo contesto, ma incita anche a vedere come modifichi questo contesto o come lo chiarisca altrimenti» .
Tutto questo riguarda la sfera cognitiva. Nella prospettiva pedagogica «verde», però, l’istruzione dell’intelligenza è funzionale all’acquisizione di un atteggiamento pratico nei confronti degli altri e della natura: «imparare a vivere richiede non solo conoscenze, ma la trasformazione, nel proprio essere mentale, della conoscenza acquisita in sapienza e l’incorporazione di questa sapienza per la propria vita. Eliot affermava: «Qual è la conoscenza che noi perdiamo nell’informazione e qual è la sapienza (wisdom) che perdiamo nella conoscenza?». Si tratta, nell’educazione, di trasformare le informazioni in conoscenza, di trasformare la conoscenza in sapienza» . Ed uno dei frutti più preziosi di questa sapienza è la pace, intesa non solo come superamento dei conflitti (interindividuali e internazionali) mediante strategie non - violente, ma anche come crescita in positivo del benessere collettivo.
Concezione della religione
Confrontandosi con la religione, l’ecologia trova ragioni di dissenso e affinità significative. Le ragioni di dissenso riguardano specialmente quella prospettiva biblica (per lo meno nell’interpretazione teologica tradizionale) che vede nell’uomo il figlio prediletto di Dio, chiamato a «dominare» sugli animali e sulle piante, sui monti e sui mari, su quell’ecosistema che sarebbe stato creato appunto in vista del benessere umano. Rispetto a questo antropocentrismo teologico e alle sue molteplici conseguenze etiche, il pensiero ambientalista rivendica il valore intrinseco dell’universo e sottolinea la «sacralità» naturale di ciò che circonda e alimenta l’esistenza umana: non può avere Dio per padre chi non riconosca la Terra come madre . Ma quando la coscienza religiosa ha saputo liberarsi (per l’intuizione profetica di alcuni mistici come Francesco d’Assisi o per una più corretta lettura dei testi biblici) dai pregiudizi antropocentrici, sono emerse notevoli sintonie con la coscienza ecologica: lo stupore contemplativo davanti alla bellezza del creato, la sobrietà degli stili di vita, la solidarietà con i popoli danneggiati dagli effetti negativi delle guerre, dell’industrializzazione, della manipolazione del patrimonio genetico delle piante e della globalizzazione dominata da una o da poche superpotenze mondiali.
Capitolo nono
L’ANARCHISMO
Il nucleo generatore
Qual è l’idea centrale da cui scaturisce l’anarchismo e che ne attraversa, come un filo rosso, le vicende storiche e gli adattamenti teorici? La risposta più pertinente è talmente ovvia da sembrare tautologica: l’anarchia, l’assenza cioè di un principio di dominio sugli uomini . L’originalità dell’anarchia – rispetto a teorie politiche, come il liberalismo o il comunismo, con cui presenta numerose affinità – mi sembra consistere nella sua radicalità: se l’uomo nasce libero e tale deve restare, non si può ammettere (neppure parzialmente, neppure provvisoriamente) alcuna limitazione a tale libertà. Né ideologica (assoluti religiosi o scientifici) né politica (qualsivoglia forma di Stato) né giuridica (leggi eteronome che impongono o vietano) né economica (qualsivoglia forma di proprietà che sottometta un altro essere umano): in una formula provocatoriamente sloganistica «né dio né padroni» . Insomma, per riprendere due recenti saggi sull’anarchismo, esso si basa su «un’idea esagerata di libertà» e non riconosce altra «sovranità» che non sia quella dell’«individuo» : perciò spesso l’anarchismo è designato anche come «libertarismo» .
Concezione dell’uomo
Poiché ci stiamo interrogando sulle teorie politiche del Novecento, cercheremo la risposta su testi anarchici che abbiano una valenza esplicitamente «politica» e che rientrino – almeno parzialmente – nell’ambito cronologico del nostro secolo .
In termini generali potremmo dire che l’uomo dell’anarchismo è il soggetto così come lo ha rappresentato la modernità occidentale: un individuo che nasce – dunque: che è per natura – libero e uguale agli altri. È un’antropologia intrisa – come si vede – dei «sacri princìpi dell’89» (la Rivoluzione francese), quei princìpi – libertà, uguaglianza, fraternità – da cui hanno avuto origine anche liberalismo e socialismo. Rispetto a queste due teorie politiche, però, l’anarchismo si presenta come interpretazione «originale e diversa»: «Mentre per il socialismo il valore principale di riferimento è l’uguaglianza e per il liberalismo la libertà, per l’anarchismo tali valori sono inscindibili, e non possono che darsi contemporaneamente. Non vi può essere libertà senza uguaglianza né uguaglianza senza libertà» . Si potrebbe aggiungere che a loro volta libertà e uguaglianza possono sussistere sono in connessione dialettica con la «fraternità»: «L’insofferenza dell’oppressione, il desiderio d’essere libero e di poter espandere la propria personalità in tutta la sua potenza, non basta a fare un anarchico. Quell’aspirazione all’illimitata libertà, se non è contemperata dall’amore degli uomini e dal desiderio che tutti gli altri abbiano uguale libertà, può fare dei ribelli, ma non basta a fare degli anarchici: dei ribelli che, se basta loro la forza, si trasformano subito in sfruttatori e tiranni» . Anarchici di primo piano, come Pietro Kropotkin (morto nel 1921), si sono sforzati di dare al principio della «solidarietà» una fondazione scientifico-antropologica cercando di dimostrare che «i fattori che avevano permesso l’evoluzione delle specie, la sopravvivenza di alcune e la scomparsa di altre» – contrariamente a quanto sostenuto da Darwin – erano «i meccanismi di naturale collaborazione e aiuto reciproco» .
Concezione della società
Per quanto riguarda sia l’analisi della società capitalistica sia il progetto di una società futura il pensiero anarchico non si differenzia sostanzialmente dalla prospettiva e dal linguaggio marxista . Si tratta di mutare «radicalmente» lo «stato di cose» vigente e, «poiché tutti questi mali derivano dalla lotta fra gli uomini, dalla ricerca del benessere fatta da ciascuno per conto suo e contro tutti, noi vogliamo rimediarvi sostituendo all’odio l’amore, alla concorrenza la solidarietà, alla ricerca esclusiva del proprio benessere la cooperazione fraterna per il benessere di tutti, all’oppressione ed all’imposizione la libertà, alla menzogna religiosa e pseudo-scientifica la verità» .
Ma se l’obiettivo ultimo dell’anarchismo coincide, sostanzialmente, con la meta finale del comunismo, un abisso separa le tue ideologie dal punto di vista del «metodo» per arrivarvi. E non si tratta di un particolare insignificante: «Ingannandosi sulla scelta dei mezzi, non si raggiungerebbe il fine propostosi, ma un altro, magari opposto, che sarebbe conseguenza naturale, necessaria, dei mezzi adoperati. Chi si mette in cammino e sbaglia strada, non va dove vuole, ma dove lo porta la strada percorsa» .
In termini generali si può dire che l’anima di questa necessaria rivoluzione non può essere la violenza, dev’essere la persuasione: se «si tratta di cambiare il modo di vivere, in società», questo «non è cosa che si possa imporre colla forza, ma deve sorgere dalla coscienza illuminata di ciascuno e attuarsi mediante il libero consentimento di tutti» .
Poiché quest’opera di convincimento non può limitarsi al piano intellettuale o pedagogico, deve passare dall’esperienza concreta della lotta «politica» ed «economica»: proprio i risultati, piccoli o grandi, che si andranno ottenendo sul campo potranno allargare il consenso dalle minoranze più coscienti ed attive alle maggioranze inizialmente abbrutite dall’ignoranza e immobilizzate dalla paura.
Concezione dello Stato
Lotta politica significa «lotta contro il governo e l’insieme di quegl’individui che detengono il potere, comunque acquistato, di far legge e imporla ai governati, cioè al pubblico» . Abbiamo visto che per il marxismo si passa dalla società borghese-capitalistica alla società comunista attraverso una fase di transizione, denominata tecnicamente «socialista», in cui lo Stato sarebbe mantenuto in vita da un governo dittatoriale espresso dal proletariato e ad esso finalizzato. Su questo punto l’opposizione con il marxismo è totale: «Non si può abolire il privilegio e stabilire solidamente e definitivamente la libertà e l’uguaglianza sociale se non abolendo il governo, non questo o quel governo, ma l’istituzione stessa del governo» .
Si deve piuttosto passare per una fase di attuazione parziale, a macchie di leopardo, delle idee anarchiche: «Se la massa del popolo non risponderà all’appello nostro, noi dovremo […] attuare da noi quanto più potremo delle nostre idee, e non riconoscere il nuovo governo, e mantener viva la resistenza, e far sì che le località dove le nostre idee saranno simpaticamente accolte si costituiscano in comunanze anarchiche, respingano ogni ingerenza governativa, stabiliscano libere relazioni con le altre località e pretendano di vivere a modo loro» . È la ripresa, sostanzialmente, del progetto di Proudhon del «federalismo politico» inteso «quale sistema di organizzazione decentrata del potere, nel quale l’autorità salga dal basso verso l’alto e nel quale ciascun gruppo, federandosi agli altri, mantenga più autonomia di quanta sia costretto a cederne» .
Concezione dell’economia
La lotta contro il governo è lotta contro lo strumento istituzionale con cui i padroni perpetuano la loro supremazia sui lavoratori: la lotta politica è dunque il punto culminante della lotta economica. A questo livello preliminare , il fine ultimo è una società in cui il popolo attui il «suo diritto primordiale» all’uso dei mezzi di produzione «espropriando i detentori del suolo e di tutte le ricchezze sociali e mettendo quello e queste a disposizione di tutti» .
In concreto, questa disponibilità delle ricchezze a favore di tutti può assumere due diverse strutturazioni: quella «collettivista» e quella «comunista». Per «collettivismo» si intende qualcosa di simile a ciò che, nell’Ottocento, Proudhon aveva denominato «mutualismo economico» («sistema di produzione e di scambio nel quale i lavoratori siano proprietari dei mezzi di produzione, produttori e consumatori al tempo stesso; e nel quale le unità produttive autogestite, federandosi tra di loro, applichino il principio della cooperazione, pur all’interno di una economia di mercato» ); altri autori non meno autorevoli ritengono che il «collettivismo» lasci ancora «i germi della rivalità e dell’odio» e propendono per il «comunismo» (inteso come quel regime in cui «tutti lavorano e tutti usufruiscono del lavoro di tutti» ).
Collettivismo o comunismo che sia, a questa meta si arriverà per tappe, cercando di strappare ai capitalisti sempre di più: «Lottando, dunque, resistendo contro i padroni, i lavoratori possono impedire, fino a un certo punto, che le loro condizioni peggiorino, e anche ottenere dei miglioramenti reali. E la storia del movimento operaio ha già dimostrato questa verità» . Ben sapendo, comunque, che la corda si può tirare sino a un certo punto, oltre il quale «i padroni farebbero appello al governo e cercherebbero di costringere gli operai a restare nella loro posizione di schiavi salariati» : ben sapendo, insomma, che si tratta di una «lotta continua, pacifica o violenta secondo le circostanze» e che, come si accennava sopra, i contrasti economici non potranno non spostarsi sul piano politico. In altri termini – e così si torna all’idea centrale dell’anarchismo – la lotta contro i proprietari per conquistare il massimo di «benessere» per tutti non può non sfociare nella lotta contro il governo per conquistare il massimo di «libertà» per tutti.
Concezione dell’educazione
Tra i «padri» ispiratori dell’anarchismo pedagogico va senz’altro annoverato il celebre romanziere russo Lev Tolstoj, promotore della scuola sperimentale di Jasnaja Poljana. A suo parere, la scuola ha sempre preteso di educare, ma «l’educazione, concepita nel senso di riuscire a rendere gli uomini simili a modelli prestabiliti, è sterile, ingiusta e impossibile» . «E allora – si chiede lo stesso pensatore nel 1862 – che cosa sarà la scuola se non dovrà educare? Consisterà nell’azione consapevole, profonda e il più possibile varia di un individuo su un altro individuo al fine di trasmettergli le proprie conoscenze (instruction), senza obbligare lo studente, né direttamente con la forza, né indirettamente con diplomazia, a recepire quello che noi vogliamo. La scuola, forse, non sarà la scuola, come noi la intendiamo adesso, con le lavagne, con i banchi, con i maestri o i professori in cattedra; essa sarà forse la galleria, il teatro, la biblioteca, il museo, la conversazione; l’arco delle scienze, i programmi saranno dappertutto diversi» .
Eredi della lezione tolstojana vengono considerati i più recenti sostenitori della «descolarizzazione» della società. All’interno di una critica più generale alla istituzionalizzazione dei bisogni umani, essi ritengono necessario demistificare le illusioni su cui si basa l’accrescimento – dispendioso quanto controproducente – dei sistemi scolastici nei vari Paesi: l’illusione che la scolarizzazione implichi maggiore giustizia («ma, invece di eguagliare le possibilità, il sistema scolastico ne ha semplicemente monopolizzato la distribuzione») e che «la maggior parte dell’apprendimento derivi dall’insegnamento» (mentre, al contrario, le cose essenziali le impariamo fuori dalla e nonostante la scuola). Il nuovo presupposto, in chiave positiva, sarà che «l’educazione per tutti è l’educazione da parte di tutti. A una cultura popolare non si può arrivare con l’arruolamento forzoso di un’istituzione specializzata, ma solo mobilitando l’intera popolazione» .
Concezione della religione
Nell’anarchismo il rifiuto della religione, sia come atteggiamento individuale che come istituzione ecclesiastica, è originariamente costitutivo. Dio è quasi il simbolo di ogni potere assoluto che schiaccia l’uomo o, per lo meno, ne condiziona fortemente la libertà di pensiero e di iniziativa. In nome di Dio, inoltre, le chiese di ogni tempo hanno costruito sistemi di controllo e di repressione sociale.
Tuttavia, proprio perché il pluralismo caratterizza intrinsecamente il movimento anarchico, anche su questo punto è possibile distinguere delle posizioni variegate: si va dall’anti-teismo di un Bakunin (per il quale l’ateismo sarebbe troppo poco: bisogna combattere attivamente l’idea di un padrone celeste, fondamento ideologico dei padroni terrestri) all’agnosticismo di un Berneri (acuto critico dell’ateismo materialistico), sino al cristianesimo sdogmatizzato e declericalizzato di un Tolstoj (per il quale l’essenziale della fede è l’amore universale ). Lo stesso Nietzsche, d’altronde, non aveva definito Cristo un «santo anarchico» .
Capitolo decimo
PROSPETTIVE PER IL XXI SECOLO
Oltre le ideologie del Novecento
Le prospettive ideologiche che abbiamo sinteticamente richiamato nei capitoli precedenti possono essere solo parzialmente estratte – o astratte – dal concreto fluire storico: in realtà, infatti, esse si sono continuamente trasformate sia scontrandosi con avvenimenti imprevisti sia contaminandosi a vicenda . Spesso, però, le formule sono rimaste cristallizzate: il rifiuto diffuso nei confronti delle teorie politiche, forse, più comprensibilmente, è stanchezza per categorie ormai sclerotizzate. Mutate le prospettive e, in parte, le cose stesse, non sono venuti meno né gli interrogativi di fondo né la necessità di rispondervi: si cercano parole inedite per dire pensieri inediti.
In questa doverosa ricerca gli approcci ideologici elaborati nel XX secolo, spesso ad esplicitazione e sviluppo di orientamenti del XIX, devono essere considerati degli strumenti di lavoro da sostituire – se necessario – senza rimpianti , ma con gradualità. E – direbbe Aristotele – con una sorta di gratitudine per quello che ci hanno fatto capire con le loro intuizioni corrette e con i loro stessi errori. Se li ripercorriamo con sguardo sereno, infatti, scopriamo che quasi tutti hanno evidenziato temi da ritenere, in qualche modo, irreversibilmente acquisiti– a dispetto delle orribili smentite pratiche – dalla coscienza contemporanea: l’intangibilità della libertà individuale, la comune appartenenza al genere umano, la necessità di un’istanza normativa al di sopra degli interessi particolari… Il problema che ci sta davanti è di tentare sempre nuove riletture di questi temi in modo da evitarne ogni indebita assolutizzazione, di contestualizzarli, di renderli reciprocamente compatibili: in qualche modo di rifondarli.
Un’ipotesi di percorso
a) Essere responsabili
Il recupero delle intuizioni più valide delle ideologie politiche è possibile intorno ad alcuni perni che s’impongano per la loro evidenza potenzialmente universale: «potenzialmente» perché, di fatto, ci saranno sempre degli individui che, in buona o in cattiva fede, negheranno anche i princìpi etici più convincenti . La «responsabilità» dell’uomo – nei confronti dell’umanità, anche futura, e della stessa natura circostante – costituisce una di queste categorie fondanti che, almeno attualmente, sembrano poter raccogliere un consenso abbastanza vasto. Essere responsabili significa essere in grado di «rispondere»: rispondere di qualcosa. La cultura dell’umanità è abilissima nel mascherare i responsabili. Guerre, epidemie, carestie, sperequazioni socio-economiche strutturali, dittature militari, inquinamenti atmosferici: i mass-media documentano e denunziano in tempi sempre più rapidi, le responsabilità si occultano dietro meccanismi sempre più anonimi. Ma i movimenti più caratteristici degli ultimi decenni (studentesco, femminista, ambientalista, pacifista…) si sforzano di penetrare queste cappe di disinformazione e di mistificazione per tentare di sezionare la catena delle responsabilità storiche, di individuare i volti ed i nomi di chi provoca disagi e ingiustizie; di tradurre – insomma – il «peccato del mondo» in reati specifici, determinati. In questa ricerca di responsabili precisi, concreti, si va scoprendo che sono individuabili vari livelli di corresponsabilità e che le istituzioni democratiche rendono anche i cittadini «normali» correi, almeno per omissione, delle decisioni politiche che – a prima vista – sembrano le più decisive per il corso della storia.
Rispondere di qualcuno o di qualcosa presuppone, però, la capacità di rispondere a un appello, a una sfida: la radice dell’irresponsabilità è la sordità alla voce delle persone e delle cose . Chi non ha occhi per contemplare una distesa erbosa né orecchie per ascoltare i richiami degli uccelli – chi non percepisce la densità variegata dell’essere – non può avvertire l’impegno etico di difendere i prati o la fauna attorno ad un lago: i progetti operativi possono scaturire solo da esperienze contemplative . Il XX secolo ha separato spietatamente la prassi dalla poesia : ma proprio l’esaurimento dell’entusiasmo ideo-logico induce a riscoprire l’ineliminabilità della fondazione onto-logica .
b) L’ambiguità costitutiva dell’essere umano
Docilità all’essere, dunque. Questa «capacità di lasciarsi ammaestrare» da ciò che è implica una realistica concezione antropologica, tesa a focalizzare l’oggettiva condizione di quell’uomo a partire dal quale e in vista del quale ha senso l’impresa politica . Già nel XVII secolo Pascal aveva osservato la tendenza dei filosofi a misconoscere la peculiarità dell’essere umano ora esaltandone unilateralmente la «grandezza» ora evidenziandone, altrettanto unilateralmente, la «miseria». Nei tre secoli successivi l’oscillazione fra illusione utopica e disperazione si è perpetuata con conseguenze ugualmente disastrose per i progetti politici: da qui la necessità di riscoprire «la semplice verità, né esaltante né sconfortante, che “l’uomo autentico” è già sempre esistito con tutti i suoi estremi, nella grandezza e nella meschinità, nella felicità e nel tormento, nell’innocenza e nella colpa; in breve, in tutta l’ambiguità che gli è connaturata. Volerla eliminare significa voler eliminare l’uomo e la sua incommensurabile libertà. […] Può darsi talvolta che una sorta di univocità, nel bene come nel male, abbia la meglio sull’ambiguità di fondo dell’uomo: in tal caso assisteremo alla comparsa dei santi e dei mostri; ma ritenere di poter avere gli uni senza la possibilità degli altri, e anche senza la loro occasionale realtà, è un’illusione» .
Se questo è l’uomo, la questione politica centrale si profila come strategia per preservare quest’essere debole e potente, generoso e accaparratore, innanzitutto da sé stesso: dalla sua crescente capacità di distruggere la «casa» (òikos) in cui vive e respira e, conseguentemente, la «matria» in cui si innervano le sue radici esistenziali . Detto in altri termini, si tratta di porre dei limiti al potere umano senza schiacciarlo: e, poiché solo l’uomo può porre efficacemente tali limiti, si tratta di inventare delle istituzioni in grado di garantire l’autocontrollo.
Il compito ha almeno una duplice faccia. Per un verso, infatti, è un compito d’ingegneria giuridica: produrre norme che autoritativamente stabiliscano i limiti invalicabili della tecnica (non certo della scienza che, di per sé, è sconfinata) e dello sfruttamento delle risorse naturali. Ma la creatività giuridica presuppone un orientamento intellettuale congruo: pensiamo noi stessi come esseri finiti che possono sperimentare l’onnipotenza solo nella forma dell’autodistruzione? Le ideologie politiche del Novecento che abbiamo succintamente evocato sono, più o meno marcatamente, antropocentriche: la scommessa politica che ci attende esige una rivoluzione culturale che liberi gli umanesimi dall’illusione antropocentrica senza farli capovolgere in dottrine riduzioniste, dimentiche dell’originalità specifica dell’essere umano rispetto alla natura che lo circonda . In questa direzione vanno gli inviti ad «oltrepassare l’alternativa: seguire o guidare la natura. Ognuna di queste due affermazioni è ugualmente ben fondata, ugualmente necessaria, ugualmente insufficiente. L’idea complessa che sta al fondo della prassi è […] di seguire la natura che ci guida, di guidare la natura che noi seguiamo, di seguire nello stesso tempo in cui si è seguiti, di guidare nello stesso tempo in cui si è guidati (Gaston Richard). Abbiamo visto che più controlliamo la natura, più essa ci controlla. Ciò significa che più dobbiamo controllare la natura, più essa ci deve controllare»
c) L’irriducibile pluralità dei poteri effettivi
L’attenzione politica si qualifica in quanto, pur sapendo penetrare i fondamenti ontologici e antropologici, si rivolge con pazienza analitica alla concretezza dei processi sociali in cui a decidere non è l’uomo in generale, bensì una pluralità di individui, gruppi e centri di potere in un intreccio dialettico inestricabile di azioni e reazioni . È questa pluralità di forze brulicanti che rivela l’ingenuità di tutti i tentativi ideologici di catturare in schemi definitivi l’incessante divenire della storia e che esige, dunque, la convergenza delle più diverse metodologie epistemiche (dalla psicoanalisi alla sociologia, dalla pedagogia all’economia, dall’etnologia alle scienze dell’amministrazione…) verso una sintesi sempre provvisoria e sempre proiettata verso il futuro.
La pluralità caratterizza solo il nostro approccio conoscitivo alla società o non anche le strategie di governo? La rinunzia – sul piano interpretativo – all’ideologia onnicomprensiva suggerisce – sul piano operativo – di scartare soluzioni monocratiche centralizzate e di preferire forme di federalismo organizzativo e di decentramento gestionale . Da questa angolazione la scommessa strategica consisterà nel coniugare le ragioni della sintesi con le istanze centrifughe, altrettanto legittime, delle autonomie.
Nessuna «microfisica del potere» potrà comunque eliminare la differenza fra cittadini prevalentemente attivi (nella difesa dei propri privilegi o degli interessi delle fasce più deboli) e cittadini prevalentemente passivi: in direzioni contrastanti, o talora semplicemente diverse, le «masse» sono trascinate da leaders, élites, «avanguardie». Bisogna dunque scegliere: le maggioranze silenziose vanno coinvolte o con metodi propagandistici in forza di slogan ad effetto e spot pubblicitari (con l’inevitabile rischio di improvvise cadute di consenso e di repentini voltafaccia) oppure attraverso il contagio graduale ad opera di minoranze critiche che senza disprezzo altezzoso, ma senza illusioni, mantengano aperti gli spazi dell’informazione, della riflessione e del dibattito.
Detto in altri termini, il futuro della città dipende, radicalmente, da una rinascita della «politica» intesa non più come monopolio dei partiti, ma più ampiamente come l’attività collettiva (di partiti, ma anche di movimenti, sindacati, gruppi di opinione, associazioni, cooperative, centri sociali, scuole di formazione…) tesa a modificare istituzionalmente la società . Istituzionalmente: dunque in maniera non occasionale e provvisoria, ma programmatica e duratura. Se regalo un chilo di pasta alla famiglia povera dell’angolo, faccio beneficenza; se fondo una banca che presta denaro a bassissimo tasso d’interesse a cittadini nullatenenti che vogliono avviare una piccola attività produttiva o commerciale , faccio politica. Dove due o tre si riuniscono in nome del bene comune, là c’è politica.
d) Coniugare realismo ed utopia
Da quanto sinora richiamato, risulta con chiarezza che la politica presuppone un realismo severo: non si può non partire dalla conoscenza più obiettiva e razionale possibile degli individui, dei loro rapporti sociali, delle dinamiche storiche (così come è consentita dall’analisi scientifica e dalla riflessione filosofica) . Ma questo realismo non può fermarsi a metà. Troppo spesso, infatti, esso si ferma alla constatazione empirica di come vanno le cose abitualmente, senza chiedersi quali potenzialità siano nascoste – nascoste ma reali – nelle situazioni attuali. Saper decifrare questo ancora-possibile, fare spazio affinché esso possa emergere e diventare storia, senza cedere alla stanchezza ed al cinismo: questo è il compito «poetico» degli utopisti autentici che, dunque, alla lunga, risultano più realisti dei cosiddetti realisti. Se Nelson Mandela fosse stato semi-realista, non avrebbe progettato e contribuito a realizzare un Paese senza aparthied: senza illudersi minimamente sui rapporti di forza effettivi a favore dei «bianchi», non ha sottovalutato neppure le risorse dei suoi connazionali «neri». Come lui, milioni di persone hanno lavorato per far progredire – anche solo di qualche metro – la loro «utopia ragionevole» , convinti che rinunziare a qualsiasi «nucleo utopico» equivarrebbe ad «immiserire il realismo politico al rango di una mera apologia dell’esistente e di un’ideologia dell’adattamento a ogni costo a quelle condizioni che è l’ignavia stessa a produrre. È la radicalità stessa delle sfide che caratterizzano la nostra epoca a conferire inevitabilmente carattere utopico a un pensiero che lavori all’identificazione di strategie di risposta. Ma, consapevole della sua situazione storica, stretto tra anarchia dei possibili e tirannia dell’impossibile, questo pensiero saprà riscattarsi da una condizione d’impotenza solo coniugando pragmatismo e utopia» .
e) Democratizzare la conoscenza
Di fronte a queste prospettive ci si sente sproporzionatamente piccoli. Ma questa consapevolezza obbiettiva dei propri limiti non può scadere ad alibi per le proprie pigrizie. Dobbiamo restituire a noi stessi e agli altri il senso delle nostre possibilità, delle nostre risorse e – appunto – delle nostre responsabilità. Rivedere la propria immagine interiore: non siamo solo od essenzialmente rotelle di un meccanismo anonimo, ma soggetti capaci di analisi e di invenzione critica. Gramsci spiegava agli operai e ai contadini che tutti gli uomini siamo degli intellettuali, anche se non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali. Per Rosa Luxemburg «non si può esprimere offesa più grossolana, ingiuria peggiore contro i lavoratori che affermando che le discussioni teoriche sono faccenda esclusiva degli “accademici”. […] Tutta la forza del moderno movimento operaio riposa sulla conoscenza teorica» . Ai nostri giorni Edgar Morin ha insistito sulla necessità di superare la «dualità fra coloro che sanno – la cui conoscenza è però frazionata, incapace di contestualizzare e di globalizzare – e coloro che non dispongono delle conoscenze, cioè l’insieme dei cittadini», sulla necessità dunque di «una democratizzazione della conoscenza» . E già nel medioevo Bernardo di Chiaravalle – convinto assertore (oltre che di idee poco condivisibili) dell’importanza di amare il prossimo istruendolo e sollecitandolo a pensare – sintetizzava la missione educativa dell’intellettuale in un testo che oggi potrebbe tradursi grosso modo così:
«Ci sono quelli che studiano solo per essere informati su tutto: e questa è curiosità.
Ci sono quelli che studiano per brillare in società e far colpo su chi li ascolta: e questo è narcisismo.
Ci sono quelli che studiano per far soldi con la loro cultura a spese degli altri: e questa è bassa speculazione.
Ci sono quelli che studiano per capire che senso ha stare al mondo e come rapportarsi agli altri: e questa è saggezza.
Ci sono quelli che studiano per capire il mondo, per renderlo più vivibile e più bello, per liberare i poveri e gli schiavi: e questo è amore gratuito» .
f) Controllare i rappresentanti
Per quanto informati e coinvolti, i cittadini possono fronteggiare la complessità dei problemi che si impongono quotidianamente all’evidenza? Chi risponde affermativamente lotta per una democrazia quanto più diretta possibile, esercitata mediante assemblee (locali) e/o referendum (nazionali). Le nuove tecnologie telematiche stanno aprendo possibilità inedite in questa direzione: tra non molto l’elettore medio potrebbe esprimere il proprio voto su una determinata proposta legislativa mediante l’uso di una semplicissima scheda elettronica da inserire in appositi terminali diffusi sul territorio europeo.
Tuttavia l’esperienza ha già dimostrato che, quando si esce dall’ambito delle questioni più elementari e si entra in ambiti più specialistici, scatta nei cittadini una sorta di autoesonero: «Se ci chiedete cosa pensiamo del divorzio o dell’eutanasia ci sentiamo in grado di esprimere un’opinione e accorriamo in massa alle urne, ma se ci chiedete di pronunciarci sugli effetti collaterali di un determinato farmaco, o sull’opportunità di introdurre il sanscrito fra le materie da insegnare all’università, preferiamo astenerci e lasciare che decidano i medici o i filologi – o i parlamentari dopo aver studiato e discusso in apposite commissioni specializzate». Nasce così il meccanismo della rappresentanza (in generale) e del ricorso ai tecnici (in particolare). Che in questa tendenza vi siano dei gravi rischi è palese: si può radicare una mentalità della delega per cui anche la questione se fare guerra a un altro Paese, o se predisporre strutture di accoglienza per gli immigrati dal Terzo e Quarto Mondo, diventa una mera questione tecnica da affidare alla decisione di chi è «competente» (?!) in materia.
D’altra parte è altrettanto vero che solo in un lontano e improbabile futuro la «gente» avrà l’attrezzatura culturale e la serenità d’animo per assumere decisioni o realmente troppo tecniche o in contrasto con ciò che ritiene immediatamente utile e comodo, nonostante le possibili ricadute disastrose su persone remote nello spazio (di altri continenti, ad esempio) o nel tempo (di generazioni successive, ad esempio).
Che fare, allora?
Dobbiamo scegliere fra «la via dell’allargamento e del potenziamento della democrazia» o «un’evoluzione in senso tecnocratico dei nostri sistemi politici»? Forse, «più proficuamente la questione andrebbe posta in termini non di antitesi manichea tra democrazia e tecnocrazia ma di compossibilità e coniugazione pragmatica» . Si scelgano pure i «saggi», i «custodi» o i «tecnici», purché non si firmi mai una delega in bianco. Quando la coscienza europea ha stabilito, con Rousseau, la sovranità popolare ed ha determinato la democrazia come governo del popolo, col popolo e per il popolo, ha segnato una conquista irreversibile per l’intera umanità. Le modalità di questa democrazia vanno continuamente ridiscusse e perfezionate, ma il nucleo essenziale non può essere compromesso. Un regime di «rappresentanti» che non dovessero essere sottoposti – per un lasso di tempo eccessivo o addirittura per sempre – al controllo, alla verifica e alla valutazione della «base» non sarebbe giustificato da nessun altro vantaggio economico o ecologico . Questa non sarebbe la sostituzione del conflitto tra le ideologie con un paradiso tecnocratico: sarebbe l’avvento micidiale di un’ideologia (mascherata da non - ideologia) molto più disumana di quelle che si vorrebbero abbandonare .
PER CONTINUARE LA RICERCA
Nel corso della panoramica sinottica sulle principali ideologie del Novecento abbiamo citato fonti, documenti e studi cui si potrà attingere per approfondimenti. Completiamo adesso le indicazioni bibliografiche suggerendo un possibile, graduale itinerario di studio:
a) Innanzitutto andrebbero lette le voci ideologia; liberalismo, liberismo; comunismo, marxismo; socialismo, socialdemocrazia; fascismo, corporativismo; cristianesimo sociale; anarchismo in un buon manuale propedeutico come AA.VV., Stato e società. Dizionario di educazione civica, a cura di R. Marchese e B. Mancini, La Nuova Italia, Firenze 1998.
b) Si potrebbe poi passare ad un testo più impegnativo dal punto di vista scientifico e consultare le voci ideologia (M. Stoppino); liberalismo (N. Matteucci), liberismo (S. Ricossa); comunismo (G. Bedeschi), marxismo (N. Bobbio); socialismo (C. Pianciola), liberalsocialismo (N. Tranfaglia), socialdemocrazia (D. Settembrini); fascismo (E. Saccomani), corporativismo (L. Incisa); pensiero sociale cristiano (G. Baget-Bozzo), personalismo (D. Zolo); conservatorismo (T. Bonazzi); anarchismo (G. M. Bravo) in N. BOBBIO - N. MATTEUCCI - G. PASQUINO (dir.), Dizionario di politica, UTET, Torino 1983.
c) Nella Enciclopedia del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1975, sono d’indubbio interesse le voci ideologia (G. Burdeau), liberalismo (F. A. von Hayek), comunismo (A. B. Ulam), fascismo (R. De Felice), ecologia (l’aggiornamento della voce, nel vol. VIII, a cura di U. Colombo – G. Lanzavecchia- S. Lanzavecchia- D. Mazzonis), anarchismo (G. Woodcock); in Enciclopedia delle scienze sociali, a cura del medesimo Istituto (Roma 1991), vedi ideologia (K. Lenk), liberalismo (G. Bedeschi), comunismo (M. L. Salvadori), fascismo (R. Vivarelli - E. Saccomani), conservatorismo (N. O’ Sullivan), anarchismo (G. Woodcock).
d) Del fondamentale manuale G.H. SABINE, Storia delle dottrine politiche, Etas Kompass, Milano 1967 (ma la prima edizione americana risale al 1937) interessano il Novecento le pp. 538-714. Molto utili, come aggiornamento sul Novecento, le pagine della Storia delle idee politiche economiche e sociali, diretta da L. Firpo, UTET, Torino 1989, vol. VI, dedicate a Il liberalismo moderno (V. Zanone, pp. 191 – 248), Il pensiero comunista dopo Lenin (M. L. Salvadori, pp. 329 – 457), I totalitarismi (M. Giovona, pp. 249 – 327), La democrazia nel pensiero cattolico del Novecento (P. Scoppola, pp. 109 – 190).
e) Per quanto riguarda le singole prospettive ideologiche, oltre ai testi citati in ogni capitolo, si possono leggere con profitto:
• per il liberalismo: G. DE RUGGIERO, Storia del liberalismo europeo, Feltrinelli, Milano 1962;
• per il comunismo e la socialdemocrazia: G.D.H. COLE, Storia del pensiero socialista, Laterza, Bari 1967;
• per il fascismo: E. NOLTE, I tre volti del fascismo, Mondadori, Milano 1978; S. G. PAYNE, Il fascismo 1914-1945. Origini, storia e declino delle dittature che si sono imposte fra le due guerre, Newton & Compton, Roma 1999; R. EATWELL, Fascismo. Verso un modello generale, Pellicani, Roma 1999; S. LUPO, Il Fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2000;
• per la dottrina sociale cattolica: R. BERTHOUZOZ - R. PAPINI - R. SUGRANYES DE FRANCH, Etica, economia e sviluppo. L’insegnamento dei vescovi dei cinque continenti, Dehoniane, Bologna 1994;
• per il conservatorismo: C. MONGARDINI – M. L. MANISCALCO ZARETTI, Il pensiero conservatore. Interpretazioni, giustificazioni, critiche, Franco Angeli, Milano 1999;
• per l’ambientalismo: F. LIVORSI, Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffrè, Milano 2000;
• per l’anarchismo: G. WOODCOCK, L’anarchia, Feltrinelli, Milano 1966;
• per il dibattito attuale su neo-liberismo, socialdemocrazia tradizionale e nuove ipotesi intermedie: A. GIDDENS, La terza via, Il Saggiatore, Milano 1999.
f) Grazie agli orientamenti preliminari offerti da dizionari, manuali e monografie è possibile, ed auspicabile, un contatto diretto con i «classici». Oltre quelli citati nei diversi capitoli:
• per il liberalismo: F. A. VON HAYEK, Individualismo: quello vero e quello falso, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997;
• per il comunismo: R. LUXEMBURG, Il programma di Spartaco, Manifestolibri, Roma 1995;
• per la socialdemocrazia: BRANDT - KREISKY - PALME, Quale socialismo per l’Europa, Lerici, Cosenza 1976;
• per il fascismo: A. ROCCO, La dottrina politica del fascismo, Sansoni, Firenze 1925;
• per il pensiero sociale cristiano: J. MARITAIN, Umanesimo integrale, Borla, Roma 1980;
• per il conservatorismo: G. GALLI (cur.), I controrivoluzionari. Antologia degli scritti politici, Il Mulino, Bologna 1981;
• per l’ambientalismo: G. BATESON, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000;
• per l’anarchismo: M. BAKUNIN, Stato e anarchia, Feltrinelli, Milano 1966.
INDICE
Quasi una presentazione 1
Capitolo primo
Crisi delle ideologie?
Una «definizione» di ideologia 2
Una prima questione: sono, di fatto, le ideologie in crisi? 2
Una seconda questione: la crisi (parziale) delle ideologie è un evento positivo? 4
Capitolo secondo
Il liberalismo
Il nucleo generatore 6
Concezione dell’uomo 6
Concezione della società 6
Concezione dello Stato 7
Concezione dell’economia 7
Concezione dell’educazione 8
Concezione della religione 9
Capitolo terzo
Il comunismo
Il nucleo generatore 10
Concezione dell’uomo 10
Concezione della società 10
Concezione dello Stato 11
Concezione dell’economia 12
Concezione dell’educazione 12
Concezione della religione 13
Capitolo quarto
La socialdemocrazia
Il nucleo generatore 14
Concezione dell’uomo 14
Concezione della società 15
Concezione dello Stato 15
Concezione dell’economia 16
Concezione dell’educazione 16
Concezione della religione 17
Capitolo quinto
Il fascismo
Il nucleo generatore 18
Concezione dell’uomo 18
Concezione della società 19
Concezione dello Stato 19
Concezione dell’economia 20
Concezione dell’educazione 21
Concezione della religione 21
Capitolo sesto
La dottrina sociale cattolica
Il nucleo generatore 23
Concezione dell’uomo 23
Concezione della società 24
Concezione dello Stato 24
Concezione dell’economia 25
Concezione dell’educazione 26
Concezione della religione 26
Capitolo settimo
Il conservatorismo
Il nucleo generatore 28
Concezione dell’uomo 28
Concezione della società 28
Concezione dello Stato 29
Concezione dell’economia 29
Concezione dell’educazione 30
Concezione della religione 30
Capitolo ottavo
L’ambientalismo
Il nucleo generatore 31
Concezione dell’uomo 31
Concezione della società 32
Concezione dello Stato 32
Concezione dell’economia 33
Concezione dell’educazione 33
Concezione della religione 34
Capitolo nono
L’anarchismo
Il nucleo generatore 35
Concezione dell’uomo 35
Concezione della società 36
Concezione dello Stato 37
Concezione dell’economia 37
Concezione dell’educazione 38
Concezione della religione 39
Quadro sinottico 40
Capitolo decimo
Prospettive per il XXI secolo
Oltre le ideologie del Novecento 44
Un’ipotesi di percorso 44
a) Essere responsabili 44
b) L’ambiguità costitutiva dell’essere umano 46
c) L’irriducibile pluralità dei poteri effettivi 47
d) Coniugare realismo ed utopia 48
e) Democratizzare la conoscenza 49
f) Controllare i rappresentanti 50
Per continuare la ricerca 52
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