“Horeb. Tracce di spiritualità”
2010, 1 (anno XIX, n. 55)
Recensione di Gregorio Battaglia del libro di
A. Cavadi, Il Dio dei mafiosi, San Paolo, 2009.
Il libro nasce da un’urgenza tutta interiore di coinvolgere tante persone di buona volontà nei propri interrogativi, ma anche nel proprio cammino di discernimento. Nel ‘post-scriptum’ l’A. esprime la propria convinzione che “ogni riflessione intellettuale, se fondata su esperienze reali e se organizzata con logica, contribuisca alla trasformazione dei dati di fatto” (p. 220).
Tutto prende spunto da quel grande interrogativo, che non può lasciare nell’indifferenza ogni persona, che ama pensare, ma che, soprattutto, è aperta a un’esperienza di fede. L’interrogativo è questo: come è possibile che tutto il fenomeno mafioso del Sud e, quindi, Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona arrivino a mischiare con molta naturalezza spietatezza criminale e atteggiamenti religiosi? Cosa spinge un mafioso a nutrirsi di segni religiosi, ad avere tra le mani ‘santini’, bibbie, crocifissi o come Filippo Marchese ad invocare la benedizione di Dio prima di torturare o di sciogliere una vittima nell’acido?
Questo interrogativo porta da sé a chiedersi se per caso il modo di vivere la religiosità al Sud non offra il terreno adatto perché il mafioso non trovi alcuna contraddizione tra atteggiamenti religiosi e scelte criminali. In tante feste patronali del Sud la presenza del ‘mafioso’ che comanda un territorio è accettata, rispettata, senza provocare nei fedeli e nello stesso parroco crisi di coscienza o, comunque, una certa inquietudine.
L’intento dell’A. è ben precisato a p. 13, dove egli si propone di “sottoporre a processo l’idea che i mafiosi - da una parte - e i cattolici – dall’altra – hanno di Dio, del Cristo, della Chiesa, della dogmatica”. Si tratta del tentativo di poter cogliere nella prassi e nelle dichiarazioni di alcuni pentiti elementi, che possano essere compresi come parte di una visione religiosa, anche se piegata ad un interesse di natura criminale.
L’A. ci tiene a precisare che “se cerchiamo una teologia consapevole e meditata, organicamente articolata, difficilmente la troveremo. (…) Se, al contrario, cerchiamo una teologia irriflessa e approssimativa, anche se interiorizzata e praticata, non dobbiamo faticare eccessivamente” (pp. 98 – 99). Così, dopo aver passato in rassegna i tratti salienti che formano il mondo culturale della mafia, egli passa ad analizzare quelli che possono costituire i punti essenziali del ‘dire religioso’ dei mafiosi: onnipotenza senza tenerezza; trascendenza senza immanenza; sovranità accessibile solo per mediazione; ortodossia tribale; una religiosità coloristica e senza Dio.
Quest’opera di riflessione sul mondo religioso dei ‘mafiosi’, se da una parte può aiutare a comprendere meglio l’apparente insensibilità di molti di essi, allo stesso tempo può servire da stimolo a specchiarsi in quel mondo, per meglio discernere pratiche e devozioni, che, invece di portare al Vangelo, possono offrire un terreno culturale per alimentare la schizofrenia mafiosa.
L’ultima parte del libro è tutta in chiave propositiva, cercando di delineare alcune piste, su cui impegnare la riflessione teologica e la vita stessa di chi vuol recuperare il vero senso del proprio credere nel Vangelo. Questi alcuni punti di questo lavoro di discernimento e di approfondimento teologico:
- recuperare il limite di ogni discorso su Dio, ben sapendo che il suo volto è sempre al di là di ogni nostro ‘dire’;
- riannunciare un Cristo come sorgente di liberazione, recuperando il senso della sua regalità così come viene proclamata nei vangeli: a cavallo di un’asina e nell’iscrizione sopra la croce!
- proporre una Chiesa che recuperi il valore della sinodalità e della diaconia.
- Per il nostro A. la teologia deve tradursi “in una spiritualità fedele al Vangelo (…): una spiritualità dell’incarnazione, della sobrietà, della sovversione e della nonviolenza” (pp. 188 – 189). Sono piste di riflessione che posono impegnare tante comunità cristiane alle prese con il fenomeno della mafia, ma soprattutto con una religiosità tradizionale, che in tante sue espressioni rituali sembra aver smarrito il suo contatto con la forza liberante del Vangelo”.
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