“Le voci del villaggio”
Giugno 2010
In questa rubrica abbiamo iniziato a riflettere sulla felicità: è possibile? A che condizioni? Riconoscevo che sono domande che esigono risposte complesse. E mai del tutto complete. Nell’anticipare che si tratta di una pietanza dai tanti ingredienti, provavo a mettere…sul piatto l’ingrediente di base: la consapevolezza. Se non so pensare, se agisco irriflessivamente, se non esamino la mia vita, mi condanno ad una superficialità incompatibile con qualsiasi forma di felicità. Insomma: se vogliamo aprire la porta alla felicità, dobbiamo ogni tanto imparare a fare silenzio fuori e dentro di noi. Per riflettere, per cercare di capire. Per scoprire il senso di ciò che siamo e di ciò che facciamo.
Con molta gioia ho iniziato a ricevere i primi messaggi da lettori di questa rubrica che vogliono riflettere insieme a me, insieme a noi. Annamaria Pensato, di Palermo, mi scrive: “Felicità, per me è una sensazione che dura tanto quanto un flash; preferirei chiamarla serenità, che si raggiunge attraverso delle scelte meditate, nel non cagionare danno ad altri, nel contare nelle proprie forze o quanto meno nel chiedere aiuto ed essere nello stesso tempo pronti ad aiutare gli altri; nel gioire delle belle cose che ti arrivano, nel saper soffrire delle brutte e riflettere, se - in questo caso - abbiamo delle responsabilità; insomma, nel prendersi la responsabilità della propria vita, nel poter rispondere affermativamente alla domanda: ho fatto tutto quello che era nelle mie possibilità? Cesare Pavese intitolò il suo diario Il mestiere di vivere, io lo chiamerei Il coraggio di vivere “.
Questa lettera sprona anche me ad aggiungere altri ingredienti alla ricetta della felicità (sia pure intesa, nella versione minimale suggerita da Annamaria, come serenità intensa e duratura): la salute fisica, la sicurezza economica e l’amicizia. Ovviamente non parlo di una salute fisica del tutto assente da acciacchi curabili; né di una sicurezza economica del tutto esente dal rischio occasionale di non arrivare a fine mese; né di una vita zeppa di amicizie (anzi, Aristotele, notava che le amicizie autentiche, a cominciare dal proprio partner, implicano attenzione all’altro e non possono essere numerose). Uno potrebbe obiettare: ma questi tre fattori di cui parli - salute, sicurezza economica e amicizie - non dipendono soltanto da noi! E’ vero: e per questo la felicità in terra è fragile, precaria. Bisogna dirla tutta: salute, sicurezza economica e amicizie dipendono un po’ anche da noi. Per questo si può essere infelici senza colpa, ma felici non lo si è senza meriti. Chi non cura il proprio corpo, non si impegna in un lavoro, non si apre alle relazioni amicali non sarà mai ‘costretto’ dalla vita ad essere una persona equilibrata e realizzata: insomma, per quanto possibile, ‘felice’. Certo: evitare gli abusi, essere diligenti nel lavoro, mostrarsi disponibili all’aiuto reciproco non ci assicurano, automaticamente, la felicità. C’è qualcosa di sfuggente rispetto alla nostra responsabilità: è questione di ‘caso’, di ‘fortuna’ o di ‘provvidenza’ (a seconda della nostra ‘filosofia’ generale). Potremmo dire, per usare un’espressione che forse possiamo condividere un po’ tutti, che la felicità è un dono della vita: come tutti i ‘doni’ non c’è una ricetta infallibile per ‘meritarli’, ma ci sono molti modi per impedire che arrivino sino a noi. O per rovinarli una volta che ci abbiano sorpresi e toccati.
Augusto Cavadi
acavadi@alice.it
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