“Centonove” 23.4.2010
COPPIE CONTROCORRENTI.
PROTESTANTI E ANTIFASCISTI: STORIA DI DONATO E MARIA, DUE VOLTE DISSIDENTI
Come viveva a Palermo, durante il ventennio fascista, una famiglia due volte dissidente (perché antifascista e perché protestante)? Una narratrice non molto conosciuta (Giosi Lippolis) lo ha raccontato in un libro (Getta il tuo pane sulle acque, Empiria, Roma 2000) che avrebbe meritato ben altra attenzione ; che sinora è circolato quasi clandestinamente di mano in mano e che, a dieci anni esatti dalla pubblicazione, va almeno ricordato. L’interesse del racconto - a parte lo stile gradevole e il tono sottilmente ironico, nonostante la drammaticità di alcuni episodi - dipende essenzialmente dall’originalità di Donato e Maria, i due genitori dell’autrice che, giovanissimi emigrati italiani negli Stati Uniti d’ America, decidono di sposarsi e di andare letteralmente contro corrente: di riattraversare l’oceano per tornare nel Paese di origine come apostoli di una chiesa evangelica ‘indipendente’. La scelta cade nell’anno sbagliato o, almeno, più impegnativo: il 1922. I due, infatti, consapevoli di venire a trovarsi minoranza religiosa (rispetto alla chiesa cattolica), si ritrovano anche - e ancor più pericolosamente - minoranza politica (rispetto all’incipiente regime fascista). Comincia dunque un doloroso vagabondaggio per il Meridione che li fa approdare, infine, nel 1927, nel capoluogo siciliano. Sanno benissimo che neppure qui avranno vita facile (” ‘In America tutti gli italiani si fanno protestanti, eccetto i mafiosi. Tra mafiosi e protestanti, voi chi preferite?’. Lui, Liborio, preferiva i mafiosi”), ma aprono una “chiesa-fondaco” e nell’ampio appartamento adiacente, in via dei Marmorai, ospitano personaggi di ogni genere in cerca di un pasto caldo, di un tetto o solo di un orecchio che li ascolti con rispetto. Il quadro della mentalità siciliana dell’epoca è dipinto con pennellate pudiche, ma realistiche. Gli ospiti maschi si adattano, in genere, alle abitudini della casa:
“colazione, pulizia delle loro camere, passeggiata, pranzo e lunghe sedute pomeridiane a confidarsi, a studiare grammatica e a leggere la Bibbia”. Non così le donne che, meno numerose, “costituivano tuttavia un problema più difficile che gli uomini. Innanzitutto non volevano sedersi, né ascoltare le letture o imparare l’alfabeto, occupazioni riservate ai maschi. Il problema più grave era procurargli l’indipendenza” perché “senza un uomo la donna non aveva consistenza. Donne sole? In un appartamento tutto per sé, senza mariti? Pazzesco, sa lei i pettegolezzi, le calunnie, e alla fine, ineluttabile, il disonore?”. Quasi che un conservatorismo atavico non fosse sufficiente, la legislazione fascista precipitava come pioggia sul bagnato: “Alle donne erano proibiti i pantaloni; gli sposi dovevano dare nomi italiani ai figli; ed era concesso un premio di lire cinquecento per ogni figlio che una donna producesse dopo il quinto”. Rievocazioni come questa di Giosi Lippolis ci ricordano che solo sessanta anni fa eravamo molto più simili agli immigrati attuali (islamici o induisti) che alle generazioni dei nostri giorni. E possono anche ammonirci su alcune scelte, personali e politiche, riguardo a chi bussa ai confini della nostra patria. Infatti, ai nostri concittadini palermitani in procinto di partire per l’America, la zia Ciccina - personaggio davvero memorabile - “pronosticava insulti morali e fisici: ‘Ci sarà gente che vi vorrà più ignoranti di quanto già siete e quello che sapete ve lo svaluterà e intanto magari se lo approprierà…’ e poi: ‘Più bruni siete e più sarete malvisti, come dei diavoli o degli sporcaccioni, e anche temuti, superstiziosamente, ma di questo non vi renderete conto giacché, essendo una minoranza, sarete voi ad avere paura, ingenuamente, e vergognosamente’; e poi: ‘Avrete delusioni innumerevoli, che qui nel vostro paese superereste alla meglio ma che lì potrebbero stroncarvi, semplicemente perché dall’America non ve lo aspettavate…’ “.
Augusto Cavadi