“Centonove”
5 . 3. 2010
QUEL FILOSOFO DI UN BOSS
La notizia può risuonare sorprendente, ma solo per chi ha un’idea erronea della mafia: Masino Spadaro, ex “re della Kalsa” di Palermo, ergastolano di 72 anni, si è laureato al carcere di Spoleto. Non solo: si è laureato in filosofia. Non solo: si è laureato in filosofia con una tesi su “La nonviolenza e i fondamenti della religione in Gandhi”.
Se valutata con i parametri abituali - che prevedono l’immagine folcloristica del mafioso come pecoraio corredato da coppola storta e lupara - la notizia si presta a battute ironiche più o meno divertenti: dopo decenni di filosofi che si comportano da mafiosi (qualsiasi studente di un ateneo meridionale può redigere una lunga lista di nomi !), finalmente qualche mafioso che si atteggia a filosofo…Per non sottolineare una nota di attualità: dopo la fine esternazione di Berlusconi (”Strangolerei tutti quelli che scrivono di mafia”), che ha forse dissuaso qualche intellettuale a occuparsi di mafia, non ci resta che rallegrarci se qualche mafioso si occupa di filosofia. Così, almeno, abbiamo qualche speranza che non si spezzi definitivamente ogni dialogo fra mondo della cultura e mondo della criminalità organizzata…
Ma se abbiamo un’idea un po’ più corretta della mafia - quale forma associativa di cui alcuni criminali si servono per acquisire e mantenere ruoli sociali di preminenza - la notizia non può stupirci. Anzi, essa conferma tre o quattro tesi che da molti anni fanno parte del patrimonio comune di quanti studiano il fenomeno con oggettività scientifica.
La prima tesi che mi pare confermata è che il mafioso non è necessariamente di estrazione proletaria né, tanto meno, di intelligenza mediocre. Il sociologo Franchetti, già nell’Ottocento, aveva descritto i mafiosi siciliani come “facinorosi della classe media”: dunque, come tradurranno ai nostri giorni Mario Mineo e Umberto Santino, come criminali o appartenenti alla borghesia o desiderosi di appartenervi. Ma per raggiungere e difendere questa collocazione sociale privilegiata il mafioso deve possedere un discreto grado di istruzione o, almeno, di intelligenza che gli consenta di valutare la competenza dei professionisti, tecnici, consulenti…di cui si circonda. Non è un caso che un erede del patriarca di Riesi, Di Cristina, fosse laureato in legge o che i figli di Riina studiassero, anche durante la latitanza, in scuole di prestigio. Lo stesso don Masino Spadaro ha dato altre volte prove di arguto senso dell’umorismo: per esempio quando, cercando di sfuggire dalla barca strapiena di sigarette di contrabbando ad una retata della Finanza, fu raggiunto ad un tavolino del bar di Villa Igea ancora inzuppato d’acqua (”Sto prendendo un aperitivo. E’ forse vietato dalla legge?”) o quando ebbe a dichiarare ai giudici di essere “l’avvocato Agnelli della Kalsa: do da lavorare ai miei concittadini come la Fiat a Torino”). Ecco perché, quando nel corso di un’intervista radiofonica mi fu chiesto come vestissero i mafiosi e soprattutto che faccia avessero, mi fu spontaneo rispondere con una frase che risultò paradossale: “Vestono come tutti gli altri cittadini, solo un po’ più ricercatamente. Se poi si vuole avere un’idea del loro volto, basta assistere ad una seduta qualsiasi dell’Assemblea regionale siciliana…”.
C’è modo e modo di studiare. Si può usare lo studio come mero strumento di elevazione sociale e di operatività professionale; oppure come risposta a un’esigenza interiore di chiarezza mentale e di orientamento esistenziale. Ci si aspetterebbe che mafiosi e persone del loro giro studiassero solo discipline ‘utili’ (come l’economia aziendale o le tecniche militari o il diritto penale); invece neppure il mafioso rinunzia a coltivare una propria consapevolezza e a ricercare il senso di ciò che vive. Così, gratuitamente: solo perché ha voglia di capire. Ci si dimentica troppo spesso - e qui siamo ad una seconda tesi - che il mafioso, esattamente come il magistrato impegnato in prima linea contro la mafia o come il cittadino ‘medio’ un po’ qualunquista che si illude di poter tenersi equidistante da mafia e antimafia, è prima di tutto una persona umana: nessun reato, nessun merito professionale, nessuna vigliaccheria morale ci definiscono esaurientemente. Ognuno di noi è una donna o un uomo: punto. Poi è anche una donna o un uomo che persegue progetti di predominio o di liberazione, di morte o di cura, di pace o di guerra. Questa la ragione radicale per cui non riesco a stupirmi quando leggo che nel covo di Pietro Aglieri si trovano testi della filosofa tedesca Edith Stein e in quello di Giuseppe Falsone traduzioni dal greco di dialoghi platonici.
Ma quando si comincia a leggere si entra in un mare senza piste prefissate e senza barriere rigide. Ecco perché sarebbe davvero da inesperti supporre che un prete non debba mai leggere Marx o un marxista non debba mai leggere Nietzsche o un mafioso non debba mai leggere Gandhi. In questo caso l’avvocato Carlo Catuogno spiega il titolo della tesi di laurea alla facoltà di Lettere e filosofia di Perugia, prescelto dal suo assistito, come segno di un ravvedimento morale (”Spadaro ha iniziato un percorso che ne ha fatto una persona diversa”); ma anche se questa conversione etica non avesse avuto luogo, perché meravigliarsi? Forse che, se fosse rimasto un protagonista della “industria della violenza”, non avrebbe avuto motivo di studiare la teoria della nonviolenza (esattamente per le stesse ragioni per cui anche quelli che non sono convinti che ogni uomo sia lupo per l’altro uomo possono decidere di approfondire le idee di Hobbes)? Qui mi pare che trovi conferma una terza tesi (non proprio scontata nell’immaginario collettivo): il mondo dei mafiosi è uno spicchio del mondo sociale e, come questo, non si lascia ridurre a letture univoche. E’ un mondo plurimo dove c’è un po’ di tutto: esattamente come nel resto della società. Quando parla un politico o un imprenditore di successo si può separare, con un colpo di spada netto, ciò che viene affermato con convinzione da ciò che si dichiara per secondi fini? Ritengo di no. Per questo anche nelle scelte di un mafioso nessuno - forse neppure lui - sa veramente cosa ci sia di autentico o cosa di falso. Quanto sinceramente è interessato Don Masino a Gandhi? Esattamente quanto Luciano Liggio a Socrate: “Penso che dobbiamo cercare l’equilibrio fra la materialità e la spiritualità che c’è in ognuno di noi. Vivere tutti i momenti in forma integrale, non rinnegando mai il male che c’è in noi e non esaltando mai il bene che c’è in noi. Ho letto Socrate., uno che ammiro perché come me non ha scritto niente. Ho letto i classici. E poi storia, filosofia, pedagogia. Ho letto Dickens, Dostoevskij, Croce. Mi sono occupato per due anni di sociologia. Ma mi ha deluso. Dà la diagnosi dei mali sociali ma non li cura”.
Augusto Cavadi
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