“Centonove” 29.1.2010
MARHABA, MABSUTHA?
OVVERO, COME STAI?
Ci sono libri straordinari perché raccontano storie eccezionali con un linguaggio innovativo; altri, invece, deludono perché raccontano trame fantasiose in maniera letterariamente pretenziosa. Talvolta, però, capita di imbattersi in volumi straordinari perché raccontano, con tono ordinario, storie ordinarie: racconti di vita vissuta in cui è facile riconoscersi, specchiarsi. Ed è allora come se il risultato raggiunto dall’autore - ricomporre il filo nascosto della propria breve esistenza - diventasse un risultato condiviso da noi lettori: quasi che anche noi, ripercorrendo le tappe di quella biografia, ci trovassimo a recuperare la trama sfilacciata, perduta, della nostra stessa vita. “Marhaba, mabsutha?” (Midgard editrice, Perugia 2009, pp. 138, euro 14), di Fiorenza Morighi, è uno di questi libri straordinariamente ordinari. In esso infatti l’autrice ripercorre le tappe salienti della sua intensa, ma ‘normale’, esistenza: gli anni della formazione cattolico-borghese, l’impatto con il ‘68, un matrimonio contratto pur di evadere lecitamente dalla prigione familiare d’origine, un divorzio per evadere dalla prigione familiare d’elezione…E soprattutto l’impegno, di insegnante e di attivista, per un mondo in cui la globalizzazione cessi di essere la maschera dell’occidentalizzazione del globo e diventi davvero planetarizzazione delle idee e delle persone, non soltanto delle merci e delle finanze.
L’autobiografia di questa vivace, luminosa, sessantenne - incredibilmente giovanile - può essere letta anche come lenta ma inarrestabile emancipazione da due Istituzioni che ne hanno segnato, in una maniera inestricabilmente positiva e negativa, la vita: la chiesa cattolica e la scuola.
Quanto alla prima, pur non negando il proprio debito verso associazioni cattoliche come la FUCI che l’hanno sensibilizzata alle grandi tematiche della pace e della giustizia, Fiorenza non può perdonarle la sessuofobia: “sembrava che l’unico grande peccato umano fosse quello riconducibile alla sfera sessuale, procreazione a parte” (p. 13). Come ripete spesso il teologo-psicanalista tedesco Eugen Drewermann, la chiesa cattolica ruba amore e restituisce angoscia. E per la giovane studentessa fu traumatico scoprire che condizionamenti molto simili subiva “l’amica-compagna di banco”, condizionata dalla “presenza di un padre-padrone sedicente comunista che vegliava costantemente su moglie e figlie”: “sapevo che la Chiesa aveva messo all’indice vari testi di letteratura e per i cattolici lettori era peccato avvicinarsi ad essi. Chi lo avesse fatto doveva emendarsi con la Confessione. Non immaginavo però che anche i comunisti, visti da me come l’opposto dei religiosi, vietassero le stesse cose. Nella mia casa cattolica c’erano tra quelli all’indice “Decameron” e “Satyricon”. Noi li leggemmo subito ambedue. Non mi confessai per questo. Sia pur timidamente e per temi alterni il senso critico cominciava a spuntare, ma quanto ci impiegò per crescere!” (p. 17). Erano gli anni in cui Palmiro Togliatti doveva nascondere la relazione extra-matrimoniale scandalosa con Nilde Iotti: ma anche nel XXI secolo, tra gli ultimi eredi del comunismo marxista, non mancano bigotti che non si sono preoccupati di risolvere i nodi psichici del rapporto con la propria e con l’altrui corporeità.
Si potrebbe obiettare che la stessa Bibbia, letta direttamente ed integralmente, avrebbe potuto offrire alla ragazza di buona famiglia l’antidoto al veleno sessuofobico di fattura clericale. Ma, per quanto strano possa oggi sembrare, sino al 1965 (anno di chiusura del Concilio vaticano II), neppure questa possibilità veniva concessa al fedele ‘medio’: la “lettura individuale” - diretta, senza la mediazione della chiesa gerarchica - delle Sacre Scritture era proibita o, per lo meno, “sconsigliata” (p. 42). Permetterla, o addirittura incoraggiarla, avrebbe significato abbattere - su una questione decisiva - la differenza fra cattolicesimo e protestantesimo.
L’altra istituzione verso cui la Maurighi sa di essere creditrice, oltre che in una certa misura debitrice, è la scuola intesa nell’accezione complessiva: il sistema formativo liceale e universitario che ella ha attraversato sino alla laurea per poi farvi presto ritorno come insegnante. Un sistema d’istruzione che avrebbe potuto rimediare, almeno in una certa misura, ai danni e alle lacune della formazione cattolica ricevuta in famiglia e in parrocchia, ma che - invece - si è rivelato altrettanto dannoso e lacunoso. L’incontro negli anni universitari con un coetaneo esule palestinese, il dolce e affascinante Abdul, segna una tappa decisiva nell’evoluzione culturale e spirituale di Fiorenza: egli le squarcia il velo dell’ignoranza storica e politica, aprendole prospettive inedite e sconfinate sul mondo. Le racconta di un popolo che, dopo duemila anni, si vede esiliato dalla sua terra perché sarebbero tornati gli abitanti primigeni (”Pensai che se fossero tornati gli Umbri e avessero occupato il giardino e la casa di mio nonno con la ‘legge del ritorno’, non mi avrebbe fatto per niente piacere”, p. 35); di una città - Gerusalemme - santa non solo per i cristiani, ma altrettanto per gli ebrei e per i musulmani (”Incredibile! In diciotto anni nessuno mi aveva fatto riflettere sulle basi comuni delle tre religioni”, p. 32); di solenni risoluzioni dell’ONU per una pace giusta e durevole in Medio Oriente che venivano totalmente disattese non solo da parte di gruppi estremistici palestinesi ma anche dai governi ufficiali israeliani…Insieme al pacifismo, Fiorenza scopre i problemi delle sperequazioni strutturali fra le economie del Nord e del Sud del mondo; ma anche l’innaturale subordinazione della donna al maschio (”in un Paese dove ancora veniva scusato il delitto d’onore, la violenza sulla moglie era un fatto privato e lo stupro un atto che violava il comune senso del pudore più o meno come masturbarsi per strada”, p. 56). Tutto ciò ha delle incidenze precise anche nella sua storia privata: come reggere il rapporto con un marito, sposato precocemente, che non ne condivide l’evoluzione emancipatrice? Nei capi di imputazione che le vengono rivolti dalla famiglia dell’ex-coniuge si disegna, quasi paradossalmente, un’immagine elogiativa: “contro di me giacevano tra le scartoffie curiali accuse infamanti, con tanto di testimonianze di parenti serpenti e di nemici vari: comunista era il primo capo d’accusa, che se ne portava dietro tanti altri davvero disonorevoli, come ad esempio frequentatrice dell’Associazione cinese, arrivista femminista, agitatrice propagandista, distributrice di manifestini ai crocicchi delle strade”. Forse - aggiunge ironicamente l’autrice - se avessi battuto le strade, non si sarebbe tentato di dichiarare canonicamente nullo il mio matrimonio e mi sarei salvata dall’infamia: “una innocua Maddalena da salvare contro la lapidazione e da ricondurre all’ovile, ma un’atea comunista era ben peggio! Ammorbava l’aria di tutti. Occorreva cancellarla come moglie” (p. 76).
La Maurighi di oggi è una donna con i suoi travagli, ma felice di vivere e impegnata in progetti, anche scolastici, di cui evoca nella seconda parte del libro esperienze significative e prospettive operative. Come una rediviva principessa Sheherazade de “Le mille e una notte”, prova a raccontarsi convinta che “sono le storie a proteggerci dalla morte: (…) fino a che possiamo trasferire il mondo in racconti, narrando anche le nostre peggiori avventure, siamo ancora vivi” (p. 37). Non sarebbe male se il suo esempio fosse seguito da altri, specie se arrivati al giro di boa della navigazione. Con una sola avvertenza: se dovesse capitare che un editore voglia pubblicare le nostre carte (il cui valore prescinde dalla possibile fruizione pubblica), dovremmo chiedere ad un esperto di scrittura una revisione preliminare che ne limi sviste e inesattezze. E’ un rammarico che, in questo caso, tale revisione non sia stata effettuata, oscurando un po’ la preziosità - che ovviamente rimane intatta - dei contenuti.
Augusto Cavadi
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