Mensile “Espero” - Febbraio 2010
PRESENTATO A TERMINI IMERESE L’ULTIMO LIBRO DI AUGUSTO CAVADI
Giorno 15 gennaio scorso, presso la libreria caffè Punto 52 a Termini Imerese, il consueto gruppo di lettura - in una edizione un po’ rivisitata - ha discusso con l’autore Augusto Cavadi e il teologo Vitaliano Cirrincione del libro Il Dio dei Mafiosi, edizioni San Paolo.
Chi vi ha partecipato ha potuto godere, in uno stile schietto e diretto, dell’interpretazione autentica dell’opera, ma di questo momento non si vuole qui provare a dare un resoconto, rispettandone la dimensione spazio-temporale dell’hinc et nunc. Si vuole, invece, cogliere l’occasione per parlare ancora e riflettere su un tema piuttosto inconsueto (così come trattato nel libro “Il Dio dei mafiosi”), partendo dall’opera stessa.
Dire, come usualmente accade, se si tratti di un bel libro o meno non pare che sia il giusto metro: un libro di questo tipo non si misura con il metro della “bellezza” ma con quello dell’utilità. Il libro è uno strumento valido e non privo di aspetti rivoluzionari, che finisce con l’arricchire preziosamente la cassetta degli strumenti di tutti coloro che vogliono meglio comprendere la fenomenologia mafiosa e che si occupano di pedagogia della legalità.
Come precisa lo stesso Autore in una nota tecnica, il libro si presta ad una lettura verticale tramite “finestre di approfondimento”; ma può rinvenirsi anche un piano di lettura orizzontale (testimoniato da una corposa bibliografia) nel quale possono individuarsi numerosi omaggi e richiami di opere e autori che prima e insieme all’Autore hanno trattato l’argomento, emergendo, dalle pagine del libro, una “coralità” sinfonica, ricca di voci, pensieri, esperienze, aneddoti, espressione di una significativa e positiva solidarietà.
L’analisi è svolta con il rigore logico del filosofo e la competenza del teologo, e il risultato ne guadagna in termini di linearità e semplicità: che cosa intendiamo per mafia? Qual è la visione mafiosa del mondo? Esiste una teologia dei mafiosi? Quale potrebbe essere una teologia “oggettivamente” antimafiosa? Sono queste le domande che Augusto Cavadi si pone, e a cui offre possibili risposte che, pur nella loro essenzialità, sono ricche di declinazioni. Si parla di registri tetri e drammatici contrapposti a quelli della speranza, della solarità; di visioni solipsistiche contrapposte a quelle conviviali e della fratellanza; di strutture gerarchiche e autoritarie contrapposte a formazioni democratiche ed egualitarie; del familismo amorale, della trascendenza senza immanenza, di sovranità accessibile solo per mediazione, della redenzione per soddisfazione vicaria, di ortodossia “tribale”. Riprendendo affermazioni dell’Autore, si potrebbe dire che il suo intento sia quello di contribuire – anche se in misura limitata – a un processo di riforma teologica e istituzionale che renda sempre meno possibile che una società a stragrande maggioranza cattolica partorisca Cosa nostra e stidde, ndrangheta, camorra e Sacra corona unita.
Rimangono di competenza del lettore alcune possibili domande, e tra queste: a chi si rivolge il libro? Perché l’esperienza mafiosa fa propria una teologia? E’ giustificato proporre una revisione della teologia cattolico-mediterranea (così la definisce l’Autore) sol perché presenta tratti preoccupantemente simili a quella mafiosa? Alla prima domanda ritengo che si possa rispondere: ai mafiosi, perché potrebbero prendere coscienza delle implicazioni contenute nel loro modello culturale; agli abitanti della “zona grigia”, che potrebbero prendere spunti per decidere in maniera più netta da che parte stare, appellandosi ad una spiritualità incarnata, trascendente ma anche immanente; ai teologi ufficiali e ai preti di quartiere che coraggiosamente potrebbero trarre spunto, o semplice occasione, per una riflessione inedita sulle conseguenze di lungo effetto, anche psicologiche, dei propri catechismi. Alla seconda domanda si potrebbe rispondere dicendo che i mafiosi sono uomini, e in quanto tali non sfuggono al bisogno di relazione con il divino, secondo il proprio modello culturale. Ma si potrebbe anche aggiungere che la necessità coincide con il bisogno strumentale di approvazione sociale: anche il fenomeno mafioso ha bisogno dei propri sostenitori, di consenso. E tra le immagini della “subcultura” in cui la mafia attinge la propria acqua ve ne sono alcune che si prestano particolarmente ad uno scambio osmotico, ad una relazione di asservimento di tipo parassitario: quelle prodotte da certi temi della teologica cattolica tradizionale. Alla terza domanda potrebbe rispondersi che se la teologia cattolica non potesse attingere altrimenti e altrettanto autorevolmente dalle proprie origini, non sarebbe certo giusto sottoporsi ad una rivisitazione sol perché strumentalmente depredata da una possibile teologia mafiosa. Ma se è possibile, come ritiene l’Autore, che il pensiero cristiano sia portatore di altri modi di essere, allora si potrebbe spezzare la catena secondo cui il “vangelo risulta tradotto e interpretato in una cultura – quella meridionale – che, a sua volta, è stata tradotta e interpretata dal sistema di potere mafioso. Perchè se è vero che la teologia cattolica non è mafiogena, è altrettanto vero che essa contribuisce alla concreta configurazione di questa mafia, contribuendo alla strutturazione del particolare contesto culturale nel quale la mafia si è di fatto costituita, e dal quale mutua parassitariamente simboli, credenze e pratiche”.
Ovviamente non poche cose potrebbero ancora essere dette, ma per concludere una senz’altro…con l’Autore: “sono convito che pensare sia una forma d’azione in se stessa, nonché una condizione imprescindibile per dare nerbo e direzione a tutte le altre forme d’azione, individuali e collettive”.
Antonio Silvio Salanitri
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