Domani si festeggia l’Epifania. Secondo la leggenda biblica, l’incontro fra il bambino-messia d’Israele e tre ‘laici’ asiatici alla ricerca di luci interpretative dell’esistenza (da qualsiasi parte provenienti).
Come piccolo segno di augurio ai “venticinque lettori” di questo blog, incollo il mio breve contributo al volume - appena uscito - di Autori vari (a cura di Giorgio Palumbo), “Custodire la laicità nel tempo del pluralismo”, Franco Angeli, Milano 2009, pp. 49 - 54.
Augusto Cavadi
La laicità come pre-giudiziale
Provo a inanellare, in sequenza, alcune riflessioni suggeritemi da questo dibattito così intenso, ma anche così pacato. Anche se si tratta di osservazioni indipendenti l’una dall’altra - e dunque tali che la insostenibilità di una di esse non comporta, necessariamente, a catena, il naufragio teorico delle altre - è possibile leggerle all’interno di una prospettiva unitaria: la laicità, intesa in una certa maniera, non è una posizione determinata fra altre posizioni determinate, bensì la condizione di possibilità pre-giudiziale di ogni presa di posizione particolare che sia meritevole di critica. La laicità come orizzonte: uno scenario che ammette una varietà di ruoli, di toni, di tagli argomentativi, incompatibile solo nei confronti di atteggiamenti dogmatici, fanatici, incapaci di dubbio e perciò di autocritica e di conversione. Laicità come quell’amore incondizionato per la verità che si rivela non tanto nel tener alcuni punti ‘fermi’ come irremovibili, quanto piuttosto nel ritenere le proprie certezze - anche le più legittime, anche le più sacre - come passibili, potenzialmente, di falsificazione.
a) La funzione sociale dei filosofi
La prima considerazione suggeritami da questo dibattito è che esso conferma un’idea di filosofia abbastanza estranea agli ambienti accademici: la filosofia non soprattutto, né tanto meno esclusivamente, come esegesi o ermeneutica dei testi della tradizione filosofica, bensì anche - e prioritariamente - come esame critico delle questioni esistenziali e politiche che il pubblico dei non-addetti-ai-lavori avverte come più rilevanti in un determinato momento storico. Che all’incontro sulla laicità siano stati presenti docenti e studenti di varie facoltà universitarie, al di là degli steccati specialistici abituali, è un segno eloquente di quanto i filosofi di professione possano servire la comunità sociale, senza farsi asservire e senza asservire la intrinseca libertà dell’impresa teoretica. Non è questa la sede per approfondire questo aspetto dell’attività speculativa, ma voglio consentirmi almeno una citazione da Karl Popper che potrebbe valere come titolo di un seminario a parte: “i veri problemi filosofici hanno sempre la loro radice nei problemi urgenti, che si trovano in campi che non appartengono alla filosofia”.
La laicità è avvertita, dunque, come una di queste tematiche ‘urgenti’ su cui interrogare non solo teologi e sociologi, storici e giuristi, politologi e politici, ma anche filosofi: se ce ne sono ancora equidistanti dal presenzialismo televisivo (in cui possono spacciarsi per specialisti di tutto) come dall’autoreferenzialità filologica (di chi non ha nulla da dire ad interlocutori che non possano seguire le loro dotte citazioni in greco o in tedesco). Nel triennio 2006 - 2008 ho avuto la fortuna di dedicarmi, grazie ad un dottorato di ricerca presso questa facoltà, ad approfondire il senso della Philosophische praxis di Gerd Achenbach e, più in generale, del movimento internazionale delle pratiche filosofiche, arrivando alla conclusione che, secondo i promotori di questa nuova declinazione della filosofia di sempre, urgente non è tanto aprire degli studi professionali in cui mettere a servizio dell’intelligenza autonoma di un pubblico vasto la propria competenza filosofica (anche se proprio su questo fenomeno della ‘consulenza filosofica’ si concentrano le curiosità e i pettegolezzi della mezzi di comunicazione di massa), bensì - piuttosto - riscoprire ciò che nella storia del pensiero occidentale è stato ovvio per moltissimi pensatori di rilievo: che la filosofia non può essere ridotta a mero specialismo, ma deve in qualche modo alimentare la crescita intellettuale, morale e civile dell’intera società. Oltre che favorire l’interscambio fra i ‘dialetti’ delle discipline particolari in vista della costruzione collettiva di una (sempre rivedibile) prospettiva ’sapienziale’ sulle domande cruciali che ci assillano nel breve passaggio sul pianetino che abitiamo. Giuseppe Savagnone e Vittorio Villa, per fortuna di questa città, sono tra i sempre più rari pensatori che non si limitano a stabilire ex cathedra i propri percorsi di studio ma sanno anche lasciarsi dettare l’agenda - anzi, la ‘cogitanda’ - dalle domande della gente ‘comune’ (che poi, attraverso il pagamento delle imposte, è anche la finanziatrice dei filosofi che vivono con un salario statale).
b) Si può essere davvero laici se si è davvero cattolici?
Savagnone ha offerto una visione della laicità che costituisce, probabilmente, il massimo di apertura possibile nell’ottica di un cattolico ortodosso. Dopo la laurea in filosofia negli anni ‘70, mentre per tre anni ho seguito i corsi di una Scuola di perfezionamento in scienze morali e sociali presso l’Università statale di Roma, ho anche seguito per quattro anni un corso di teologia presso l’Università del Laterano: ed è stato molto istruttivo per capire che una prospettiva cattolica della laicità ha dei confini invalicabili. Lo ha all’interno della comunità ecclesiale perché, mentre per i protestanti la differenza fra il pastore e il fedele è di tipo esclusivamente funzionale, per i cattolici il prete è stato segnato - con il sacramento dell’ordine presbiterale - da un ‘carattere’ che lo ha trasformato ontologicamente, distanziandolo in maniera radicale e irreversibile dal resto del popolo dei credenti. Il suo modo di essere ‘re’, ‘pastore’ e ’sacerdote’ , rispetto al semplice battezzato, non si differenzia solo per grado, ma addirittura per natura. Con queste convinzioni - sulla cui fondatezza biblica ci sarebbe molto da obiettare - come si può ragionevolmente contare su una corresponsabilità paritetica fra clero e laici nell’ambito di una stessa parrocchia? Come si può seriamente prevedere una pari dignità fra un soggetto consacrato con un sacramento specifico e tutti gli altri soggetti che (pure se monaci o suore, a maggior ragione se restano nel mondo, celibi o coniugati) ne sono del tutto privi? La prassi dominante - per cui un parroco si comporta da autocrate nella sua parrocchia come un vescovo nella sua diocesi ed un papa nell’intera chiesa cattolica - rispecchia fedelmente la dottrina ufficiale, almeno quanto tale dottrina rispecchia altrettanto fedelmente una prassi precedente.
La situazione non cambia, anzi se mai si aggrava, se consideriamo l’autointerpretazione della chiesa cattolica rispetto al mondo dei laici non battezzati o comunque non credenti nella dottrina cattolica. Una chiesa che è sinceramente convinta di essere depositaria dell’unica rivelazione divina, anzi dotata del diritto-dovere di interpretarla rettamente e di applicarla correttamente lungo il corso dei secoli grazie ad una assistenza speciale e ininterrotta dello stesso Spirito di Dio, come potrebbe davvero dialogare con chi è privo di tanto carisma? E’ sin troppo ovvio che il dialogo non può che essere, nella più ottimistica delle ipotesi, un tentativo misericordioso e garbato di trarre l’interlocutore fuori dalla palude dell’errore e del peccato. Insomma: nonostante le apparenze dialogiche, la chiesa cattolica non può permettersi - in buona sostanza - che forme camuffate di monologo. L’attuale papa Benedetto XVI non perde occasione, in perfetta coerenza con quanto operato nei decenni precedenti da Prefetto della Congregazione per la dottrina e la morale, di mostrare in parole e gesti che cosa significhi rappresentare una chiesa “madre e maestra” che, per fedeltà ad una missione di origine celeste, non potrebbe - neppure se volesse - considerare “sorelle” non solo le comunità scientifiche e le società filosofiche, ma le stesse altre chiese cristiane non-cattoliche.
c) Il relativismo è sempre ‘progressista’?
Villa, da parte sua, ha offerto una visione della laicità incardinata nell’asse portante del relativismo, preoccupandosi di segnare la differenza fra ‘relativismo’ e ’scetticismo’ o, addirittura, ‘nichilismo’. Il suo ‘relativismo’ è soft, quasi un ‘prospettivismo’ che non esclude del tutto dei parametri di riferimento sociali: in ultima istanza, non esclude la struttura antropologica trascendentale (in senso kantiano). Si potrebbe discutere se questa prospettiva gnoseologica sia l’unica possibile per opporsi al dogmatismo, al fanatismo; se si debba necessariamente escludere che la mente umana possa afferrare qualche aspetto ‘oggettivo’ o, meglio, ‘assoluto’ del reale per mantenere aperto lo spazio del confronto dialettico. Ma questa pista di riflessione ci porterebbe troppo lontano. Dico solo che la storia del pensiero occidentale è affollata di filosofi che non sono stati relativisti, ma neppure dogmatici. E’ il caso di Aristotele, equamente distante dall’iper-realismo di Parmenide quanto dal proto-nichilismo di Gorgia, proprio come oggi Enrico Berti può collocarsi a pari distanza dal neo-parmenidismo di Emanuele Severino e dal gaio relativismo di Gianno Vattimo: “L’incontrovertibilità a cui aspira la dialettica (aristotelica)” - scrive ad esempio lo studioso neo-aristotelico padovano - non è affatto definitività, chiusura al dialogo, interruzione della ricerca, negazione della storicità della filosofia e del filosofare. Non è detto, infatti, anzi non accade mai, che, una volta dimostrata una tesi mediante una confutazione della sua contraddittoria, quest’ultima non risorga nuovamente in forma diversa e non richieda pertanto di essere nuovamente confutata. Al contrario, nella storia, cioè nel dialogo fra gli uomini, nascono continuamente nuove filosofie, le quali si propongono come contraddittorie (…) delle precedenti, con le quali è necessario confrontarsi sempre di nuovo, per vagliarle, saggiarle, tentarne la confutazione. Solo di questo processo, infatti, la filosofia vive. Nessuna tesi, pertanto, può mai considerarsi definitivamente dimostrata, perché essa può venire continuamente negata da nuove filosofie (o da nuove obiezioni), nei confronti delle quali si ha il dovere di rinnovare il procedimento dialettico, senza che si possa prevedere prima quale ne sarà l’esito (…): per cui, veramente, il processo dialettico non è mai finito. Ciò non significa, tuttavia, che esso sia inutile o inconcludente, come pensano coloro che cercano solo per cercare e non vogliono o non sanno mai veramente trovare. Ad ogni confutazione, infatti, si raggiunge la prova che la tesi dimostrata è la più valida tra quante ne sono state proposte, il che, dal punto di vista epistemologico, non è davvero poco e comunque è molto di più della posizione, sostanzialmente scettica ed autocontraddittoria , secondo cui nessuna tesi vale più delle altre. Nel considerare la propria tesi più valida delle altre non c’è nessuna superbia, né arroganza, né prepotenza (quale ci può essere, invece, nella posizione di chi esclude a priori, e dunque non permette, che ci sia una tesi valida), perché non è che si consideri più valida una tesi in quanto è la propria, ma al contrario si fa propria, cioè si accoglie, come è doveroso per onestà intellettuale, la tesi che si è trovata essere più valida attraverso appropriate argomentazioni, disposti anche a mutare la propria tesi, se questa non coincidesse con la più valida ” .
Mi voglio limitare ad evidenziare un aspetto della questione che la relazione di Vittorio Villa lascia - significativamente - in ombra. Il fatto che, in questi ultimissimi anni, il relativismo sia duramente attaccato da ambienti ecclesiastici e politico-culturali di stampo conservatore induce la maggioranza degli osservatori a supporre che, invece, difendere il relativismo sia - sempre e comunque - una posizione da progressisti, da emancipati. Ma è davvero così? O non è proprio un clima generalizzato relativistico - basato sulla svalutazione della ragione, della scienza, dell’argomentazione logicamente strutturata - che costituisce il terreno privilegiato per il successo delle istanze autoritarie? E’ quanto sostiene, ad esempio, lo psicologo sociale Giovanni Jervis in un fortunato pamphlet: “Il relativismo favorisce una confusione più vasta fra gli investimenti immaginari e le informazioni, con un tendenziale privilegiamento dei primi e una complementare svalutazione delle seconde. (…) Gli orientamenti relativistici (…) incoraggiano chi si basa su fanatismi di fede, anziché su informazioni di realtà” . Jervis attacca il relativismo, anche in chiave di critica autobiografica, da posizioni un po’ unilateralmente materialistiche e scientiste: ma le varie esemplificazioni che offre, attingendo a settori svariati del panorama culturale contemporaneo, possono essere esaminate anche da posizioni di realismo filosofico.
d) La laicità come proprium di una ragione ’sobria’
Queste mie osservazioni lasciano intravedere, in filigrana, una certa visione della laicità che non è né molto popolare né molto facile da sintetizzare in poche battute: essa si fonda sulla negazione della possibilità per gli esseri umani non di attingere principi teoretici ed etici assoluti, bensì di attingerli in maniera assoluta, esauriente ed esclusiva. In quanto non nega a priori la possibilità di una conoscenza meta-empirica e meta-storica, questa laicità si espone allo sguardo diffidente dei relativisti, ‘duri’ o ‘flessibili’ che siano, così come dei loro confutatori neo-positivistici alla Jervis; in quanto nega a priori la possibilità di una conoscenza definitiva, irrefutabile e imperfettibile di qualche modalità dell’essere, essa non può aspirare ad essere condivisa da chi idolatricamente ritiene che soggetti personali o istituzionali possano vantare crismi di ‘infallibilità‘.
Vorrei esprimermi in maniera un po’ più articolata.
A mio parere la visione della laicità in cui mi riconosco gode di un duplice registro di legittimità. Innanzitutto sul piano epistemico o epistemologico o gnoseologico: nell’epoca della lotta culturale fra ragione ‘forte’ (minoritaria) e ragione ‘debole’ (maggioritaria), osa percorrere il sentiero ( pressoché solitario) della ragione ’sobria’: una ‘ragione’ che non si auto-condanna né all’illusione di possedere questo o quell’ aspetto del mondo al punto da non poter essere smentita per principio né, di contro, al paradosso di cercare la verità a patto di non trovarla mai.
Ma anche dal punto di vista teologico (di una teologia ebraico-cristiana, non di una teologia cattolica nel senso di confessionalmente legata ai vincoli magisteriali dal Vaticano I ad oggi) questa visione della laicità ha una sua solida ragion d’essere. Da una parte, infatti, la Bibbia (nel Primo come nel Secondo Testamento) non disprezza né l’uso dell’intelligenza né la ricerca della sapienza-saggezza: solo alcune interpretazioni storiche della Bibbia hanno creato la conflittualità tra la Bibbia e la ragione filosofico- scientifica. Per questo, proprio in questi giorni, un biologo di orientamento evoluzionistico-darwiniano, ha voluto chiarire: “La laicità non consiste nel deridere la Bibbia, né le religioni, né le fedi o chi le possiede; non consiste nel trovarvi incongruenze per dimostrarne l’inattendibilità o l’irrazionalità; non consiste nel brandire Darwin come una torcia in grado di fugare le tenebre dell’socurantismo religioso; non consiste nel sostenere che la teoria della selezione naturale - essendo indubitabilmente una teoria solida e in grado di spiegare moltissime cose, persino noi stessi - renda obsoleta la sapienza proveniente da altre fonti di conoscenza, fossero anche quelle bibliche”. “Ma” - aggiunge opportunamente con efficace lucidità lo stesso Michele Luzzato - “voglio anche convincere chi mi legge - per mettere subito le cose in chiaro - che nessuno ha il diritto di dirci cosa significa la Bibbia ‘in verità ‘; nessuno ha il monopolio della sua interpretazione; nessuno può, sulla base della sua personale interpretazione, dettare le condizioni di vita e persino le norme di comportamento a quanti sostengono un punto di vista differente, sia esso interno alla Bibbia, proveniente da persone di fede, o esterno ad essa, sostenuto da atei miscredenti. Per mettere subito le cose molto in chiaro, voglio dire che nessuno, proprio nessuno, ha il diritto di dire a Beppino Englaro che la volontà espressa da sua figlia Eluana si oppone alla volontà di Dio. Nessuno tranne Dio. E faccio un passo oltre: voglio convincere chi mi legge di Dio che, indipendentemente dal fatto che Dio esista o meno, che sia fatto in un modo o nell’altro, che agisca nel mondo o lo osservi da un luogo distante (…), nessuno può dirsi pio, timorato e rispettoso della Sua volontà e al contempo depositario della Sua voce e delle Sue intenzioni. Questa sì che sarebbe una contraddizione evidente. Chi agisce così vive semmai distante da Dio, sostituendosi a Lui in un modo molto più grave di quanto non farebbero gli scienziati, accusati proprio di questo da persone che dovrebbero scrutarsi lungamente nel profondo dell’anima” .