Quaderni di pratica filosofica
Novembre 2009
LA FILOSOFIA PUO’ FARE BENE SOLO
QUANDO NON SE LO PROPONE.
Idee ed agiti.
in AA.VV., FilosoFare, cura e orientamento al valore, a cura di Alessandro Volpone, Liguori, Napoli 2009, pp. 137 - 143.
La paradossale preziosa inutilità del filosofare
La filosofia-in-pratica (tentativo di traduzione dell’achenbachiana Philosophische praxis), come ogni possibile declinazione della filosofia, non può sottrarsi ad una tensione intrinseca fra due poli irrinunciabili : da una parte è un’attività libera, gratuita, insubordinabile a nessun fine ‘utile’; dall’altra, però, chi la esercita non può fare a meno di prevedere - o, per lo meno, di sperare - che essa non lascerà intatti uomini e cose . La filosofia inutile e preziosa, dunque: una contraddizione? Forse no: è preziosa solo in quanto inutile . E’ inutile e preziosa nello stesso tempo, ma non dallo stesso punto di vista: non funzionale all’utile se considerata in sé stessa come attività intellettuale , trasformativa se considerata come attività intellettuale esercitata da soggettività (a vario titolo coinvolte nel suo esercizio). A ben riflettere, è un po’ la paradossalità costitutiva di molte espressioni della vita umana: non ascolti musica né ti innamori della ragazza della porta accanto per superare una fase di depressione, ma ciò non esclude che l’abbonamento ai concerti di musica classica o l’innamoramento possano risultare terapeutici. A patto che non li affronti con attese terapeutiche. Infatti in sé stessi non sono terapie e possono mostrare risvolti rigenerativi solo se, e quando, non sono ricercati in vista di ricadute edificanti. Cerchi la bellezza per stare meglio o Platone al posto del Prozac? E’ la ricetta infallibile per non trovare né la bellezza né il benessere psichico, per non gustare Platone e per rimpiangere l’efficacia (per quanto relativa) degli psicofarmaci.
Di fronte al paradosso, bisogna imparare ad apprezzare il silenzio intuitivo: o, se si preferisce, l’intuizione che, non trovando argomentazioni adeguate, accetta di riposare nell’afasia. Il paradosso si lascia formulare solo in perifrasi inadeguate e allusive, quale potrebbe essere: la filosofia non mira al benessere psichico o alla formazione morale o alla autenticità religiosa o alla proattività politica, che infatti accadono a titolo di effetti collaterali desiderabili.
Ci inoltriamo in un sentiero di collina, fra campi appena fioriti, per respirare aria pulita e lasciarci incantare dai colori primaverili: solo dopo, qualche ora o qualche giorno dopo, ci accorgiamo che questa passeggiata ci ha reso più sopportabile l’esistenza. E, riflettendoci a posteriori, scopriamo che non ce l’avrebbe resa più leggera e piacevole se fossimo usciti da casa col chiodo fisso di voler evadere dalla grigia tristezza in cui eravamo immersi. Ecco perché, con tutto il rispetto per chi pensa diversamente e diversamente si esprime , ho imparato a dissociare nettamente il semantema “filosofare” da ogni altro vocabolo imparentato con “cura”, “formazione”, “educazione”, “pedagogia” : solo se la filosofia è filosofia (dunque viene coltivata per puro amore della sapienza e della saggezza) può, poi, essere ‘adoperata’ - addirittura anche programmaticamente -, da non-filosofi o da filosofi che si spogliano provvisoriamente dell’habitus filosofico, per dare sostanza a relazione psicoterapeutiche o per motivare all’impegno sociale degli aspiranti sindacalisti o per attrezzare dottrinariamente dei missionari in partenza per l’Africa centrale. Mi spiego meglio che posso: il filosofare come attività è per costituzione imprevedibile e non ‘applicabile’ a nessun obiettivo. Esso è anche l’insieme di prodotti di tale attività: teorie, metodi, ipotesi di spiegazione, asserzioni sull’uomo etc. Come pensiero pensante, essa è assolutamente ribelle ad ogni finalizzazione: se decidi di filosofare con un ragazzo per impartirgli la buona educazione o con un aspirante suicida per distoglierlo dal portare a compimento il suo proposito, non puoi escludere a priori che sia il ragazzo a convincerti della vacuità del galateo di Monsignor Della Casa o l’aspirante suicida della vacuità della vita terrena. Se inizi a filosofare sapendo già che non arriverai a determinati esiti, il tuo filosofare è una finzione miserevole e ridicola. Solo a posteriori potrai constatare se il confronto dialettico è risultato ‘educativo’ o ‘terapeutico’ e, soprattutto, per chi dei due interlocutori ciò si sia verificato. Quanto ai pensieri pensati, una volta prodotti, essi possono essere benissimo ‘utilizzati’ da un ideologo per costruire il programma di un partito politico o da uno psicoterapeuta per raffinare il suo sguardo sul mondo interiore del paziente: l’importante è che non si scambi l’uso del filosofato (possibile e talora utile anche da parte dei non-filosofi) con il filosofare (prerogativa esclusiva dei filosofi, con o senza laurea in tasca).
Non c’è niente di più bello di un rapporto sessuale che fiorisca in fiducia, reciprocità e alleanza: ma niente di più triste di un rapporto sessuale prima, durante e dopo il quale ci si chieda, senza smarrire neppure un attimo la coscienza di sé, quanto esso stia favorendo la nostra autorealizzazione e il nostro equilibrio psico- fisico. I mistici dicono che la preghiera più elevata e ricreatrice viene praticata dall’orante che non sa di pregare: analogamente, la filosofia più sconvolgente dal punto di vista esistenziale e più rivoluzionaria dal punto di vista politico non viene attuata da chi si prefigge l’obiettivo di stupire i borghesi o di scardinare il sistema socio-economico, quanto da coloro che sono troppo tesi a cercare significato e senso di enti ed eventi per potersi permettere di misurare col metro in mano, passo dopo passo, l’efficacia operativa della propria riflessione razionale.
Uno sguardo all’ esperienza: i colloqui privati di consulenza filosofica
Se la filosofia ‘funziona’ con efficacia trasformatrice in misura proporzionalmente inversa rispetto alle attese terapeutiche/educative/formative, possiamo aspettarci a priori che essa sia particolarmente adatta a chi si sente ‘in forma’, a chi non attraversa momenti di difficoltà umorali o di avversità oggettive: ed è precisamente ciò che ho constatato sinora nella mia esperienza di filosofo ‘praticante’. Questo dato di fatto disorienta, solitamente, chi si accosta dall’esterno al mondo delle pratiche filosofiche e, in particolare, della consulenza filosofica. La pre-comprensione generalizzata, infatti, suppone che se il filosofo vuole presentarsi come ‘professionista’ nel mercato del lavoro, può farlo solo se promette ciò che psicoterapeuti, preti, insegnanti e assistenti sociali non riescono ad assicurare. Quando qualcuno scopre che il filosofo consulenziale non è - non sa essere e non vuole essere - né un pronto soccorso né un muro del pianto, inevitabilmente le labbra si conformano a mo’ di punto interrogativo: e perché mai allora qualcuno dovrebbe bussare alla porta del vostro studio e chiedere, a pagamento, le vostre prestazioni professionali?
La risposta non è possibile o, forse, sono troppe le risposte possibili. Da caso a caso. Più che argomenti ipotetici preferirei, dunque, narrare fatti: se è ancora vero, come sostenevano i nostri medievali, che contra factum non valet argumentum. Per attenuare il disorientamento, diciamo subito che un colloquio privato è, solitamente, richiesto da chi sta male o è stato male e vuole evitare di ricascare. Se si tratta di malessere psichico in senso clinico, l’aiuto del filosofo consiste nel consigliare all’ospite di contattare un terapeuta qualificato e di precisare che il proprio servizio intellettuale - svolgendosi sul registro mentale e, per così dire, a fianco della relazione di cura - non avrà sul suo stato psichico che conseguenze indirette.
Con l’espressione generica ’stare male’ non si intende, comunque, solo la sofferenza psicopatologica: una donna in conflitto con un anziano parente; un figlio che non riesce a comunicare con uno dei due genitori separati; una studentessa alla ricerca di nuove motivazioni interiori alla fatica dello studio quotidiano; un anziano signore all’inizio del suo periodo di quiescenza dal lavoro di una vita…sono soggetti che avvertono disagi e si pongono domande esistenziali, ma non sono ‘malati’. Sono persone ‘normali’, nella misura in cui l’aggettivo ha un senso accettabile: persone qualificabili, con tutte le approssimazioni del caso, ’sane di mente’ . Esse vanno aiutate non con fantomatiche “terapie filosofiche”, bensì suggerendo come ipotesi di lavoro ciò che per noi potrebbe essere una tesi ben assodata: suggerendo di liberarsi dall’ossessione del paradigma terapeutico; dalla patologizzazione di ogni disagio e dalla conseguente invadenza della medicalizzazione. ‘Malato’ non è chi non riesce a dormire se vede franare la relazione coniugale o se non riesce a lavorare da quando il figlio ventenne è morto in un incidente stradale: se mai, lo è chi dorme tranquillo dopo una giornata di lite furibonde con la moglie o chi riesce a lavorare inappuntabilmente anche il giorno successivo al funerale del figlio. E, corrispondentemente, non c’è nessuna ragione seria per accoppiare al termine terapia ogni attività gratificante e tonificante che ci capiti di sperimentare: “danzaterapia, cristalloterapia, teatroterapia, aromaterapia, cristoterapia, ippoterapia, cromoterapia. Il mondo si è reduplicato. Una prima volta esiste per sé, una seconda come lenimento, balsamo, terapia” . Anzi: è proprio se non vengono esercitate come terapia che la danza, il teatro o la filosofia possono rivelare - per sovrappiù - effetti terapeutici. (Senza con ciò escludere che, almeno nel caso della filosofia, possa risultare ininfluente o addirittura deprimente: Hegel ha già avvertito che la filosofia non deve essere consolatrice a tutti i costi).
Uno sguardo all’esperienza: consulenza di gruppo e altre pratiche filosofiche
Sinora ho evocato alla memoria delle conversazioni in assetto duale: se esse costituissero l’unica modalità in cui si può esercitare la filosofia-in-pratica, avrebbero decisamente ragione quanti suppongono che si va da un filosofo consulente solo se si sta male (psichicamente) o se si avvertono seri problemi (esistenziali). Ma - come ha egregiamente evidenziato Davide Miccione - nell’ottica della Philosophische Praxis il dialogo uno-a-uno fra un filosofo e un suo visitatore è soltanto il terzo passo di un processo che ne presuppone altri due. Tralasciamo qui il primo (riscoprire il gusto di “pensare a partire dalla propria esistenza per tornare alla propria esistenza” ): non perché sia scarsamente rilevante, bensì proprio perché troppo radicale e decisivo da potersi solo sfiorare di passaggio. Concentriamoci, invece, sul secondo passo: “provare a pensare con gli altri, coinvolti nella ‘pratica’ del filosofare sui problemi non solo dell’ Uomo, giusta eredità di una millenaria tradizione, ma anche dei singoli uomini, attraverso incontri pubblici di conversazione filosofica che fossero il più possibile diversi dall’abituale solipsismo delle conferenze” . Ebbene, chi sono questi altri? Perché si lasciano convocare, sia a titolo gratuito sia più spesso a pagamento, dal filosofo che gli rivolge l’invito ad incontrarli? Sono necessariamente persone in sofferenza o, preferibilmente, pregne di entusiasmo vitale? Come si può etichettare quello che avviene in questi incontri pubblici?
Cominciamo a rispondere sull’identikit degli ospiti: sono persone che (a prescindere dal livello di istruzione e dall’indirizzo di studi eventualmente seguito) hanno voglia di pensare a voce alta e di esporre i loro pensieri al vaglio del pensare di altri. Si possono chiamare filosofanti o con - filosofanti? Per qualcuno sarebbe eccessivo. Allora, più sommessamente, dialoganti? Conversatori? Ragionatori? L’essenziale, mi pare, è che si mettano in gioco in quanto animali consapevoli in grado di dare ragione di ciò che asseriscono: senza, dunque, proteggersi dietro lo scudo delle (eventuali) competenze specialistiche e delle citazioni dotte. Meno che mai se, per caso, fossero laureati in storia della filosofia.
Gli “incontri pubblici” in cui un filosofo professionista incontra altri interlocutori (che non devono necessariamente essere filosofi di mestiere, anzi neppure conoscitori del lessico filosofico tecnico) sono denominabili genericamente - secondo la più volte ribadita proposta di Alessandro Volpone - pratiche filosofiche. Alcune di queste pratiche sono state battezzate sin dalla nascita ., altre rimangono prive di una denominazione più specifica . La mia opinione è che siano denominate “consulenze di gruppo” quando gli interlocutori formulano esplicitamente e programmaticamente un tema da discutere a partire da interrogativi esperienziali effettivamente avvertiti da tutti i membri della “comunità di ricerca”, o per lo meno da alcuni di loro: per esempio quando un gruppetto di medici che lavora con malati terminali chiede di confrontarsi con un filosofo sulla loro idea di morte o un gruppo di psicoterapeuti chiede di riflettere su differenze e affinità tra la psicoterapia e la consulenza filosofica o un gruppo di cittadini chiede di riflettere sulle possibili ragioni etiche di un loro maggiore impegno socio-politico o un gruppo di operai sindacalizzati chiede di riflettere su come sia stato possibile lo sterminio degli ebrei da parte di uno dei popoli più ‘civili’ del pianeta . In altri casi, però, i partecipanti ad una “pratica filosofica” non sanno, in anticipo, di cosa si tratta: sono bambini o adulti che iniziano un percorso formativo al volontariato e incontrano il filosofo perché inserito in calendario dagli organizzatori o ragazzi che esprimono, vagamente, l’esigenza di una alfabetizzazione, imparziale e corretta, sulle diverse proposte ideologico-politiche contemporanee . In tutti questi casi, nella misura in cui si fa filosofia, si è dentro una ‘pratica filosofica’: ma mi sembrerebbe fuorviante chiamarle “consulenza di gruppo”. Così come non considero “consulenze filosofiche” i numerosi appuntamenti (cenette filosofiche per…non filosofi; week-end filosofici per…non filosofi; vacanze filosofiche per…non filosofi) in cui si parte da un testo o dalla relazione di un filosofo di mestiere, i partecipanti al gruppo sanno prima di cosa si discuterà, ma non determinano l’argomento dell’incontro - o del ciclo di incontri - a partire da loro esigenze contingenti.
Ebbene, perché nell’ultimo quarto di secolo, da quando promuovo questo genere di “pratiche filosofiche” (più o meno esplicitamente ‘consulenziali’) ho riscontrato largo interesse e soddisfacente rispondenza non solo (raramente) fra persone che attraversano fasi problematiche ma anche (più spesso) che vogliono “fiorire” ? Perché la filosofia - che può anche occasionalmente essere ricercata come “consolazione” degli affanni e delle contrarietà - di per sé è il lusso della vita: è il segno della pienezza, della gioia, o per lo meno della serena allegria dell’esistere. E’ una delle poche cifre che rivelano la non-assurdità dell’essere-al-mondo. Ed è per questo che non ci sarà società giusta sino a quando non sarà data a tutti i cittadini l’opportunità di decidere se ospitare o meno la riflessività critica nella propria coscienza.
Augusto Cavadi