“Centonove” 16.10.2009
SE LA POLITICA ENTRA A SCUOLA
”Chi fa politica deve farlo fuori dagli edifici scolatici. Si tratta di una minoranza che piega la scuola ai suoi interessi di parte”: così, recentemente, in una delle sue frequenti esternazioni, la ministra Gelmini. Che pensarne?
Senza nessuna sfumatura di ironia, non ho nessuna difficoltà a dichiararmi consenziente. E’ chiaro, infatti, dal contesto della frase, che per lei “fare politica” significa dedicarsi alla propaganda per un partito o per uno schieramento; tentare di condizionare il giudizio di colleghi ed alunni sull’operato del governo; organizzare manifestazioni di protesta contro leggi democraticamente stabilite dalla maggioranza dei parlamentari. Che un docente - invece di insegnare la propria disciplina e favorire il senso critico degli alunni, sino al punto da stimolarli a dissentire dalle sue stesse opinioni - dedichi tempo ed energie a mobilitare le classi, sia pure per scopi condivisibili, è deontologicamente scorretto. E, potrei aggiungere, persino autolesionistico. L’esperienza di alunno prima, e di professore dopo, mi ha attestato senza ombra di dubbio il modo più sicuro per far sì che un ragazzo rifiuti certe idee politiche: o scaricargliele addosso, a valanga, o distillargliele ogni giorno in maniera ossessiva.
Ciò che la Gelmini afferma è dunque, a mio parere, da sottoscrivere. Grave, anzi gravissimo, che ella non avverta l’esigenza di aggiungere subito dopo dell’altro: la politica come attivismo e proselitismo deve stare fuori dalle aule scolastiche, ma la cultura politica come informazione e formazione vi deve restare. Anzi, nella stragrande maggioranza dei casi, vi deve ancora entrare. Chi se non la scuola ha il dovere di illustrare alle nuove generazioni le linee portanti della carta costituzionale? Di spiegare il funzionamento di parlamento, governo, magistratura? Di esporre le ideologie e i programmi che caratterizzano, distinguendoli fra loro, i diversi partiti politici presenti nel panorama contemporaneo? Di approfondire le ragioni ‘filosofiche’ per cui alcuni partiti sono a favore della guerra, della chiusura delle frontiere, del bavaglio alla stampa, del liberismo senza regole ed altri - al contrario - a favore della pace, dell’accoglienza anche gravosa dei perseguitati politici, del pluralismo dell’informazione, della regolazione del mercato…
Questo vale per l’intero territorio nazionale. Ma in vari istituti sparsi a macchia di leopardo nel Paese (non solo, dunque, in regioni meridionali) cultura politica è anche conoscenza della storia della mafia, delle sue articolazioni attuali (militari ed economiche, ma anche - appunto - culturali e politiche), delle diverse strategie con cui gli schieramenti parlamentari propongono di contrastarla. Astenersi (come la stragrande maggioranza dei docenti italiani) dall’affrontare queste ed altre tematiche socio-politiche con dati oggettivi, senza enfasi né apologetiche né denigratorie, in clima di autentico pluralismo ( se necessario invitando a scuola - contestualmente - esponenti preparati dei diversi schieramenti da interrogare su questioni concrete e circoscritte), non significa “non fare politica”: significa farla non facendola. Significa farla nel modo peggiore. Significa trasmettere, surrettiziamente, il messaggio che il teorema di Pitagora o la pittura del Seicento in Olanda sono essenziali alla formazione di un cittadino, mentre conoscere la differenza fra una politica conservatrice ed una progressista, o fra una reazionaria ed una rivoluzionaria, rientri fra gli optional. Se non addirittura fra le perdite di tempo che un allievo serio e diligente dovrebbe evitare. Anche il qualunquismo è un modo d’intendere e di vivere la politica: ogni insegnante, come ogni ministro, ha diritto di condividerlo e di diffonderlo. Purché abbia consapevolezza di non essere, così facendo, politicamente ‘neutro’.
In una delle lettere dei condannati a morte della resistenza italiana contro il nazi-fascismo, il diciannovenne Giacomo Ulivi individuava nel “pregiudizio della ’sporcizia’ della politica il più terribile risultato di un’opera ventennale di diseducazione”. Forse, quando anche il ventennio craxiano- berlusconiano arriverà a compimento (si spera in maniera meno tragica), l’opinione pubblica si sveglierà dal letargo e troverà dei nuovi ragazzi di Barbiana che scriveranno: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.
Augusto Cavadi
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