Su “Adista” (102, 17 - 10 09) è apparsa una intervista che ho rilasciato al bravo Valerio Gigante:
AUGUSTO CAVADI: CHIESE E TEOLOGIE SI RENDANO
IMPERMEABILI AL SISTEMA MAFIOSO
35233. ROMA-ADISTA. “Come è possibile che una società cristiana, a stragrande maggioranza cattolica, partorisca Cosa nostra e Stidde, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita? E le partorisca non come aborti mostruosi irriconoscibili, ma come associazioni in cui tutti hanno una Bibbia. E tutti pregano”. Questo il quesito da cui prende avvio Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2009, pp. 256, 18 euro: il volume è acquistabile anche presso la nostra agenzia, telefonando allo 06/6868692, inviando una mail ad abbonamenti@adista.it o collegandosi a www.adista.it), l’ultimo libro del giornalista, sociologo e teologo palermitano Augusto Cavadi. Cavadi, tra i maggiori esperti del rapporto fra cattolicesimo e associazioni criminali (già nel 1994 aveva pubblicato, in due volumi, Il vangelo e la lupara. Materiali su Chiese e mafia), nell’introduzione che precede il suo lavoro afferma, che “gli studi dedicati al rapporto fra Chiese e mafie o, per lo meno, fra alcuni uomini di Chiesa ed alcuni uomini di mafia”, pur non essendo “per nulla da sottovalutare”, non affrontano quasi mai la questione della “teologia mafiosa”, cioè di quel sistema di credenze, riferimenti simbolici e pratiche devozionali che caratterizzano la religiosità delle cosche mafiose e che non sempre appare non riducibile, o inassimilabile, ad una certa visione di Chiesa. Un terreno finora poco indagato perché “chi ha quel tanto di preparazione teologica per aprire certi ‘fascicoli’, raramente si ritrova nelle condizioni ecclesiali adatte”; mentre “chi ha tutta la libertà di parlare quasi mai possiede gli strumenti culturali specifici per imbarcarsi nell’impresa”.
Cavadi, invece, nell’impresa ci si è buttato con passione e competenza, rilevando che i rapporti fra mondo cattolico e ambienti mafiosi ci sono stati, eccome. “E non senza conseguenze di rilievo”: “In alcuni casi - scrive Cavadi - si è trattato di rapporti di vera e propria complicità”. In qualche altro caso, al contrario, ci sono stati preti che, “schierandosi dalla parte dei braccianti agricoli o comunque facendo azione sociale in contesti depressi, sono andati incontro alla vendetta mafiosa”. Ma “i preti-boss e i preti-martiri costituiscono comunque, nella loro atipicità, un’eccezione. La norma è stata invece una sorta di indifferenza disincantata delle Chiese cristiane - e in particolare della Chiesa cattolica - rispetto ad una questione considerata, a torto, di competenza dello Stato. E, per giunta, di uno Stato ‘liberale’: vissuto, per molti decenni dall’unificazione nazionale, come esterno ed estraneo”. Indifferenza che spesso ha significato oggettiva connivenza.
Ad Augusto Cavadi Adista ha rivolto alcune domande sulla vicenda della benedizione papale ai rampolli della cosca Condello (v. notizia precedente) e, più in generale, sui rapporti tra sistema-Chiesa e sistema-mafia.
“Come può la maggioranza dei mafiosi dirsi cattolica e frequentare le chiese?”, chiedi sulla quarta di copertina del tuo libro…
…e subito dopo aggiungo: “Evidentemente qualcosa non funziona o nella loro testa o nella teologia cattolica. O in tutte e due”…
Verrebbe allora da ribaltare la domanda: come fa una parte della gerarchia ecclesiastica, in passato come oggi, a frequentare il potere mafioso, nonostante la mafia sia stata condannata dalla Chiesa ai suoi più alti livelli? C’è forse una religione delle parole e una religione dei fatti? E poi: quale “relativismo etico” più devastante di quello che ‘benedice’ indifferentemente vittime e carnefici?
Se la mafia fosse - come si ritiene superficialmente - una gang di delinquenti, vescovi e preti se ne terrebbero senz’altro distanti. Ma poiché è un sistema di dominio pluridimensionale, può mostrare facce diverse a seconda degli interlocutori. Al mondo ecclesiastico si presenta come garante dell’ordine, come custode dei valori tradizionali, come baluardo contro il comunismo e il laicismo in genere, nascondendo la valenza violenta, intimidatoria e se indispensabile omicida.
Il fatto che i boss mafiosi si sposino in chiesa, che chiedano benedizioni papali, che ricevano la comunione, che si facciano celebrare messe e riti religiosi anche nei covi dove sono latitanti serve solo a legittimarli di fronte alla propria coscienza, alla “famiglia”, all’opinione pubblica ed al contesto sociale in cui vivono o tutto ciò accade anche perché nella religione i mafiosi trovano un universo simbolico affine a quello in cui vivono?
Questo è il punto più delicato della mia ricerca. Che la mafia abbia bisogno di darsi una ideologia è comprensibile; che, povera di strumenti intellettuali, rubi a man bassa arraffando dai patrimoni ideali che incontra nel suo contesto territoriale, è altrettanto comprensibile. Quello che è strano - anzi francamente inaccettabile - è che la teologia cattolica si sia strutturata nei secoli in maniera tale da costituire per i mafiosi un modello ‘esemplare’ ed una miniera di credenze e di norme. Per questo nel libro tento non solo di evidenziare le inquietanti somiglianze fra la visione cattolica e la visione mafiosa del mondo, ma anche di abbozzare una teologia critica diversa: un a teologia che (riscoprendo il messaggio evangelico originario) sia, ‘oggettivamente’, inutilizzabile come armamentario ideologico delle cosche mafiose.
Nel caso del telegramma inviato a Caterina Condello e Daniele Ionetti si è parlato di una svista: possibile che il parroco del quartiere di Archi non conosca la figlia del boss che da 25 anni domina incontrastato sul quartiere e sulla città? E che il vescovo non sappia chi si sposa in cattedrale? Per quale ragione una Chiesa che difende la vita “dal concepimento alla morte naturale” tollera chi della vita mostra un così scarso rispetto?
Non so con quali intenzioni - e perciò con quale responsabilità morale - il vescovo di Reggio Calabria e il parroco del quartiere Archi abbiano acconsentito a benedire solennemente le nozze fra una Condello e il suo compagno. Non posso escludere che abbiano distinto, come mi sembra sacrosanto, la mentalità e le colpe del padre di lei dalla mentalità e dal progetto di vita dei due coniugi. Ho conosciuto in quasi sessant’anni figli e figlie di mafiosi molto diversi dai genitori: talora, pur senza il coraggio eclatante di un Peppino Impastato, ragazzi di orientamento opposto rispetto alle famiglie anagrafiche d’appartenenza. Mi sento di affermare solo questo: se, per caso, vescovo e parroco non si sono neppure posti il problema di approfondire la questione, la loro responsabilità sarebbe enorme. A Palermo, in un secolo e mezzo, sono stati centinaia i vescovi e i parroci che non si sono posti domande imbarazzanti e che hanno evitato accertamenti puntuali: quando preti, come il parroco di Brancaccio don Pino Puglisi, hanno cominciato a voler capire chi frequentava chiese e sagrestie, sono stati considerati dai mafiosi degli impertinenti e pericolosi innovatori. E come tali sono stati giustiziati.
C’è qualcosa nell’universo mafioso, nella sua cultura, nei suoi modi di esercitare il potere che serve anche gli interessi di una parte della gerarchia?
Non so quanto per cinismo e quanto per ignoranza dei dati oggettivi (ma per chi ha responsabilità di guida la seconda ipotesi non è molto più favorevole della prima…), spesso il clero - nelle sue diverse articolazioni gerarchiche - si lascia abbagliare dai vantaggi immediati delle frequentazioni mafiose e non considera i contraccolpi negativi di lungo periodo. Nei giorni scorsi i giornali hanno diffuso la notizia di una informativa delle forze dell’ordine alla Procura della Repubblica di Agrigento su un’omelia del nuovo arciprete di Cattolica Eraclea (la città d’origine dei Cuntrera e dei Caruana). Don Nino Giarraputo, infatti, che nella sua prima omelia si è appellato a due imprese notoriamente in odor di mafia: “Le nostre chiese hanno bisogno di tante attenzioni e noi l’attenzione gliela daremo in tutti i modi. Le imprese di Favara non mancheranno, la ditta Athena e i Pitruzzella, ne sono convinto, ci daranno una mano”. Capisco che pecunia non olet per i banchieri e i commercianti; lo capirei molto meno se ragionasse così il sindaco di una cittadina terremotata; non lo capisco per nulla se ragiona così un discepolo di quel Gesù che ha raccomandato di non portare con sé neppure bastone e bisaccia. Perché costruire cattedrali meravigliose se è per riempirle di “greggi” senza senso critico, senza senso civico e senza fede nel Regno di Dio che non è di questo mondo? (valerio gigante)