“Repubblica - Palermo”
8.9.09
LE MORTI BIANCHE IN SICILIA, UNA BATTAGLIA DI LEGALITA’
Cominciamo dalla notizia: ieri, in Sicilia, non è morto nessuno mentre era intento a lavorare. Almeno ufficialmente. Passiamo al commento: perché un non-fatto può essere una notizia? Perché quando un fatto si ripete ossessivamente ogni giorno, per quanto in sé rilevante, cessa di risultare interessante. Se un asino volasse una volta soltanto nella storia del mondo, sarebbe una notizia sensazionale; ma se volasse una volta a settimana, o addirittura quotidianamente, nessuno più vi farebbe caso. Se accadesse una volta ogni cento anni che un giovane ventenne o un padre di famiglia sessantenne - usciti da casa al mattino per manovrare un trattore in campagna o per scaricare container al porto - non vi facessero ritorno perché vittime di incidenti sul lavoro, l’opinione pubblica se ne scandalizzerebbe; si chiederebbe come ciò sia stato possibile; esigerebbe dalle autorità pubbliche misure preventive rigorosissime. Purtroppo, però, i morti sul posto di lavoro nella sola Italia non sono uno o due ogni cento anni, ma - come recita il titolo di un recente libro di Pagliarini e Ripetto, edito dalla Datanews di Roma - “uno ogni sette ore”. Tre - quattro al giorno (se non consideriamo le casalinghe). Novanta-cento al mese. Mille e trecento circa l’anno.
E in Sicilia? In questi giorni l’Inail ha diffuso il rapporto relativo al 2008 da cui si ricava che la situazione è stabilmente grave: 76 casi sono stati denunciati nel 2008 a fronte dei 77 nel 2007. In particolare, 11 casi mortali sono stati registrati in agricoltura, 64 nell’industria e servizi e uno per i dipendenti in conto Stato. Dei 76 infortuni mortali, 65 sono avvenuti nel lavoro e 11 in itinere. Nel settore industria e servizi, più colpite le “costruzioni” con 18 casi, 11 nelle industrie manifatturiere a cui seguono 5 morti bianche nel commercio e 9 morti nel settore dei trasporti e comunicazioni. La provincia siciliana più colpita è Catania con 23 infortuni mortali, seguono Messina e Ragusa con 11 morti, Palermo con 9, Trapani e Agrigento con 7, Caltanissetta con 4, Siracusa con 3 ed Enna con un solo caso. Questi dati sono però, a mio avviso, molto al di sotto della realtà effettiva: non tengono in conto, infatti, né le vittime che vengono occultate perché totalmente in nero; né le vittime di incidenti che sul momento sono registrati come non-mortali, ma le cui conseguenze successive sono invece letali; né le vittime di malattie (dell’apparato respiratorio o di altre cavità sierose del corpo), contratte in ambienti di lavoro, che portano al decesso lentamente, come alcune neoplasie con periodi di latenza lunghi sino a trenta o quaranta anni. “Dalla consapevolezza dell’importanza del fenomeno infortunistico nasce l’esigenza di creare una cultura della sicurezza” - ha dichiarato per l’occasione il direttore dell’Inail Sicilia Carlo D’Amato - “che non sia solo presenza di dati sui mass-media ma approfondimento ed intervento sulle cause dei vari eventi infortunistici”.
La dichiarazione d’intenti è nobile, ma se non vogliamo prenderci in giro - e soprattutto prendere in giro quei nostri concittadini che si sottopongono alle incombenze più pesanti e logoranti - dobbiamo esplicitare con chiarezza le deficienze oggettive e soggettive, le responsabilità istituzionali e individuali, che sino ad oggi rendono possibile questa strage silenziosa. Dobbiamo chiederci se la nostra legislazione (sulla carta tra le più avanzate del mondo) viene effettivamente fatta rispettare; se gli ispettori del lavoro e i funzionari della sanità preposti ai controlli sono numericamente sufficienti; se quelli che sono addetti alle ispezioni le operano davvero senza preavvisi né diretti né indiretti; se i sindacati di categoria sono davvero in condizione di verificare, senza rischiare la ritorsione anche sanguinosa, il rispetto delle normative; se gli operai stessi sono debitamente informati e formati sulla gravità dei rischi a cui si espongono quando accettano condizioni, tempi e modalità di lavoro fuori dagli standard legali.
Che dalle nostre parti si tenga alto il livello di opposizione al sistema di dominio mafioso è comprensibile ed è anche apprezzabile: ma bisogna affinare le armi e imparare a colpirlo nelle sue diverse radicazioni. Concentrare l’attenzione esclusivamente su chi cade lottando a viso aperto i mafiosi, ma dimenticare le vittime quotidiane di un meccanismo di illegalità che nel Meridione assume connotati di particolare spietatezza, sarebbe grave errore strategico. La liberazione dalla mafia non sarà possibile sino a quando tutti gli strati sociali - anche i meno abbienti - non si saranno convinti che la legalità democratica conviene: significa un po’ di vita in più. E di migliore qualità.
Augusto Cavadi
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