Repubblica - Palermo 8.7.09
ESTIRPARE LA MAFIA, L’UTOPIA POSSIBILE
Dopo aver avuto tra le mani, in anteprima, le bozze dell’edizione americana, è con una certa emozione che sfoglio adesso - a sei anni di distanza - la traduzione italiana di Un destino reversibile di due cari amici antropologi, Jane e Peter Schneider, edito dalla Viella di Roma. Come recita il sottotitolo, il volume - impreziosito da una equilibrata introduzione di Salvatore Lupo e da un’opportuna post-fazione di Salvatore Costantino - è dedicato a Mafia, antimafia e società civile a Palermo. Esso mira infatti, proprio attraverso l’esame di ciò che è avvenuto e sta avvenendo nella nostra città, a scalzare un luogo comune radicato in noi siciliani almeno quanto nel resto del mondo: che la mafia costituisca, per la nostra isola, un destino atavico ed immutabile. Irreversibile, appunto. Dati alla mano (rinvenuti dai coniugi Schneider in decenni di lunghi periodi di permanenza in Sicilia, ma anche nella produzione scientifica ‘locale’, a cominciare dagli studi di Umberto Santino), si dimostra che il fenomeno mafioso non è una dato strutturale del Meridione (nasce intorno alla metà del XIX secolo); che è stato contrastato sin da subito con diverse modalità di aggregazione sociale (per esempio i Fasci siciliani della fine dell’Ottocento); e che anche negli ultimi trenta anni si sono registrati mutamenti qualitativi e quantitativi del tutto apprezzabili (basti solo pensare al calo impressionante di omicidi mafiosi dagli anni Ottanta ad oggi). Ovviamente nessun facile ottimismo trapela dalle pagine dei due studiosi newyorkesi: sostenere che “un profondo cambiamento sociale è possibile” non significa affermare che avverrà con certezza né, ancor meno, che sia già avvenuto. Significa solo che, essendosi avviato, potrebbe arrivare a compimento.
E’ proprio questo condizionale uno dei nodi più intriganti (e intrigati) del libro: come trasformare l’utopia di una Sicilia liberata dalla mafia in una conquista storica da affidare all’ammirata memoria dei posteri? Qui, insieme a tante cose vere e belle che il lettore potrà scoprire da solo, si trovano delle opinioni che a me sembrano meno fondate. Provo a discuterne, telegraficamente, alcune.
Per suffragare la tesi (condivisibilissima) che il sistema di potere mafioso sia estirpabile dal tessuto siciliano, gli autori espongono quattro argomenti. Il primo: “la mafia è una formazione sociale recente” (ed è vero) e “una sub-cultura che si può scindere dal resto del suo ambiente sociale” (e questo non mi convince). Penso sia evidente che la mafia è intrecciata strettamente con tutte le ‘culture’ che, incrociandosi e sedimentandosi, hanno prodotto ciò che - non senza approssimazione - possiamo denominare “cultura siciliana”. In particolare mi pare che la cultura mafiosa sia fortemente connessa con la tradizione liberal-borghese e con la tradizione cattolica sì che, oggi, il mafioso siciliano è anche un po’ borghese e un po’ cattolico, proprio come il borghese è anche un po’ cattolico e un po’ mafioso ed il cattolico è anche un po’ borghese e un po’ mafioso.
Secondo argomento: il “ceto urbano, istruito e professionale”, sarebbe “composto da persone che si identificano con i valori dell’antimafia”. Magari fosse così! I mafiosi dell’entroterra campagnolo, spesso ignoranti e rozzi, risultano tanto pericolosi perché diabolicamente capaci di comprare l’alleanza e la consulenza di pezzi consistenti del “ceto urbano, istruito e professionale”. Penso che la tragedia stia proprio nel fatto che un quinto circa della borghesia sia decisamente complice, un altro quinto decisamente avverso e i restanti tre quinti (degli insegnanti, dei giornalisti, dei medici, dei commercianti, degli avvocati, degli ingegneri…) incerto, oscillante, sostanzialmente indifferente. Se la mia obiezione reggesse, anche il terzo argomento degli Schneider vacillerebbe: la borghesia intellettuale, professionale e burocratica avrebbe “aggredito le pratiche locali che favoreggiavano la criminalità organizzata - per esempio, le regole sull’assegnazione degli appalti pubblici - rimpiazzando il discorso che definiva la mafia come inevitabile e i mafiosi come ‘uomini d’onore’ con un nuovo linguaggio, secondo cui sono criminali da perseguire penalmente”. Purtroppo non è così: ci sono politici condannati per “favoreggiamento di mafiosi” che non solo non sono stati costretti, dall’indignazione del ceto riflessivo, istruito e dirigente, ad abbandonare la scena pubblica, ma addirittura sono stati promossi (dal libero sostegno elettorale di cittadini d’ogni fascia sociale) dalla serie B (amministrazione reegionale) alla serie A (parlamento nazionale). Per fortuna, invece, il quarto ed ultimo argomento mi pare molto più solido: la mafia siciliana è stata indebolita dalla crisi del socialismo reale in mezza Europa perché ormai nessun governo, italiano o americano, può ricorrere alla criminalità organizzata in quanto “baluardo contro il comunismo”.
Come si evince da questi brevi cenni, il libro presenta dei passaggi che fanno discutere: e quale pregio maggiore può avere un libro sulla mafia, oggi, in una situazione di tendenziale stagnazione del dibattito, nell’illusoria certezza che tutto sia ormai noto e non resti più nulla da discutere?
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