"KOINE’", anno XVI, nn. 1 – 3, gennaio-giugno 2009
AA.VV., Filosofia e politica: che fare?, Editrice Petite Plaisance, Pistoia 2009, pp. 255 - 268
La filosofia-in-pratica e la politica.
Una discussione lacustre.
Breve premessa a chiarimento delle righe successive
All’inizio del terzo millennio sono stato invitato - non ricordo più da chi - a partecipare alla fondazione di un’associazione italiana per la consulenza filosofica (AICF) . Accostatomi ai pochi filosofi (e ai numerosi psicoterapeuti) interessati al processo di importazione nel nostro Paese della Philosophische Praxis proposta in Germania da Gerd Achenbach , ho scoperto - con qualche sorpresa e molta soddisfazione - che potevo dare un nome a ciò che avevo da sempre pensato e, molto imperfettamente, realizzato: fare filosofia non come mera ermeneutica dei testi ‘classici’ ma, anche e soprattutto, come occasione per trasformare la mia vita ed offrire ad altri - impegnati in ruoli sociali diversi - l’occasione di trasformare la loro. Mi riuscì dunque spontaneo raccontare in un volume le principali esperienze di filosofia-in-pratica: Quando ha problemi chi è sano di mente. Un’introduzione al philosophical counseling (Rubbettino, 2003), arricchito da una Breve storia della consulenza filosofica a firma di Neri Pollastri, fu il primo libro sull’argomento pubblicato in Italia.
La filosofia, come è noto, vive di obiezioni e di contro-obiezioni. Nessuno stupore, perciò, se molte posizioni espresse in quel libro sono state contestate, in varie sedi, da vari lettori. Anzi, io stesso non le ripubblicherei esattamente come allora e le modificherei, in maniera più o meno incisiva, a cominciare dal sottotitolo in cui compare un sostantivo - counseling - che nessuna aggettivazione è riuscita a strappare alle originarie connotazioni psicologiche e psicoterapeutiche. Da allora, se proprio devo tradurre l’italiano ‘consulenza’, preferisco l’inglese consultation ed anzi, più radicalmente, preferisco tematizzare la ‘filosofia-in-pratica’ piuttosto che la più problematica delle sue differenti concretizzazioni, la ‘consulenza filosofica’ appunto.
“La consulenza filosofica non fa politica”
La premessa un po’ storica ed un po’ autobiografica mi era necessaria per inquadrare uno degli attacchi più virulenti, più divertenti ma forse anche più ingiusti, che il movimento delle ‘pratiche filosofiche’ abbia sinora registrato, almeno negli ambienti culturali nostrani. Mi riferisco al pamphlet , intelligentemente pungente quanto sommariamente documentato, Il business del pensiero. La consulenza filosofica fra cura di sé e terapia degli altri, pubblicato da Alessandro Dal Lago a Roma, per i tipi di Manifestolibri, nel 2007. In esso l’autore, prestigioso sociologo, elenca una lunga lista di capi d’accusa, di cui alcuni ridicolamente infondate ma altre di qualche pertinenza. E dunque meritevoli di una discussione più analitica.
La prima imputazione - che è anche l’unica che interessa il taglio di questa mia riflessione - è che “la CF non fa politica” (p. 16). Infatti, “tra i principi impliciti o espliciti della CF uno si segnala per la sua assenza, cioè il silenzio sulla politica. (…) A prima vista, si potrebbe pensare a una manifestazione di quella ‘prudenza’, o capacità di giudicare nelle questioni pratiche che Aristotele definisce phronesis. Infatti, gli esempi storici di CF in campo politico documentano più che altro fallimenti ed equivoci. Platone, in fondo, decise di praticare la CF in grande stile quando offrì i suoi servigi a Dionigi il Vecchio e poi a Dionigi il Giovane di Siracusa, benché il primo lo vendesse schiavo e il secondo lo rispedisse a casa due volte. Andò meglio ad Aristotele, ingaggiato da Filippo per istruire Alessandro, anche se quest’ultimo non sembra essere stato un esempio di phronesis aristotelica. Da parte sua, Alessandro si portò una specie di consulente, Callistene, nella sua avventura asiatica, ma alla prima occasione lo mise a morte perché il filosofo, per ingenuità politica o hubris teoretica (o probabilmente per entrambe) osò paragonare le sue imprese concettuali a quelle guerresche del re. Kant invece pensava che per garantire una pace stabile gli Stati dovessero tener conto delle massime dei filosofi, ma, ahimé, questo non è mai accaduto, a partire proprio dal suo re, Federico II, che passò gran parte del suo regno a cavallo, alla guida dei reggimenti prussiani. A dire il vero, il nostro tempo ha conosciuto un filosofo, o self-appointed tale, che ha esercitato il ruolo di consigliere del principe. Eppure non ce la sentiamo di additare il suo esempio ai giovani. Si tratta di Francis Fukuyama che, tra gli altri, ha ispirato lo sciagurato progetto iracheno di G.W.Bush” (p. 16).
Arrivato a questo punto della brillante arringa di Dal Lago contro l’impotenza politica della filosofia occidentale classica, il lettore si chiede chi sia davvero l’imputato: che c’entra, infatti, il movimento contemporaneo della Philosophische Praxis con Platone, Aristotele, Kant? E che c’entra con uno studioso - Fukuyama - che nessun filosofo consulente ha mai citato e che, da parte sua, non mostra di aver mai sentito parlare di consulenza filosofica? Ma si tratta di pazientare un po’. Non avendo elementi diretti per attaccare, su questo versante, la CF, il furbo sociologo genovese ci prova trasversalmente: voi consulenti filosofici siete a-politici non solo perché, in quanto filosofi, siete ‘oggettivamente’ eredi di celebri tromboni falliti (come Platone, Aristotele e Kant), ma anche perché vi rifate a Socrate come modello mitico fondativo e perché rientrate nel filone millenario dello gnosticismo.
Vediamo più da vicino il tenore, e le pezze giustificative, di questa duplice accusa.
La consulenza filosofica e il mito di Socrate
La prima: “Più che di un giustificato ritegno, la reticenza in materia di politica è il frutto di una scelta filosofica conseguente. il motto socratico Gnoti seauton (’conosci te stesso’), già iscritto nel tempio dell’oracolo di Delfi, potrebbe campeggiare sugli stendardi della CF. Che si tratti di soluzione dei problemi, ricerca del senso o malattia dell’esistenza, i consulenti si rivolgono alla soggettività dei consultanti nelle varie accezioni filosofiche (razionalità, psiche, anima) e non alla loro esistenza pubblica. Possono apparire all’orizzonte problemi collettivi (per esempio, etici o religiosi) o in senso lato sociali, e perfino politici. E’ chiaro però che la via della conoscenza, del giudizio e della deliberazione passa essenzialmente dall’interiorità, secondo l’ingiunzione agostiniana: Noli foras ire, in teipsum redi, in interiore homine habita veritas. Et si tuam naturam mutabilem inveneris, trascende et teipsum. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur (De vera religione, 39,72). Dunque, la CF non ignora il fuori. Semplicemente - in questo,davvero erede di una tradizione più che bimillenaria - lo subordina all’interiorità. Anche nelle sua accezioni meno spiritualiste, la CF spinge alla riflessione su di sé (che è pur sempre una sospensione dell’atteggiamento ordinario della vita quotidiana e della sua routine) come accesso privilegiato alla propria verità, e quindi al mondo esterno. Nulla di nuovo sotto il sole e di scandaloso, ovviamente. Solo che in questa mossa - che non è occasionale, bensì, soprattutto nelle versioni più estreme della CF, costitutiva di un modo di orientarsi nel mondo - l’esterno viene ridefinito radicalmente. L’esterno è essenzialmente un’ombra dell’interiorità” (pp. 16 - 17).
Chi conosce anche solo superficialmente la letteratura internazionale e italiana sulla consulenza filosofica (ovviamente mi riferisco esclusivamente a quanto pubblicato prima del libro di Dal Lago), non può non restare stupito della infondatezza di queste sue asserzioni tanto perentorie quanto prive di riferimenti documentali.
In primis, il riferimento alla figura di Socrate non è per nulla condiviso unanimamente nel mondo dei filosofi ‘pratici’. Se infatti ciò è vero per alcuni (”Socrate era veramente saggio ma diceva alla gente che non sapeva niente e questo ne era un segno, la riprova della sua saggezza! Il nostro pubblico conosce questo trucco e lo ama. Così dobbiamo trattare con ciò che la gente si aspetta da noi: una saggezza ‘ignorante’ e senza presunzione” ), non lo è per altri (”il dialogo socratico” è “solo una caricatura della prassi filosofica. Socrate, infatti, plagia i suoi discepoli. Credo, al contrario, che il filosofo dovrebbe farsi interprete dei bisogni, delle identità e delle convinzioni profonde di chi esprime la propria opinione e non portare l’altro, come faceva Socrate appunto, verso la propria teoria” ).
La consulenza filosofica come antidoto alla spoliticizzazione della filosofia occidentale
Comunque stiano le cose in rapporto a Socrate, più rilevante è andare al cuore della questione: ’subordinare’ l’azione politica, la prassi in generale, insomma “l’esterno”, alla mente, alla progettazione riflessiva, insomma alla “interiorità“, costituisce un errore teoretico e un peccato etico? Pensare che la “riflessione su di sé” sia presupposto e fondamento dell’agire storico-sociale significa, sic et simpliciter, ridurre il mondo a “un’ombra dell’interiorità“? Certo la tesi di Marx ed Engels - secondo i quali non è la coscienza a determinare la sfera sociale ma la sfera sociale a determinare la coscienza - ha una parziale verità: ma, come attesta involontariamente la biografia dei due fondatori del comunismo moderno, mette in luce l’altra metà dell’intero. In realtà mi pare evidente che ci sia un rapporto dialettico fra soggettività e oggettività e che il filosofo, come ogni altro essere riflessivo e attivo, è tanto figlio quanto padre della storia in cui è inserito. Una storia che documenta abbondantemente la sterilità delle “armi della critica” puramente intellettuale così come l’autolesionismo della “critica delle armi” quando venga esercitata senza presupposti teorici, senza vigilanza etica e senza prospettive progettuali lucide e condivise. Una storia, insomma, che è zeppa di “anime belle” generosamente dispensatrici di sogni irrealizzabili, ma ancor più di gruppi dirigenti che hanno rovinato le più ardite rivoluzioni per ignoranza dei dati scientifici, per incapacità di gestire la propria avidità di denaro e di potere e soprattutto per la mancanza di una visione sinottica sapienziale. “Numerosi sono quelli che si immergono interamente nella politica militante, nella preparazione della rivoluzione sociale. Rari, rarissimi quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere degni”: non è un caso che il movimento della filosofia-in-pratica riconosca in Pierre Hadot , che non si è mai occupato di consulenza filosofica, uno dei propri punti di riferimento culturale.
Poiché, a differenza di Dal Lago, ritengo doveroso offrire al lettore prove documentali precise delle mie affermazioni, intendo non limitarmi ad argomentazioni indirette (quale potrebbe considerarsi il richiamo ad Hadot), ma approfondire la questione attingendo ad alcuni fra i più acuti studi sull’origine e il significato della filosofia-in-pratica (nella convinzione di maneggiare delle riflessioni che potrebbero rivelarsi illuminanti per la filosofia contemporanea tout court). Quando, nel 2000 e poi nel 2003, Alessandro Volpone si è interrogato sulle ragioni del ’successo’ - dagli sviluppi ambigui come nel caso di tutte le mode culturali - delle “pratiche filosofiche” non accademiche , ha in sostanza risposto: il XX secolo si è aperto all’insegna della crisi della razionalità occidentale; la Existenzphilosophie ha tentato di strutturarsi come rimedio a questa crisi ma non c’è riuscita; il movimento della filosofia-in-pratica si è attribuito la responsabilità di offrire quel rimedio che è ancora atteso. Mi interessa riprendere, brevemente ma con chiarezza, queste tre tappe dell’argomentazione di Volpone. La prima aggancia “la riscoperta negli ultimi decenni dell’esercizio pubblico della filosofia (a scuola, sul posto di lavoro, nel tempo libero, nelle vicissitudini private ecc.) alla crisi dei grandi sistemi di pensiero del Novecento. Il meccanismo alla base di una tale illazione giace nell’idea che, sgombrato il campo dai ‘deliri d’onnipotenza’ della ragione, a livello culturale, socio-economico, politico e persino ecologico (…), di possa finalmente (tornare) a parlare d’ideali a misura d’uomo. Non si tratta di ‘individualismo’, ‘relativismo’, ‘opportunismo’ o quant’altro. L’eclissi delle grandi ideologie e delle teorie unificatrici non è ‘la fine del mondo’: si tratta solo di un aggravio di responsabilità a livello individuale. Il singolo è sempre più spesso chiamato in prima persona a dover decidere per se stesso e per gli altri, fronteggiando problematiche non indifferenti (proprie o altrui). Ciò sarà tanto più evidente quanto più avanzato diverrà il processo di globalizzazione della nostra società, forse oggi solo all’inizio” . Ma - e siamo alla seconda tappa del ragionamento di Volpone - quali sono stati “i ‘limiti’ della filosofia di buona parte del Novecento che hanno impedito di poter arrivare prima d’oggi a una vera ri-scoperta dell’esercizio pratico filosofico pubblico” ? “Questi limiti sono rintracciati (1) nella spoliticizzazione della filosofia che assurge a scienza autonoma e (2) nel primato del commentario erudito sul vissuto concreto” . Se il movimento della filosofia-in-pratica (e siamo alla terza, ultima, tappa dell’argomentazione di Volpone) non riuscirà a liberarsi, in quanto filosofia, da questi due ‘limiti’, non potrà svolgere il ruolo per cui (con buona pace di Dal Lago e di quanti l’attaccano senza citare una sola riga degli scritti dei suoi esponenti più autorevoli) si è costituita: offrire spazi e occasioni “di natura eminentemente collegiale in cui ciascun singolo incontra le idee, le affina, mediante un trascendersi non fine a se stesso, un processo dialettico che origina dalla irriducibilità del mondo reale e riscopre costantemente, mediante riflessione critica, il concreto stesso” .
Tre scenari
La consulenza filosofica ’seria’ è dunque non effetto, allegramente consapevole, della spoliticizzazione della politica quanto, piuttosto, antidoto: tentativo di invertirne la direzione involutiva. E, andando oltre le pagine di Volpone in cerca di documentazione, si avrebbe solo l’imbarazzo della scelta. Potrei citare persino alcune mie pubblicazioni dai titoli inequivoci (Le ideologie del Novecento. Che cosa sono state, come possono rifondarsi ; Ripartire dalle radici. Naufragio della politica ed etiche contemporanee ), ma sarebbe troppo pretendere da uno studioso di livello internazionale come Dal Lago che si occupi delle cosette di un consulente filosofico di provincia, tanto più che - a suo avviso - in generale si opta per la consulenza filosofica quando non si è in grado di scrivere di filosofia ‘vera’ . Poiché però egli ha la bontà di citare - ovviamente per deriderlo - il mio libretto di introduzione al philosophical counseling , mi sarei potuto aspettare legittimamente che ne avesse letto non dico le pagine interne ma, almeno, l’indice. Se, in ossequio alla metodologia induttiva cui potrebbe essere aduso uno scienziato del sociale, lo avesse fatto, non avrebbe potuto fare a meno di imbattersi nel titolo del VII capitolo (Lavorare per un mondo migliore) con i relativi sottotitoli. Per brevità, vorrei qui concentrarmi sul paragrafo centrale dal titolo un po’ enigmatico Tre scenari.
Nelle righe immediatamente precedenti avevo citato, con totale consenso, un brano di Paul Ginsborg sulla necessità di salvare il Welfare State “attraverso l’introduzione di un ethos diverso, la preparazione non solo tecnica ma morale del personale, la fine del ‘posto’ nel pubblico impiego visto come una sorta di proprietà privata, l’offerta di un servizio di qualità, sanitario, amministrativo, televisivo a tutti i cittadini”. E vi avevo aggiunto, a mo’ di chiosa: “Per quanti sforzi d’immaginazione si possano fare, ritengo che per la formazione etica dei funzionari e impiegati pubblici - a meno di importunare con richieste incessanti i soliti Monsignori telegenici - non si possano trovare professionisti più idonei dei consulenti filosofici ‘laici’ ” (p. 105). Dato il taglio esperienziale ed operativo del mio testo, passavo dunque ad esemplificare - sulla base di alcuni seminari di formazione da me più volte collaudati - una possibile fondazione etica della prassi sociale, adottando il metodo che il filosofo ‘pratico’ Wilhelm Schmid denomina “optativo” : mostravo cioè i tre principali “scenari” teoretico-metafisici del panorama culturale mondiale attuale per esaminarne le ricadute di tipo morale, comportamentale, prassico. Più precisamente illustravo come da ciascuno di questi scenari sia possibile trarre conseguenze etiche ambivalenti, sia rinunciatarie che di impegno attivo: “Alcuni leggono la vita in uno scenario nichilistico. Essa, per loro, è una fuggevole avventura dal Nulla al Nulla. Ma questa ‘cattiva notizia’ (Edgar Morin), che può gettare alcuni nella disperazione e nel fatalismo immobilistico, è per altri ragione di solidarietà col prossimo (…). Altri leggono la vita in uno scenario panteistico. Essa, per loro, è un’onda passeggera nel grande mare dell’essere: viene dalla Natura, ritorna alla Natura. Anche questa prospettiva teoretica può suscitare, in alcuni, atteggiamenti etici rinunciatari: perché impegnarsi attivamente se il passaggio sulla terra è solo un’increspatura superficiale fra l’eternità che ci precede e l’eternità che ci attende? Perché sudare per modificare un mondo che è poco più di un’illusione? ma, ad altri, la stessa prospettiva panteistica suggerisce attitudini etiche ben diverse: se la Vita che pulsa nell’universo e nell’umanità è unica, come restare indifferenti alla sofferenza di uomini, animali e piante? Altri ancora leggono la vita in uno scenario monoteistico. Essa, per loro, è un dono precario del Donatore assoluto: viene dall’Amore e va verso l’Amore. la storia ha conosciuto delle versioni rinunciatarie del monoteismo, ad esempio alcuni modelli di cristianesimo, che hanno fatto della rassegnata accettazione della ‘volontà di Dio’ (in effetti, la volontà dei potenti di turno) la virtù suprema. ma lo stesso monoteismo, in altre versioni del cristianesimo, ha fondato e sollecitato esistenze donate per rendere visibile ed efficace nella storia l’Amore invisibile di Dio” (pp. 105 - 106).
Che c’entra la filosofia - in particolare la filosofia consulenziale - in tutto questo? Essa, a mio avviso, ha il compito di aiutare l’interlocutore a riflettere sul fatto che, sino a quel momento, egli si è riconosciuto in una delle possibili angolazioni sul mondo e che “essere pienamente uomini implica la consapevolezza di questa angolazione: per essere liberi di mantenerla o di superarla adottandone una nuova innanzitutto; poi per radicare in essa, quale che sia, le motivazioni profonde del nostro impegno sociale” (p. 106).
Su uno gnosticismo ignaro di sé
Ma torniamo alla requisitoria di Dal Lago che, certo del tutto preterintenzionalmente, sta offrendo un filo rosso prezioso per esporre, con una certa logica, alcuni servizi che la filosofia-in-pratica può offrire oggi alla politica. O, meglio, ai cittadini che volessero impegnarsi in una delle svariate modalità della prassi politica.
Abbiamo anticipato sopra che egli imputa la (supposta) a-politicità della consulenza filosofica a due principali vizi originari : il riferimento a Socrate e l’inserimento nel millenarismo gnostico. Sulla infondatezza della prima accusa, abbiamo detto abbastanza. Poiché Dal Lago, probabilmente, sospettava da solo che il passaggio da Socrate a una sorta di idealismo ingenuo ( “Il fuori esiste solo in quanto pensato dal dentro - come se un paesaggio potesse essere illuminato esclusivamente dalla luce della nostra casa interiore”, p. 17) potesse risultare “non immediatamente evidente” (ivi)., preferisce giocare al rialzo: non siete solo troppo socratici, siete anche un po’ gnostici. Ora: mentre, per quanto problematico, un riferimento a Socrate, nella letteratura delle pratiche filosofiche, lo si può trovare, impossibile - o quasi - risulta rinvenire anche solo un accenno alle fonti dello gnosticismo. Perciò Dal Lago deve andare giù duro: non siete solo un po’ gnostici, ma anche così ignoranti da non sapere di esserlo. Infatti è vero che “i praticanti filosofi nelle due versioni principali (conquista della felicità attraverso l’esercizio, problem solving) respingeranno con sdegno qualsiasi eredità gnostica” (p. 17), ma ciò non è una prova del fatto che essi non condividano, senza saperlo, “dell’atteggiamento gnostico sia la svalutazione del mondo esterno, sia un certo razionalismo operativo” (p. 18): “non si tratta dunque di stabilire un’impossibile genealogia delle pratiche filosofiche edificanti” (ah, è interessante apprendere che sarebbe “impossibile”…), quanto di “sottolineare che la radicale conversione verso l’interiorità di tali pratiche realizza una speranza che nessun dottore eretico del II o III secolo della nostra era avrebbe mai osato formulare: che in attesa della liberazione dal mondo questo debba essere ridotto a un’appendice della soggettività. Insisto. Nulla autorizza a stabilire una filiazione diretta tra la gnosi e alcune pratiche filosofiche moderne. Tuttavia, nonostante il loro richiamo a una tradizione di esercizi spirituali ortodossi e gli aspetti prosaici, le pratiche di CF hanno il senso di un ‘obliterazione gnosticizzante del mondo inteso come sfera pubblica. E ciò si traduce in un’accettazione, ammantata di letizia, delle attuali strutture mondane come immodificabili. Bisogna cambiare se stessi per abitare il mondo, quale che sia la nostra collocazione nel mondo. Stare meglio (conoscersi, filosofare, cercare la felicità interiore) nel mondo, non creare mondi migliori o almeno diversi - ecco l’intimazione neo-gnostica, consapevole o no, delle pratiche di CF. un’intimazione (…) perfettamente compatibile con la mobilitazione delle strutture mondane d’oggi (economie, poteri, ideologie) a favore di un attore sociale produttivo, spoliticizzato e rispettoso dell’autorità. In questo senso, un’intimazione letteralmente reazionaria, perché si pone in antitesi sia con passate stagioni di ricerca della felicità pubblica, sia con le spinte attuali a non accettare a priori, a partire dalla soggettività, il mondo com’è” (ivi).
Penso che le pagine precedenti, soprattutto quelle in cui richiamo il saggio di Volpone sulla filosofia-in-pratica (quale antidoto alla spoliticizzazione della filosofia moderna e contemporanea) e il mio capitolo sulla necessità di ritornare alle proprie matrici filosofiche per trarne ragioni di impegno socio-politico, siano sufficienti per mostrare quanto mirati e quanto documentati siano gli attacchi di Dal Lago. Essi, comunque, possono essere utilizzati come predellina per qualche istruttivo salto in avanti.
Innanzitutto va dato atto al sociologo dell’Università di Genova che le sue critiche, infondate se formulate verso tutti e verso nessuno, possono essere invece pertinenti nel caso di filosofi (e affini) che, da presso o da lontano, stanno provando a cavalcare l’onda delle pratiche filosofiche. Che una Collana editoriale dedicata ad esse ospiti, accanto a volumi indubbiamente radicati in esperienze di anni e in riflessioni creative, testi di intonazione oracolare come L’Autopsia filosofica. Il momento giusto per morire tra suicidio razionale ed eternità (Apogeo, Milano 2007) in cui forse (per chi riesce a decifrarne le pagine) c’è filosofia ma certamente manca ogni traccia di pratica professionale, è segno che i baroni universitari e i manager dell’editoria hanno fiutato dove va - o potrebbe andare - il vento e vogliono cogliere al volo l’occasione per piazzare, ad un pubblico di lettori sinceramente desiderosi di cogliere nuovi aspetti del filosofare, elucubrazioni di sapore parmenideo.
Ma, andando al di là della polemica, più adatta a distruggere che a edificare, la discussione può costituire un’occasione preziosa per valorizzare alcune considerazioni che - come le precedenti, se non erro - rischiarano alcuni aspetti della filosofia-in-pratica e, più ampiamente, dei possibili risvolti politici della filosofia contemporanea.
Come si è avuto modo di notare sopra, il precetto delfico “Conosci te stesso” è diventato - grazie a Socrate, o piuttosto a Platone - una sorta di criterio ispiratore della filosofia occidentale (o, almeno, di alcuni suoi assi portanti). Ma ci sono almeno due possibili interpretazioni: la soggettivistico - psicologica e la ontologico - filosofica. Secondo la prima, il precetto, “talvolta abusato come fondamento delle varie psicoterapie”, avrebbe “il significato di una conoscenza di sé medesimo” e delle “personali capacità individuali”; secondo l’altra, richiederebbe, invece, “la verità dell’uomo in sé e per sé”. Solo questa “verità” - il disvelamento dell’essere umano come cifra dell’essere in generale, come ologramma in cui il reale si concentra e di racconta, come microcosmo in cui si rende accessibile la trama segreta del macrocosmo - può offrire “salus, salute in senso forte (come anche Badiou usa la parola) e significa la fine dell’ alienazione, l’assoluta gioia del presente, la nullificazione di ciò che può fare male”: “una verità che non offre una concezione della salute personale in quanto accomodamento sociale o come strumento più o meno efficace per ‘tirare avanti’ nella quotidianità“. . Se è così, sarebbe erroneo leggere Socrate con gli occhiali di Cartesio e scambiare l’invito a conoscere l’antropos come fiore emergente della fusis con l’invito a conoscere autointuitivamente se stessi in quanto solitari soggetti conoscenti. Né meno erroneo sarebbe ridurre l’impresa filosofica, fosse pure l’impresa della filosofia-in-pratica, a “cura di sé”.
All’argomento Neri Pollastri - presidente di Phronesis - ha dedicato un paragrafo che meriterebbe d’essere riportato per intero. Dopo aver ammesso che ci sia qualcosa di vero nel ritenere che “in consulenza vengono di solito persone preoccupate da problemi esistenziali” da aiutare “a prendersi cura di loro stessi, del sé”, si affretta a precisare che questa dimensione non può considerarsi esaustiva perché “la parte prioritaria e più importante del lavoro di consulenza filosofica” consiste proprio “nel non prendersi cura di sé”. Cosa significa davvero questa affermazione “sorprendente, se non paradossale”? “In effetti , in un certo significato del termine, il consulente filosofico si occupa realmente della persona del consultante, del suo sé; tuttavia, egli lo fa in modo del tutto particolare: si occupa specificamente della sua concezione del mondo. Ora, quest’ultima, è certamente parte del sé, ma la tempo stesso lo trascende ampiamente: idee, teorie, concezioni, valori che costituiscono una concezione del mondo si sporgono fuori dal soggetto che l’ha elaborata e a cui essa appartiene, tendono idealmente a un’oggettività, si congiungono all’altro da sé tessendo una trama intersoggettiva e giungendo in tal modo a riposizionare, relativizzandolo, lo stesso sé. In questo sta la ricchezza dell’approccio filosofico alle problematiche della quotidianità: ricollocando lo stato soggettivo entro una cornice più ampia e profonda, sposta l’attenzione dal sé - alza lo sguardo del consultante, fin lì fisso ’sul proprio ombelico’ - e la dirige su quella multiforme realtà che lo circonda e che, interagendo con lui, ne costituisce l’identità stessa. In tal modo, l’approccio filosofico chiarifica e rafforza l’identità del sé trascendendolo, giustappunto smettendo di preoccuparsi di esso e di prendersene cura. Assumendo invece una posizione etica, responsabile nei confronti del mondo circostante, nel quale il valore di sé trovi un giusto equilibrio nella relazione con gli infiniti valori che lo circondano. In questo senso, la consulenza filosofica può essere anche ‘cura di sé’, ma è sempre ben più che solo questo, e anzi non è neppure detto che lo sia sempre”. Lontano mille miglia da ogni “tentazione gnostica” paventata da Dal Lago (p. 17) , Pollastri non ha dubbi: “il sé non è l’unico oggetto intorno a cui ruota la consulenza e (…) , anzi, non è neppure il principale”. Infatti, “quel che caratterizza la consulenza filosofica è il fatto che non è il soggetto il centro dell’indagine, dato che quest’ultima si allarga - idealmente, ma anche intenzionalmente - alla totalità dell’esistente. Il soggetto stesso trova il suo senso e, conseguentemente, le vie per conferirne uno alle difficoltà della sua esistenza, proprio attraverso il trascendimento della propria soggettività e la sua ricollocazione in una oggettività costruita intersoggettivamente con il consulente e, per suo tramite, con la tradizione del pensiero filosofico - idealmente, con l’umanità tutta. Dunque, ancora una volta per fare chiarezza e non confondere acque già torbide, sembra opportuno ribadire in modo netto che la consulenza filosofica non è cura di sé, perché non è il ’sé’ che vi conta principalmente. Essa può essere al massimo ‘cura del mondo’ e perciò includere anche, in una sua parte, la cura di sé (dato che anche il sé è parte del mondo), ma è importante evitare di ridurla tutta a questa sua parte, cosa che sarebbe pericolosamente parziale e forviante” .
In che modo il filosofo può servire la politica
Nel 1968 - per convenzione si potrebbe dire: sino al 1977 - la mia generazione di giovani filosofi fu segnata dallo slogan “tutto è politica”. Inteso nel senso che ogni attività umana, anche il pensare, avesse come unica finalità la prassi politica e dovesse essere valutata con l’unico metro di giudizio della sua incisività politica (sia in senso progressista sia in senso conservatore o addirittura reazionario), era senza dubbio uno slogan falso. Ma in un altro senso - ogni attività umana, anche il pensare, pur avendo un proprio statuto originale e delle proprie finalità specifiche, comporta comunque anche delle inevitabili ricadute politiche di cui si deve avere consapevolezza e controllo - aveva una sua validità che nessuna oscillazione delle mode culturali dovrebbe oscurare (come, mi pare, sia avvenuto dall’ultimo ventennio del secolo scorso ai nostri giorni). Il filosofo non può asservire le sue proposte interpretative agli interessi di un ceto sociale, di uno Stato o di un movimento d’opinione (per quanto politicamente corretto, anzi meritevole di supporto): si trasformerebbe in ideologo - nel che non ci sarebbe nulla di male, a patto di sapere e di dichiarare che si tratta di un mestiere del tutto diverso. Ma non può neppure fare finta di pensare “da nessun luogo”, come se ogni sua asserzione su ciò che è non fosse condizionata storico-socio-politicamente e, a sua volta, non condizionasse la storia, la società e i rapporti politici. Egli è chiamato, dalla sua stessa condizione di intellettuale, a conoscere e a gestire gli effetti - diretti o indiretti, intenzionali o preterintenzionali, emancipatori o oppressivi - delle proprie teorie. In un altro passaggio del suo libro, Pollastri afferma che “nonostante la sua metodicità e il suo rigore, la filosofia è libertà di pensiero ed è fondamentalmente critica dell’esistente - delle sue ‘forme’ e ‘istituzioni’, di ogni rigidità e autorevolezza delle regole - anche se non è mai detto a priori se questa regola possa portare a una sovversione dell’esistente o a una sua meditata e consapevole riconferma” . Si può provare a determinare più in concreto come potrebbe declinarsi questa responsabilità politica del filosofo in quanto filosofo?
Per farlo, bisognerebbe distinguere le varie tipologie di regime in cui un filosofo si trova a vivere. Una cosa infatti è pensare sotto una dittatura, un’altra in un sistema democratico, un’altra ancora - come mi pare ci si trovi attualmente nel nostro Paese - in un sistema di democrazia ‘formale’ ma non ’sostanziale’ (si potrebbe forse dire: in un regime di dittatura della maggioranza). Se mi si esonera dalla (in sé doverosa) argomentazione politologica che potrebbe giustificare la mia tesi sull’attuale regime italiano di democrazia ‘approssimativa’, e si ammette tale tesi solo a titolo di ipotesi, potrei così sintetizzare il ruolo - ad un tempo necessario e insufficiente - del filosofo rispetto alle dinamiche socio-politiche.
Egli avrebbe, innanzitutto, il compito di promuovere quella “democratizzazione della conoscenza” - o “democrazia cognitiva” - su cui più volte ritorna Edgar Morin , nella convinzione che dare a tutti i cittadini adulti il potere di voto, senza accompagnarlo con il potere di capire i termini delle questioni su cui deve esprimere il proprio voto, significa destinare un sistema sociale al suicidio. L’opera di alfabetizzazione politica elementare è compito dei giuristi o degli storici, dei sociologi o dei pedagogisti, dei politologi o degli economisti? Da quando, nel 1992, ho fondato a Palermo l’associazione di volontariato culturale “Scuola di formazione etico-politica G.Falcone” , mi sono reso conto che solo un lavoro di squadra - e di una squadra affiatata, che coopera stabilmente, non episodicamente - può tentare l’impresa. E, affinché l’interazione fra i vari punti di vista disciplinari funzioni, ma soprattutto affinché la proposta sintetica conclusiva non abbia lo statuto di un catechismo ideologico da impartire, in questa squadra non può mancare - senza alterigia ma senza complessi d’inferiorità - il servizio di un filosofo. A lui soprattutto - anche se non esclusivamente - spetterà di curare l’offerta formativa in modo che appaia (e soprattutto in modo che sia realmente) una proposta da esaminare criticamente - da accogliere o rifiutare o rielaborare - e non certo una mossa di indottrinamento strategico. Su questo aspetto della rinascita delle pratiche filosofiche hanno insistito recentemente due docenti dell’Università di Siena: “La mirabile sintesi tra idee e stile di vita, teoria e pratica, che era stata raggiunta da molti filosofi (Socrate, Epicuro, Seneca, Montaigne, Spinoza), si è persa nel tempo; le idee si sono come disincarnate rispetto alla vita, sono diventate astrazioni dotate di esistenza autonoma, e la filosofia ha finito per diventare un mestiere riservato a professionisti della materia, per lo più insegnanti di scuola e di università. Questa situazione sta lentamente cambiando da una ventina d’anni a questa parte. Da quando hanno cominciato a prendere campo, anche per la crisi di altri saperi (religione, politica, psicologia), diverse forme di pratiche filosofiche: stili e modi di pensiero nuovi, che si richiamano all’originaria impostazione della filosofia intesa come regola di vita: non solo sophia, dunque, ma anche phronesis; conoscenza, certo, ma anche saggezza, pensiero in esercizio, arte di vivere bene e strumento di soluzione ai problemi della vita. Accanto a questa impostazione pratica, la filosofia sta recuperando (seppure tra molteplici resistenze) anche la propria originaria vocazione di sapere pubblico, diffuso, aperto; non una sapienza superiore, inaccessibile, riservata a pochi eletti, ma un criterio di condotta ispirato alla saggezza e di facile comprensione, che sia per ciò stesso accessibile a tutti, filosofi e non filosofi, uomini e donne, giovani e vecchi; un pensiero in azione nella vita di tutti i giorni che sappia far propria la massima socratica che solo una vita esaminata, cioè vissuta in modo autentico e in piena consapevolezza, si libera dall’istinto e acquista valore morale. Molti filosofi, antichi e moderni, antichi e moderni, hanno sottolineato questa vocazione pratica e democratica della filosofia” .
In una democrazia, per quanto ‘approssimativa’, il lavoro di base - il lavoro con la base e per la base elettorale - è prioritario dal punto di vista logico, assiologico e cronologico. In mancanza di esso, come ci insegna la storia anche recente, non ci sono molte alternative possibili: o una dittatura sul proletariato mascherata da dittatura del proletariato (del tutto illusoriamente rivoluzionaria: ogni volta sposta le lancette della storia di qualche secolo ) o un leaderismo plutocratico mascherato da populismo plebiscitario (del tutto illusoriamente conservatore: ogni volta distrugge le acquisizioni di civiltà che meriterebbero d’essere gelosamente preservate).
Solo se la filosofia - attraverso l’attività di pensatori ‘praticanti’ non necessariamente geniali, ma di solida preparazione e di autentica passione per la ricerca - penetrasse con i suoi dubbi, la sua memoria, le sue ipotesi e le sue intuizioni, nei gangli della società ‘civile’, sarebbe politicamente possibile (e avrebbe senso) che alcuni filosofi-in-pratica entrassero, come rappresentanti dei cittadini, nelle istituzioni dello Stato (in altri organismi sovranazionali). Sia che questo inserimento avvenisse in un piccolo Comune di provincia sia che si realizzasse al Parlamento o al Governo, il tipo di funzione sociale resterebbe, in sostanza, il medesimo delineato per la militanza di base. Infatti i filosofi (non sto parlando dei professori di filosofia dediti all’ermeneutica dei testi ‘classici’: fanno già egregiamente, nelle biblioteche e nelle aule universitarie, un prezioso lavoro senza il quale la tradizione filosofica appassirebbe o si interromperebbe), nei consessi deliberativi come negli organi esecutivi, dovrebbero autointerpretarsi come presenza insostituibile (perché professionalmente portatori di “uno sguardo interdisciplinare e transdisciplinare che favorisca la comunicazione fra gli interlocutori e li solleciti a guadagnare un punto di vista sinottico” ), ma radicalmente inadeguata (perché professionalmente incompetenti “quando si tratta di lenire sofferenze psichiche o dirimere controversie amministrative” ). Essi dovrebbero vedersi né più , ma neanche meno, di una sorta di lievito che non resta inutilizzabile senza impasto da lievitare. Proprio come l’impasto non diventa pane senza un lievito che l’abbia metabolizzato dall’interno.
Mi rendo conto di stare minando un pregiudizio diventato ormai ’senso comune’: che la politica sia un affare di tecniche (da affidare a specialisti dei vari settori: al medico, al generale, al docente universitario, all’imprenditore…). Ma se è vero che per decidere il sistema di approvvigionamento dell’energia più opportuno (nucleare, eolico o solare?), o la modifica di un articolo della Costituzione, è imprescindibile una corretta informazione ’scientifica’ da parte degli esperti - in mancanza della quale l’istituto del referendum è una buffonata demagogica - , in ultima analisi l’opzione è metascientifica: è un’opzione “fra diversi modelli di civiltà” che “si basa certo sugli apporti degli storici, sulle analisi della sociologia, sulle previsioni degli economisti, sul parere dei giuristi…ma che, in quanto resta un’opzione politica, si basa sulla propria idea di uomo, di mondo e di futuro. Dunque, sulla propria prospettiva filosofica” .