giovedì 2 aprile 2009

Storie di alti prelati e gangster romani


“Centonove” 27.3.09

MAFIA INTERNATIONAL

Tra i luoghi comuni più resistenti a proposito di mafia c’è senz’altro la convinzione che si tratti di un fenomeno localizzato, limitato ad alcune zone della Sicilia. Invece la mafia - senz’altro radicata nella nostra regione - ha condizionato e condiziona la storia nazionale in misura difficilmente esagerabile. Una riprova documentata di questa ampiezza d’incidenza storica è offerta dall’ultimo libro di Rita Di Giovacchino, “Storie di alti prelati e gangster romani. I misteri della chiesa di sant’Apollinare e il caso Orlandi” (Fazi editore) che nei giorni scorsi è stato presentato e discusso, nell’auditorium Rai di Palermo, dall’autrice, dal giudice Paci, dai giornalisti La Licata e Amadore nonché dallo storico Marino. Il libro indaga su vicende apparentemente lontane dalla Sicilia, soprattutto sulla misteriosa sparizione - avvenuta il 22 giugno 1983 - della giovane cittadina vaticana quindicenne Emanuela Orlandi: una vicenda irrisolta che nel giugno 2008 è stata rilanciata dalle dichiarazioni spontanee di Sabrina Minardi, amante storica di Enrico de Pedis, uno dei capi della famigerata Banda della Magliana. La signora dichiara che Emanuela è stata allora rapita dal boss su ordine del vescovo Marcinkus e, in un secondo tempo, uccisa e gettata in una betoniera. Le autorità giudiziarie stanno verificando, per quanto possibile dopo un quarto di secolo, la fondatezza delle tardive rivelazioni che però gettano una nuova luce su alcuni dati di fatto incontrovertibili: primo fra tutti che De Pedis, morto assassinato, è stato seppellito proprio in quella chiesa di sant’Apollinare a Roma nei cui pressi si sono perse, a suo tempo, le tracce della ragazza scomparsa.

L’ipotesi dell’autrice, giornalista del “Messaggero” dal 1983, è che il rapimento della Orlandi sia stato il primo passo di una strategia (fallita in itinere) di ricatto affinché la Città del Vaticano si rendesse in qualche modo responsabile dei trecento miliardi di dollari che, secondo gli inquirenti, la mafia siciliana aveva affidato a Roberto Calvi per riciclaggio e investimento speculativo ma che, invece, erano affondati nel buco nero del crack del Banco Ambrosiano. Un disastro finanziario che, secondo Masino Buscetta, sarebbe costato a Calvi la vita stessa. Infatti il noto ‘collaboratore di giustizia’ ha raccontato ai giudici che, trovandosi davanti al televisore quando passava la notizia del suicidio del banchiere sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, Tano Badalamenti gli disse: “Ma quale suicidio, a quello lo hanno ammazzato e Calò c’è dentro fino al collo”. Calò - don Pippo Calò - plenipotenziario a Roma, capitale politica e affaristica, dei palermitani e dei corleonesi, attualmente all’ergastolo in quanto riconosciuto colpevole della strage terroristica del 23 dicembre 1984 (bomba sul treno Napoli - Milano): un altro avvertimento della mafia, questa volta diretto ai tanti esponenti dello Stato italiano - onesti o corrotti - che avessero voluto girare pagina dopo una troppo lunga stagione di intrighi, collusioni e complicità.
Magistrati e storici hanno ancora molto da scavare per rintracciare tutte le connessioni sepolte che hanno legato le cosche mafiose, avvinghiate al territorio di domicilio, con organizzazioni criminali lontane e con pezzi deviati delle istituzioni. E, quando l’oscura fase politica che stiamo attraversando lo consentirà, si potrà affrontare la lotta al sistema di potere mafioso con la consapevolezza che non si tratta di una piaga puntiforme ed isolabile, bensì di una cancrena che inquina il tessuto sociale e morale dell’intera nazione. E, tendenzialmente, della stessa Unione Europea.

Augusto Cavadi

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